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La strada
di Carla Montuschi
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Un trasloco è quasi sempre un trauma,  talvolta un’opportunità.

Una lunghissima processione di cosette nere che si affannavano a tracciare un possibile percorso fra filo e filo d’erba, formò inaspettatamente una linea   che risultava visibile, in vero,  solo ad un osservatore acuto.

Ricominciare la vita altrove fu il principio,  l’imperativo che mosse il  gruppo e, di sorpresa, nel mondo  che un momento prima sembrava essere una vastità caotica, comparve una direzione al contempo tremula e decisa.

La mia nascita avvenne proprio così, dopo un intenso acquazzone che costrinse una comunità di formiche ad affrontare la distruzione con epica caparbietà, senza sprecare un solo attimo di vita in vana autocommiserazione.

La quotidianità traccia solchi  sempre più evidenti  ed il “vai e vieni” che sembra essere difficile solo all’inizio, presto diventa consueto, perde il fascino della sorpresa ed acquisisce un senso illusorio di sicurezza, quella che dovrebbe riportarti sempre nel medesimo luogo, il capolinea delle giornate dei più, ovvero “casa”.

Così le formiche trovarono la loro nuova casa, mandando avanti gli esploratori, coraggiose  e rare unità nate per dedicare la loro vita all’incerto. Non capita spesso che qualcuno sacrifichi volontariamente le proprie sicurezze in onore della curiosità, i più preferiscono il calore e l’anonimato del branco. L’incerto non porta sempre a dei risultati e perseguirlo significa accollarsi il rischio di coincidere con il fallimento, la beffa di essere poi accusati di aver voluto fare il “passo più lungo della gamba”. Ma quando si è vincenti  tutto il branco ne trae giovamento e proprio il branco, dimentico della volontà di lapidarti nell’attimo del fallimento, tramuta la sua follia in  gioia e ti erge ad eroe sul piedistallo di un giorno. Già, tanto dura l’onore di una vittoria, che a dispetto della ben più duratura onta del fallimento, vien lavato via in un sol giorno.

Un buco minuscolo nel mio percorso rivelava l’ingresso di un mondo sotterraneo fatto di celle e viottoli intrecciati. Ogni strada si diramava in un numero infinito di scelte che conducevano tutte nel medesimo luogo, la cella dove la regina, cuore e cervello di quella brulicante comunità, riproduceva in continuazione nuovi individui  che, come cellule del suo stesso corpo, diventavano membra.

Attraverso di loro ella diveniva libera ed usciva allo scoperto. Quei suoi figli erano gli occhi sul mondo, la possibilità di muoversi ed al contempo la sua vulnerabilità. Il dovere riproduttivo veniva quotidianamente barattato con la libertà ottenendo in cambio cieca ubbidienza, protezione e nutrimento. La regina era schiava del suo compito ed i suoi figli schiavi di quel suo rinunciare alla libertà, ma di  tutti questi  amari compromessi ciò che traspariva in superficie era solo un operoso ed organizzato brulicare.

Gli altri insetti approfittarono, via via che il tragitto si fece più definito, di quel passaggio che di giorno in giorno divenne sempre più frequentato. Migliaia di zampette calpestavano il mio suolo tracciando delle piccole deviazioni che talvolta divenivano vere e proprie varianti, talvolta i binari morti di opzioni sbagliate.

La calura dell’estate  e l’esiguità delle piogge contribuirono a render polveroso e spoglio il mio profilo, tanto che la sua esistenza ora si poteva scorgere anche dall’alto.

Fu proprio in un giorno di arsura di mezz’estate che da un telo steso poco distante si alzò un ragazzino. Egli, incuriosito, cominciò ad inseguire  un’enorme briciola del suo panino che veniva  trasportata sulla schiena di alcune operaie e mise i suoi piedi su di me, quel giorno per  la prima volta  fui percorsa da un piede umano.

