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La valigia pesante
di Rinaldo Coggi
Pubblicato su PBSE2019


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   La signora del bar gli venne gentilmente a portare il caffè al tavolino anche se un cartello sopra il bancone ammoniva perentoriamente che " non si effettua servizio al tavolo". L'aroma buono del caffè era un piccolo ma intenso piacere in quella giornata di novembre così grigia e uggiosa, così clamorosamente novembrina.

   Mentre assaporava quella tazzina di caffè aprì distrattamente il giornale. Passò oltre alle solite malefatte della classe politica che, insensibile alle sorti della povera Italia, ne combinava un'altra di presso all’altra, attraverso non so quale uso disinvolto dei fondi europei o di chissà cos'altro. La sua attenzione fu attirata da un altrettanto consueto titolo, meno altisonante del solito ma nient’affatto raro: il ritrovamento di un cadavere di una donna in una scarpata proprio dietro la stazione, una donna di probabili origini straniere, dell'est pareva. L'articolo che ne seguiva parlava di una storia simile a tante altre, in questo nord-est distratto e rabbioso contro tutti i diversi, "i foresti", in special modo verso quelli che sembravano essere la minaccia al benessere così faticosamente conquistato.  Un moto di fastidio misto a tristezza lo prendeva sempre di fronte a queste notizie che spesso avevano spazio solo sui giornali locali, quando la sua curiosità si appuntò su di un particolare che, lì per lì, lo fece trasalire: la donna di cui non si conosceva l'identità, priva com'era di documenti, era carica di bagagli, come fosse in procinto di effettuare un lungo viaggio, poiché le valige che aveva con sé erano cariche di ogni genere di viveri. La cosa strana era che nulla era stato prelevato e quell'uccisione  sembrava una sorta di delitto punitivo per dare l'esempio ad altri.    Mano a mano che leggeva l'articolo i suoi pensieri si accavallavano e progressivamente mettevano a fuoco la coincidenza che, per strano e tragico scherzo del destino, lo collegava ad una donna conosciuta per puro caso qualche settimana addietro.    Già, perché la donna assassinata e gettata in una scarpata di periferia, ne era sicuro, l'aveva conosciuta, ci aveva parlato e ci aveva anche bevuto una tazza di caffè assieme. Ne ebbe la certezza quando vide sotto l’articolo una piccola foto di corredo, nella quale accanto al corpo, coperto da un pietoso lenzuolo grigio, si vedeva nitidamente una grossa valigia. Era francamente sbalordito; leggeva e rileggeva quel pezzo sul giornale, e mano a mano che lo rileggeva gli saliva dallo stomaco uno strano dolore misto a nausea...  Ordinò un altro caffé. Uscì dal bar con un peso tale che gli passò la voglia di andare in ufficio e dimenticò d'un tratto tutte le importanti questioni che lo attendevano. Avvertì telefonicamente l’ufficio e decise di prendersi una giornata libera, una giornata per andare a zonzo, non sapeva neanche lui dove. Rientrò in stazione, si piazzò davanti al tabellone elettronico che dava arrivi e partenze dei treni e salì sul primo che partiva per Venezia.

   Dieci minuti dopo era sul marciapiede che scaricava moltitudini di  esseri umani: studenti, turisti... zaini, valige, valigioni, enormi tubi portadisegni, monumentali trolley trascinati da improbabili ragazze asiatiche in precario equilibrio su "tacchi" ragguardevoli. Attraversò con passo veloce e rapide mosse quella folla multilingue e, in breve, fu sul piazzale esterno della stazione di Venezia.

   Dove andare?    

