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Speranze
di Maria cristina Piazza
Pubblicato su SITO


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SPERANZE

 

Era dura e monotona la vita in quel villaggio della Transilvania, tra immense distese di foraggio, patate e cipolle, dove  uniche voci erano  grugniti e  belati. La città più vicina, Brasov, distava ottanta chilometri, troppi da percorrere con la  asmatica Dacia sulle sconnesse strade rumene. Soldi ne vedeva pochi Stefan, nonostante il suo impiego in una industria elettromeccanica; viveva con la moglie e la  figlia nella casa dei  genitori, dove l’unico reddito certo era il suo,  l’agricoltura rendeva pochissimo, appena il cibo quotidiano. Tante erano le cose che doveva  fare ogni giorno, per cui doveva cominciare presto: alle quattro  si alzava e dava il fieno alle due mucche nella stalla, preparava il pastone per il maiale, poi si lavava e correva alla fermata dell’autobus, che collegava una miriade di paesetti come il suo al capoluogo, dove sorgeva  la  fabbrica.  Suo padre era anziano e la vita faticosa nei campi, alle intemperie, lo aveva indebolito e reso di poca salute, per cui Stefan, unico figlio maschio, dopo il matrimonio era rimasto in famiglia per occuparsi dei lavori più pesanti. La  giornata in fabbrica sembrava non finire mai, nel rumore assordante dei macchinari e  quando finalmente arrivava la pausa di mezzogiorno, gli operai si sedevano sui marciapiedi in cortile, per respirare un po’ d’aria,  con il porta-pranzo di alluminio sulle ginocchia e una birra a portata di mano. Alle 18, il suono della sirena apriva i cancelli della fabbrica: una massa di gente usciva in fretta e si riversava alle fermate degli autobus già in moto; era di nuovo buio sulla strada, come quando avevano iniziato il turno la mattina. Stefan aspettava la domenica, per vedere un’intera giornata di luce, la natura che si trasformava, i colori del cielo nelle varie stagioni, mentre con suo padre, arava, seminava, falciava. Sua moglie, Surina, lo aspettava ogni sera con la solita zuppa di cipolle, condita con le consuete lamentele: mai un divertimento, un vestito nuovo per lei, un paio di scarpe per la bambina, sempre la stessa vita in quella casa, con i suoceri, nessuna intimità per loro due, già vecchi sposi a trent’anni. Stefan ascoltava in silenzio, vedeva la moglie  sempre scontenta, amara  e pensava a suo cognato, Giovanni, che qualche mese prima era venuto a trovarlo e gli aveva detto le novità: sarebbe partito per cercare fortuna in Italia, prima da solo, poi, appena si fosse sistemato, sarebbe tornato a prendere la sua famiglia. Giovanni aveva messo in atto il suo progetto, se ne era andato e  da mesi non dava più  notizie; sua moglie, Rodica, sorella di Stefan, si disperava e guardava i suoi figli con tristezza, compiangendoli già orfani o abbandonati. Una sera di novembre, la temperatura era rigida, Stefan e suo padre sistemavano la legna nel camino, mentre le  donne lavavano i piatti della cena;  all’improvviso il silenzio della campagna fu interrotto dal  rumore di un’automobile che si fermava davanti alla casa. Stefan aprì la porta e si trovò davanti suo cognato Giovanni, con la moglie e i figli.  Grande la gioia  e l’emozione di tutti,  le voci si sovrapponevano, ognuno voleva parlare, chiedere e Giovanni non riusciva a rispondere a tutte le domande, a soddisfare tutte le curiosità. Raccontò mesi di spostamenti per l’Italia, da una città all’altra, seguendo promesse di lavoro, qualche volta vere, più spesso false; si era adattato ad ogni mestiere,  fino a quando aveva conosciuto un imprenditore edile, una persona di coscienza,  che lo aveva preso in simpatia e lo aveva assunto come carpentiere nella sua ditta e guardiano della sua proprietà, fornendogli anche un alloggio. Il tempo di mettere da parte un po’ di soldi ed era tornato in Romania a prendere la sua famiglia, per portarla con sé in Italia, dove aveva trovato un lavoro anche per Rodica e una scuola per i bambini.   Dopo la partenza del cognato, Stefan non ebbe più pace: la solita vita gli era diventata insopportabile, voleva avere anche lui un’opportunità, tentare la fortuna; faceva progetti, pensava itinerari, valutava  rischi e una domenica, seduto sotto un albero con la moglie, le confidò la sua intenzione di partire al più presto, per raggiungere Giovanni. Una settimana dopo, con uno zaino sulle spalle, salì sull’autobus diretto in Italia. Furono lunghe le ,ore di viaggio attraverso la Romania e, dopo Arad, nella monotonia della pianura ungherese. Poi una immensa distesa d’acqua: il lago Balaton, il mare dell’Europa centrale. Stefan era estasiato da quei paesaggi così diversi dal  suo mondo, l’unico che fino ad allora aveva riempito i suoi occhi. Solo allora si rese conto veramente di aver abbandonato ogni certezza e di essere  partito verso l’ignoto. Un brivido gli attraverso la pelle, gli fece tremare il cuore. Prima di Trieste scese dall’ autobus e, come gli aveva raccomandato Giovanni, lasciò la strada asfaltata e prese la via dei campi. Camminava nella notte, a tratti correva fino a sentirsi scoppiare i polmoni, temendo di arrivare tardi all’appuntamento con l‘autista, poi scorgeva nel buio qualche ombra furtiva come la sua e si tranquillizzava, per