L’erba secca si curvò sotto il peso lieve della gioventù e dell’irruenza cosicché  un grappolo di ragazzini curiosi seguì  su e giù, per lo stesso tragitto, le formiche.

D’un tratto il cielo si rannuvolò e folate di vento caldo spazzarono via i ragazzini ed i loro genitori. Gocce grandi come biglie cominciarono a lacrimare dal cielo. Cadendo rimbalzavano sulla polvere che era talmente arida da rifiutarsi di essere abbracciata dall’acqua, sembrava come se la mia superficie, resa dura dal calore del sole, fosse impermeabile. Il piccolo solco si vuotò di vita e le formiche affannosamente cercarono rifugio nel ventre della terra, le poche incaute ritardatarie vennero trascinate via da un rivolo che, visto dalla loro prospettiva, era impetuoso come un fiume arrabbiato.

Il cielo venne squarciato da boati e lampi che illuminarono il paesaggio in istantanee surreali sino a notte inoltrata. Ad un certo punto, quando tutto sembrava ormai essersi calmato, cadde un ultimo lampo che come una punizione colpì un vigoroso albero che si ergeva poco distante dal formicaio. Il cielo volle punire la presuntuosa bellezza di quell’essere che sembrava sfidarlo, volle mutilare il maestoso incanto di quella mano le cui dita parevano conficcarsi fra nuvola e nuvola. L’albero prese immediatamente fuoco e bruciando con devastante vigore illuminò, come se fosse una torcia gigantesca, i profili delle case cui prima non avevo mai prestato attenzione .

Gli uomini non erano poi così distanti.

Quella notte, dopo l’incendio dell’albero, vidi le finestre accendersi una dopo l’altra e poco dopo dalle case un altro tipo di brulicare convulso, raggiunse i miei passi  con secchi d’acqua e di sabbia. Urla scoordinate cercavano di tenere sotto controllo la situazione e con non poco sforzo il fuoco venne infine domato.

Il profumo della terra umida di arresa si mischiò al profumo del legno bruciato. Era un odore al contempo dolce ed agro, aveva l’essenza dolce che sapeva di natura e di libertà ma al contempo conteneva in sé il gusto agro della dura realtà, quella che non risparmia il destino di un individuo solo perché è nel pieno vigore dei suoi anni. Tanti anni spesi a crescere per elevarsi sino al cielo ed ampliare così le vedute, tanti anni divennero una sola manciata, polverizzati  in una sola notte. Fu un monito per tutti.

Il giorno dopo l’erba cominciò a non poter più crescere sui miei passi, in quanto schiacciata da una macabra processione di piedi  che portava i pettegoli a vedere la morte dell’albero. Le formiche avevano già traslocato all’alba portando in salvo la loro regina la quale aveva dato ordine di spostarsi, poiché già presagiva quello che sarebbe accaduto, sapeva che non avrebbe potuto tollerare il frastuono del continuo calpestio dei curiosi.

Come si celebra il funerale di un albero? Un azzurro beffardo si prendeva gioco del moncherino annerito che adesso non era più in grado di competere con il cielo. E se quella mano fosse stata un invito invece che una sfida? Il cielo, vasto e possente non si pose neppure il dubbio, reso sicuro dalle proprie insicurezze, il cielo giudicò fosse bene sedare ogni tipo di proposta prima che divenisse ingestibile. Lasciarsi andare ad un incontro avrebbe potuto significare aprire la porta ai sentimenti  e lasciar fluire un poco di sé con il rischio inevitabile di venire giudicati nel profondo.

La distanza è sempre una soluzione sicura per non mettersi in discussione.

Anche la novità dell’albero bruciato in breve si sdrucì sino a che sentii arrivare da lontano il cigolare della ruota di una carriola. Quattro uomini muniti di corde, scuri ed una  sega dai denti minacciosi avevano deciso di terminare l’opera del cielo e, complici di quel delitto, di far sparire anche lo spettro  rimasto.  Li sentivo parlare, sembrava che giustificassero il loro gesto con la necessità di rendere sicuro quel posto, dato che i ragazzini avevano preso la malsana abitudine di arrampicarsi su quanto rimasto, per poter ampliare le loro vedute. Temevano che sfidare il cielo non avrebbe portato bene e che il monito, già chiaramente dato, dovesse essere rispettato.

L’albero oppose strenua resistenza agli intenti e le fronti degli uomini si imperlarono di gocce di sudore che sgorgarono così copiose da cadere  sul terreno. Il sudore e la fatica atta a cancellare si mischiò alla linfa secca, alla fatica di crescere per essere. La mia terra accolse il gusto nuovo dei due estremi e li riassunse in un’unica sensazione, la paura.

Se solo gli uomini avessero saputo ascoltare, si sarebbero resi conto che mischiato al sibilo dei denti della sega c’era il canto triste e soffocato dell’albero. Se solo gli uomini avessero saputo fermarsi un momento, si sarebbero resi conto del fremito che scuoteva lieve le corde che cingevano il tronco possente dell’albero. Uomini ed albero tremavano di paura ma bisognava andare avanti. Lo spettro dell’albero deturpava l’armonia ipocrita del paesaggio, ora inverdito dalle piogge copiose dell’ultimo sprazzo di estate, dunque bisognava rimuoverlo a qualunque costo.

La carriola costretta dal pesante  fardello del legno segnò in modo ancor più netto il tragitto che si snodava dall’albero alle case. Dovettero compiere avanti ed indietro più di una ventina di viaggi per sgombrare il campo, ma la parte più dura che il destino riservò a quei quattro uomini fu quella di dover  rimuovere le radici.

Le radici dell’albero erano infatti solidamente avvinghiate alla mia terra e benché ormai la vita non le attraversasse più da parecchio tempo, sembrava non volessero saperne di mollare la presa. In vita le mani dell’albero erano due:  una era protesa verso il cielo, l’altra traeva nutrimento e sicurezza dalla terra. Se solo il cielo fosse stato meno arrogante, forse si sarebbe accorto che quella mano non era stesa per prendere ma al contrario per dare, desiderava semplicemente rendersi  tramite dei misteri della terra.

La caparbietà talvolta è ottusa, e senza rendersi conto di ciò che sta facendo ottiene i suoi risultati “per principio” dopo aver perso di vista, durante il tragitto, il senso del fine ultimo, dello scopo. Sicché solo dopo che è svanito anche l’ultimo ardore della pulsione solo allora, nella quiete di una sorta di ragionevole stanchezza, ci si ferma un momento e quasi per la prima volta ci si scopre a domandarsi il perché, quale sia il senso dell’obbiettivo raggiunto.

Rimase una voragine nel terreno, vuoto e zolle rivoltate miste alla segatura.

L’inverno non si fece attendere e la neve che cadde  copiosa  occultò lo scempio di quella mancanza. Il profilo del mio percorso fu però mantenuto vivo dai segni degli slittini dei ragazzi, i quali inconsciamente mantennero viva la consuetudine di andare sulla tomba del grande albero.  Senza che nessuno sapesse spiegarsi il perché sciami ragazzini festanti si trovavano proprio lì a fare a palle di neve, a ridere ed a vociare.

Intanto gli uomini costruivano e costruivano,  le case crescevano intorno  come funghi e sempre meno terra restava libera di respirare.  

In primavera, con i bucaneve, vidi crescere una scuola. Distava non più di cento passi dal vuoto lasciato dal grande albero ed era come se i ragazzi avessero deciso con il loro andare e venire ove essa dovesse essere costruita. Non aveva un granché di poetico. Era un cubo prefabbricato di cemento atto ad ospitare una sola sezione di ragazzini dalla prima alla quinta elementare. Crebbe veloce e senza nessuna pretesa, progettarono giusto lo spazio per nutrire la mente in quanto quello che avrebbe nutrito il fisico era fuori, una gigantesca palestra all’aria aperta.