un po’. Finalmente distinse in lontananza le  luci della città e il loro  riflesso  nell’acqua immobile e  scura dell’Adriatico. Dopo qualche ora, Stefan e gli altri clandestini, nascosti dietro un paracarro, sentirono l’ormai familiare e rassicurante ansimare del loro autobus:  ce l’avevano fatta, avevano evitato le inflessibili guardie slovene ed erano finalmente in territorio italiano. Alla stazione Tiburtina, a Roma, Stefan trovò il cognato ad aspettarlo e un’ora dopo erano a tavola, davanti a una cena tutta rumena. Il giorno dopo Giovanni presentò Stefan al capo mastro dell’impresa edile presso cui lavorava, che lo prese in prova per quindici giorni, come manovale; fin da subito notò la sua intelligenza, la sua serietà, la sua onestà e  lo assunse  come carpentiere. La vita in Italia non era tutta rose e fiori: innanzi tutto la difficoltà di comunicare e, soprattutto in cantiere, di capire le tecniche, le abitudini, le regole diverse e, soprattutto, accettare la diffidenza della gente, i commenti non sempre compresi ma intuibili dagli sguardi che  li accompagnavano e poi, la nostalgia…Per fortuna, la sera a casa di sua sorella tutto questo per un po’ veniva dimenticato, davanti all’ottimismo del cognato, al calore della sua famiglia. Il sabato, al telefono, lo commuovevano e gli davano forza  le voci dei suoi cari,  la tenerezza di sua moglie e l’ eccitazione di sua figlia Nicoleta: “…Papà non vedo l’ora di vedere tutto quello che mi hai comprato… Quando ci vieni a prendere? E’ vero che in Italia c’è una televisione in ogni stanza?”Col passare dei mesi, le cose migliorarono, Stefan parlava e comprendeva sempre meglio la lingua italiana e aveva stretto rapporti di amicizia con i compagni di lavoro; riusciva persino a scherzare, a farsi conoscere e stimare; alcuni gli chiedevano informazioni sul suo paese, sulla vita che vi si conduceva e Stefan coglieva quelle occasioni per descrivere il suo mondo, da molti associato agli zingari, immaginato come un covo di furfanti, arretrato, una specie di Far West; si accalorava in quei discorsi e gli pareva, con le sue parole, di restituire dignità alla sua terra, abbattendo preconcetti e calunnie. Una domenica mattina prese il treno e andò a Roma, al mercato di Porta Portese;  per le feste di  Natale l’ impresa di costruzioni avrebbe chiuso e lui finalmente   sarebbe andato  a casa, erano tre anni  che non vedeva la sua famiglia.  Aveva già comprato il biglietto aereo per Bucarest, anche se era terrorizzato all’idea di volare ma voleva stare più tempo possibile con  i suoi;  mille volte aveva immaginato il suo arrivo in aeroporto e il viso raggiante di sua moglie, l’aria stralunata di suo padre e sua madre,  Nicoleta… chissà quanto era cresciuta? Tranquillo, girava tra le bancarelle, cercando qualcosa di bello da regalare a ciascuno di loro; era  carico di buste e si faceva largo tra la folla, verso un venditore di giacconi:  voleva acquistare  per sua figlia un piumino soffice  e caldo contro i rigori dell’inverno rumeno. Accanto a lui, una  bella ragazza stava provando una  giacca, contrattandone il prezzo col venditore; ad un tratto si voltò inviperita verso un uomo dietro di lei:  “ Ahò, tieni le mani a posto!” Per tutta risposta, l’uomo la strattonò e  borbottò qualcosa, guardandola minacciosamente. Stefan aveva capitò perfettamente le parole ingiuriose dell’uomo, rumeno come lui e gli disse, nella loro lingua di lasciare in pace la ragazza, non era il caso di litigare. L’uomo, aggressivo, gli vomitò addosso bestemmie e un alito greve di birra  e gli rispose  di non impicciarsi, poi ingiuriò nuovamente la ragazza. Stefan,  gli appoggiò una mano sulla spalla e gli disse di calmarsi ma quello, con violenza lo allontanò: un coltello apparve nelle mani dell’individuo: Stefan d’istinto fece un passo indietro ma un improvviso lancinante dolore gli fece portare le mani al fianco, dove il sangue cominciava a bagnare la camicia, la giacca. L’individuo  indietreggiò  e qualche secondo più tardi  si era già dileguato tra la folla del mercato. Stefan barcollò per un attimo, poi si accasciò a terra, mentre la gente gridava e qualche  minuto dopo arrivarono i vigili urbani e i poliziotti, cercando di ricostruire i fatti: - “Hanno litigato tra loro”,diceva uno; - “ Quei due stavano d’accordo, me volevano scippà,  questo faceva finta di niente e gli reggeva il gioco…”, diceva la ragazza. Stefan sentiva tutto questo, mentre lo caricavano sulla lettiga, tra la folla accalcata, avrebbe voluto dire che non era andata così: lui quel farabutto non l’aveva mai visto, non tutti i Romeni erano gentaccia, c’era chi come lui, amava sua moglie e sua figlia, era venuto in Italia per lavorare e costruirsi un futuro migliore, era amico di tutti.  L’ambulanza partì con la sua angosciante sirena e la folla pian piano si disperse tra le bancarelle, mentre commenti e  contrattazioni si intrecciavano:- “ Che aspettano a mandarli via, sono tutti delinquenti!”   “Quanto me lo metti quel giaccone, se prendo anche gli scarponi?” “ Visto che faccia il moribondo?  Un avanzo de galera! Vengono da noi solo pe’  da fastidio alle donne degli altri e pe’ rubbà, mica pe’ lavorà…”    

 

© Maria cristina Piazza





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