Ricevetti  a fine della primavera il mio primo riconoscimento. Mi lastricarono con una serie di mattonelle autobloccanti delimitando i  miei fianchi con un cordolo che confinava con il prato. Vi fu persino una cerimonia ufficiale in cui il sindaco, pronunciando parole importanti, inaugurò l’inizio di un era di cultura e di comodità, motivo di vanto dell’intero paese. Prima della costruzione di quella scuola i ragazzi erano infatti costretti a percorrere alcuni chilometri per recarsi nella scuola di un paese confinante,  ma la crescita demografica era diventata tale da rendere impellente il bisogno di rendersi autonomi. Tutti i cittadini parteciparono allo sforzo della  costruzione della scuola, chi con modesti contributi economici, chi in modo del tutto concreto offrendo la propria manovalanza.

Il primo giorno di scuola è un traguardo. Imparare a leggere ed a scrivere è una magia che coincide con il divenir grandi.

Ognuno affrontava quel giorno in modo diverso. I passi che mi percorrevano risuonavano di emozioni sempre nuove, sempre intense. C’era chi esitava incredulo, chi saltellava fremente, chi procedeva con fare deciso, chi sostava pensieroso. Mi abituai presto al riversarsi festante di piccoli passi che si muovevano orchestrati dal suono della campanella,  fino a che un giorno accadde qualcosa di diverso.

Era l’inizio di un nuovo anno scolastico, era l’inizio di  un tiepido settembre come tanti altri. Dopo essere stata abbandonata nei mesi estivi ero finalmente stata ripulita ed aggiustata per accogliere gli scolari, ero nuovamente pronta a contenere e guidare le loro gioie ed i loro affanni. Sentii in quell’anno uguale a tanti altri, dei passi che erano diversi. Percepii dei passi di una leggerezza mai sentita prima. Erano chiaramente i passi di una mamma e della sua bimba che procedevano schivi da ogni altro contatto umano. Sentii la tristezza di quei piedi minuscoli percorrermi l’anima sino al momento del cancello. La madre si arrestò, udii il saluto quieto e l’incoraggiamento che ella fece nei confronti della sua piccolina a procedere da sola. La bimba si fermò lungamente a fissare la madre voltandosi solo per celare una lacrima che ruzzolò calda sul mio manto. Nello stesso istante la madre, voltandosi,  fece cadere dal suo volto una lacrima gemella. Fu la prima volta che la mia terra assaporò il gusto salmastro della tristezza.

C’è chi nasce con quel  gusto dentro, un mare difficile da prosciugare che ti accompagna per una vita intera rendendo ogni sensazione molto più vivida del normale. La chiamano sensibilità. Pare che sia un modo di essere che predispone a comprendere più di altri ma che al contempo impedisce di abbandonarsi alla leggerezza, alla spensieratezza. La brama di conoscenza talvolta si fa morbosa e condanna ad esser schiavi del fascino del dettaglio, prigionieri di valutazioni che agli occhi dei più parrebbero prive di peso. Un sentimento racchiuso per troppo tempo in questo tipo di cuore può assumere dimensioni gigantesche  che, in vero, forse altrove non esisterebbero.

Riconobbi in seguito altre lacrime, di quando in quando ruzzolavano via da occhi che inciampando tra le fessure sconnesse del mio pavimento sbucciavano gomiti o ginocchia. Ma mai più nessuna di queste perle ebbe il sapore intenso della tristezza di quel giorno. Quel genere di tristezza non può essere lavato via da un semplice temporale, cristallizza nel profondo e può solo sbiadire con il passare del tempo.

Passarono molte generazioni di studenti, colori di stagioni  sempre diversi filtrati dalla luce che, a mano a mano che il piccolo paese  divenne città, sbiadiva i suoi toni soffocata dall’inquinamento. Il giardino intorno al cubo di cemento resistette sino allo stremo di una decisione inappellabile. La scuola era diventata inadeguata, insufficiente a contenere le esigenze di una città che, divenuta evoluta, necessitava di più spazio… al chiuso.

L’ex paesino divenuto ora quartiere si radunò per decidere il da farsi. La scuola sarebbe stata abbattuta in favore di un ipermercato, già da tempo infatti i bambini di città venivano eruditi in un complesso ben più adatto ed i pochi “sopravvissuti” della periferia insieme alle loro insegnati, sarebbero stati facilmente trasferiti.

In un attimo  ciò che era stato costruito con il tempo e lo sforzo di tutti venne buttato all’aria. Le ruspe cancellarono freddamente le memorie delle voci passate, gli echi dei passi irruenti ed in un momento non rimase che polvere e macerie. Ebbi appena il tempo di riprendermi dalla devastazione, quando il silenzio sordo della distruzione venne sostituito dal rombo inquietante della catramatrice. L’aria si impregnò di un odore tanto acre da costringere il respiro nella gola e la terra venne coperta da un manto rovente,  nero come il buio.

All’improvviso i rumori del mondo vennero attutiti da quella coperta appiccicosa che non mi faceva respirare, i colori furono sostituiti da palpebre che non potevano più sollevarsi e fui proiettata in una dimensione nuova. Il mio sentire si era fatto sordo, del mondo esterno percepivo solo voci distanti che mi raggiungevano più come vibrazioni che come vere e proprie sonorità. Persa sotto quella coltre pesante imparai in fretta ad accontentarmi di respiri rarefatti, imparai a centellinare le esigue quantità di aria viziata che filtrava malamente fra le crepe, e a deglutirle con rassegnata caparbietà.

Per fortuna che c’erano i ricordi a farmi compagnia. Sempre più spesso mi sorpresi a fantasticare circa la possibilità di incontrare nuovamente l’aria pulita,  il desiderio di provare ancora la tenera carezza di piedi che, ritornati ad essere nudi, danzassero su di me. I ricordi lasciati liberi molto velocemente si fondono ai sogni tanto che in breve non si può più distinguere il confine fra gli uni e gli altri. I sogni quando non si scontrano violentemente con la realtà aiutano a sopravvivere, creano dimensioni alternative a quelle che il tempo ha reso invivibili.

L’ipermercato era poco distante, ammorbava il vento con il frastuono ammiccante degli annunci pubblicitari riversati a tutto volume  da casse sparse un poco ovunque. Tutto scorreva uguale a se stesso sino  a quando qualcosa, dentro di me,  cominciò a crescere con sorprendente vigore. Dentro di me c’era un piccolo seme dimenticato dal tempo che, dopo un violento temporale, venne raggiunto da una goccia d’acqua infiltratasi fra le incoerenze del manto che mi ricopriva. Il seme decise che quell’acqua sporca di petrolio potesse bastare, decise che non ne poteva più di quella notte eterna che uccideva al contempo realtà e sogni sopendone i confini, decise che voleva respirare aria pura.

Con una forza straordinaria insinuò i suoi getti fra le incoerenze e sfruttando il cammino percorso della goccia d’acqua, cercò una soluzione alle sue domande. Il cielo esisteva davvero o tutto era solo buio?

La risposta non tardò ad arrivare in forma di una luce accecante che, vinta l’ultima resistenza, trafisse il pallore dello stelo facendolo diventare di un verde brillante in poco più di un respiro.  Il seme, divenuto piantina, si fece forte della sua vittoria e crebbe velocemente sino a scalzare, crepandolo, l’asfalto.

Dalla fenditura alla base della piantina entrava aria pulita. Non proprio quella che ricordavo, ma  decisamente meglio di ciò che, costretta sotto il manto nero,dovevo deglutire ormai da tempo. Ricominciai a godere della brina del primo mattino, fresca fonte di vita che ricopriva tutto di minuscole perle. Ogni cosa veniva ingentilita da una trama preziosa che luccicava di una vanità discreta nei primi raggi di sole. Ricominciai a sperare poiché i sogni, ritornati a confrontarsi con i colori della realtà, riacquisirono un contrasto che ne delineava il senso. Vivere soltanto di sogni può portare a perdersi, a non distinguere più ciò che è da ciò che potrebbe essere. Vivere soltanto di sogni porta ad una inconsistenza pericolosa che da un momento all’altro può implodere esattamente come accade nel viverne privi. Tra realtà e sogni deve esserci un equilibrio che da un lato  aiuta la realtà ad essere tollerabile nei suoi momenti più difficili, e dall’altro aiuta i sogni a diventare possibili,  colorandoli di un significato ipoteticamente reale. I chiaroscuri danno profondità agli scenari ed è proprio grazie ai contrasti che oggetti e creature possono comprendersi, in fondo siam fatti di luce ed ombre.

La piantina crebbe proprio al centro del parcheggio. Lo stelo si fece fusto  e cominciarono a comparire, adorne di tenere foglie, le dita di una piccola mano allungata verso il cielo. Stranamente nessuno contrastò quella piccola rivoluzione, nessuno pensò di sradicarla, crebbe senza che tentassero di sedarla. Talvolta accade di assistere a situazioni anomale in cui qualcosa, qualcuno si realizza a dispetto di qualunque aspettativa. Talvolta ciò che deve essere,  rivendica la sua importanza con una forza inarrestabile e si manifesta al di là dei progetti. Talvolta ciò che vien tolto dolorosamente in un momento, in un altro ricompare senza preavviso a ripristinare un equilibrio che sembra essere disegnato per essere “giusto”.

La piantina crebbe tanto da poter essere riconosciuta. Era un promettente albero.

Compresi la bellezza della vita che nel suo termine è destinata comunque a lasciare una debole traccia del suo passato, una possibilità che si realizza secondo le leggi della generosità. Ogni individuo ha il medesimo progetto, diventare per poi lasciare il posto a qualcun altro. Avvinghiarsi al diritto di essere non serve a nulla, poiché la vita conserva di noi solo ciò che realmente serve per passare il testimone a coloro che vengono dopo. La bellezza del mio amico albero era stata conservata nelle speranze del seme ribelle che, quando il destino decise che fosse arrivato il momento giusto, sbocciò vincendo qualunque resistenza. Un’idea condivisa talvolta si fa seme destinato a sbocciare in un modo, in un tempo ed in un luogo diverso dal previsto. Un’idea che si fa dono può manifestarsi e, se non se ne rivendicano i diritti, si fa leggera divenendo libera di appartenere a chiunque… bisogna solo essere capaci di non soffocarla nel senso di proprietà.

Con estrema naturalezza arrivarono poi quattro inservienti muniti di pale e mattoni e, come se fosse già stato scritto, spaccarono parte della crosta nera liberando le radici. Disegnarono un cerchio libero dall’asfalto e lo delimitarono con dei mattoni. L’albero fu così legittimato. Lo fecero in un modo tanto forte da fornirgli anche una serie di pali che vennero conficcati nel terreno con l’intento di sostenerlo. Qualcuno riconobbe la bellezza della speranza,  nata apparentemente per caso, e si preoccupò di proteggerla, di aiutarla a crescere forte.

L’ombra dell’albero si fece sempre più ampia. Forniva conforto, un refrigerio che rendeva tollerabile la stretta soffocante dell’asfalto reso rovente dal sole di agosto. L’allegria monotonia degli annunci pubblicitari veniva sovrastata dal mormorio delicato delle fronde attraversate dal vento. Il cielo questa volta accettò l’albero come amico. Il profilo del paesaggio, alterato dalla mano dell’uomo, si era fatto sempre più artificiale e, in mezzo a tutto quel cemento,  il cielo aveva ora necessità di un albero.

Riconobbi quel giorno la tristezza dei passi di una donna. Ricordai immediatamente le lacrime gemelle. La delicatezza di alcune anime rimane impressa indelebilmente,  come i piccoli grandi dolori cristallizzati nel profondo del cuore.  Si era fermata incantata ad osservare il mio amico albero. Lo respirò sino a diventarne un tutt’uno,  incapace di staccarne gli occhi. Sentivo i suoi piedi accarezzarmi il manto oscillando sincroni con le fronde. Danzavano insieme in un’armonia segreta, tanto presi l’uno dall’altra che nessuno dei due si accorse del sopraggiungere di un’auto che arrivò sparata come una pallottola.

Lo schianto fu sordo, l’impatto avvenne senza scarto alcuno. La donna venne sbalzata in aria come una bambola di pezza e, dopo aver compiuto una parabola di qualche metro, piombò decisa verso di me. Cercai disperatamente di farmi meno dura… invano…  non credo che ella ebbe il tempo di accorgersi del mio tentativo di abbracciarla, di proteggerla. Proferì solo un gemito sottile.

Sentii il suo cuore. La donna era ora appoggiata su di me e la percepivo da testa a piedi, sentivo il battito flebile del suo cuore impaurito, il ritmo incerto del respiro. Udii il suo cuore spegnersi. Imparai il silenzio della morte. Una macchia color rubino si allargò calda su di me e, mischiandosi ad una lacrima ruzzolata via dagli occhi, filtrò fra incoerenza ed incoerenza sino a raggiungermi. Assaporai la morte inerme. L’albero tentò di accarezzarla con la sua ombra, zittì immediatamente il frusciare delle fronde.

Morii quel giorno anche io.

Una strada nasce e cresce per necessità, non per sua scelta. Il destino di una strada sembra non dover scomparire mai. Essa divenuta  giorno dopo giorno solco sempre più deciso, è come una ruga della terra che, una volta che è comparsa, non può più essere cancellata. Una strada vive i percorsi  di centinaia di persone ed è spettatrice muta dei loro destini, attraversa il mistero del tempo sopravvivendo pressoché a tutto. Una strada può assistere ai primi passi di un bambino, può sentirli diventare adulti, può viverli sino a quando si fanno incerti per la vecchiaia, può accompagnarli  nel loro ultimo giorno.

Quel giorno provai la disperazione, non riuscivo a sopravvivere al sapore di quella tristezza che mi aveva raggiunto sin nel profondo. Non riuscivo a sorreggere il telo bianco che occultava malamente il residuo di quella piccola vita. Avrei voluto sprofondare portandomi via la leggerezza dei passi della donna e mi accorsi di quanto fossi impotente, di quanto fossi fissa. Sembrava una beffa, grazie a me i destini si muovevano, ero tramite di collegamenti ma al contempo io non potevo muovermi da li, io ero fissa.

Improvvisamente tutto divenne intollerabile. Non sopportai più l’asfalto che divenne una coperta funebre. Rinunciai a respirare. Come si celebra la morte di una strada?

Nessuno si accorse che ero viva…  solo in superficie.

Il cielo sanò  l’assurdità di quella situazione. Piovve… e piovve…  e piovve. Piovve sino a che tutto diventò un gigantesco fiume arrabbiato,  che impetuoso si portò via tutto. Gli uomini, come tante piccole formiche, fuggirono prima della devastazione. Quando tutto fu nuovamente quieto io ero stata cancellata.

Sopravvisse solo l’albero che,  avvinghiato caparbiamente al suo destino, rimase  quale unico testimone di ciò che era stato. 

© Carla Montuschi





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