   Risposta ovvia: in 'Ghetto'. Luogo magico, luogo di memoria, di dolore, di storia sedimentata, luogo simbolo della venezianità... infine luogo della sua gioventù. C'era venuto la prima volta non ancora diciottenne, con la prima vera "amorosa" che aveva avuto; un po' perché già allora lo considerava un luogo particolare ed un po' per fare l'intellettuale e, perciò, far colpo sulla ragazza. Mah!!! Le cose non erano poi andate come avrebbe voluto e di lei, non ricordava nemmeno più il nome. Ma da allora era sempre ritornato volentieri in 'gheto'.  Prese posto nel bar Kosher di "Campo del Gheto novo", ordinò un the ben caldo, aspettò ed aspettando riprese in mano la copia del giornale locale in cui aveva ritrovato la signora con la valigia pesante. L'articolo si era ben sedimentato nella sua testa, bevendo il suo the caldo, provò a chiudere gli occhi e rivide la scena che li aveva visti protagonisti tempo addietro. Rivide lei, ferma ai piedi della scala che conduceva dal sottopassaggio verso la città; era visibilmente in difficoltà circondata letteralmente com'era di valige. C'era un enorme trolley sopra il quale si trovava un altro pacco in equilibrio precario, a terra, di lato stavano invece due borse di tela stracolme di materiali da sembrare un mini bazar. Piero stava attraversando quel luogo-non luogo che é il sottopassaggio della stazione; umido, sporco; un luogo che tutti, costretti, attraversano in fretta per raggiungere altri e più confortevoli posti. La stava superando quando non seppe per quale oscuro motivo, forse umana solidarietà, volgendo lo sguardo verso di lei intercettò nei suoi occhi, neri ed intensi, una muta richiesta di aiuto. Dopo un attimo di esitazione prese la sua decisione. Si fermò, la salutò e poi le chiese se avesse bisogno di aiuto per portare fuori dal tunnel le sue valige. Ebbe la sensazione che non avesse capito le sue parole ma al suo gesto di prendere quella più grande, ella acconsentì, facendo un ampio cenno con il capo e sciogliendosi in un sorriso pieno di gratitudine. La valigia era decisamente pesante e sollevarla e portarla fino in cima alla gradinata fu un bello sforzo. Quando furono entrambi riemersi dal tunnel e la signora ebbe raccolto tutta la sua variegata mercanzia, Piero si guardò la mano destra indolenzita ed arrossata per lo sforzo; effettivamente la mano gli faceva un male cane. Aveva fatto la sua buona azione e ne era soddisfatto, ora poteva andare. Fece per salutarla con un cenno della mano ma lei, come per sdebitarsi, la chiese – Kaffé bittee? - con una lunga finale di fronte alla quale rimase confuso.

   Va chiarito che Piero provava sentimenti contrastanti verso le persone straniere. Da una parte, era disturbato dall'approccio che gli stranieri avevano – a suo dire – rispetto alla cultura del lavoro e, più in generale, al darsi da fare di fronte alle difficoltà della vita; dall'altra, aveva un acuto senso di curiosità verso le altre culture in particolare verso quella slava. Addirittura da giovane per un po' aveva accarezzato l'idea di iscriversi alla facoltà di lingue all'Università di Venezia, all'Istituto di studi slavi dove giganteggiava la figura del Prof. Vittorio Strada. Poi, molto più prosaicamente e seguendo le severe indicazioni di suo padre, si era iscritto sempre a Venezia, ma ad economia divenendo, dopo un rapido percorso, un funzionario di banca stimato e di belle prospettive. Ebbene accettò con piacere la proposta della donna che trascinando la sua serie di valige e fagotti lo condusse con decisione fuori della stazione, ed imboccando con sicurezza il vialone di fronte, entrò in un caffè, in stile un po' retrò anni 50/60 molto pulito e profumato; come si sentiva una volta solamente nei caffè che macinavano anche il chicco.  La donna sembrava essere di casa perché il titolare, un omino smilzo e basso di statura, appena entrato la salutò calorosamente e si affrettò a chiedere cosa desideravano. La signora chiese per sé un cappuccino  ed una briôche alla marmellata mentre Piero prese un caffè d'orzo, per via dell'ulcera che lo tormentava da qualche tempo. Fu mentre stavano consumando le loro bevande che la donna si presentò. Era originaria della Moldavia, si chiamava Irina Malkowska; era stata sposata ad un ufficiale dell'armata rossa di stanza in Moldavia ed aveva una figlia. Laureata in lingua e letteratura russa, insegnava in una delle numerose scuole superiori della capitale, Kishniev; in quel periodo la sua vita era serena e la sua famiglia rispettata, ma quando l'Unione Sovietica si dissolse, l'Armata Rossa dopo un po' se ne andò e il marito, senza troppi complimenti, sparì rifacendosi un'altra vita in qualche altra parte dell'ancora vasto impero post-sovietico. Come prima era stato un privilegio essere legata ai russi così dopo tale legame divenne una macchia da lavare con la punizione; fu così privata dell'insegnamento (anche perché la lingua russa non la voleva studiare più nessuno!), dell'alloggio riservato alle forze armate e dovette, alla sua non più verde età di 50 anni e passa, cercarsi un lavoro. Così lasciò la città, si trasferì in campagna e iniziò a lavorare in una cooperativa agricola come bracciante adattandosi ai lavori più duri come la pulizia delle stalle sociali o al lavoro nei campi. Il lavoro pur duro almeno le consentiva di sopravvivere e di allevare dignitosamente la sua bambina che nel  frattempo era diventata una ragazza piuttosto grande. Con molti sforzi era riuscita a far studiare la figlia, Yulia, fino alle soglie dell’università; poi la ragazza, stanca di fare una vita sempre tirata, con pochi soldi e con ancor meno prospettive, aveva contattato una delle tante agenzie che in Moldavia erano sorte come funghi, che promettevano un futuro radioso in Italia. Nonostante la sua opposizione, Yulia aveva deciso di tentare la sorte nel nostro paese ed aveva raggiunto una parente vicino a Venezia. All’inizio si teneva in contatto telefonicamente o scrivendo lunghe lettere che la donna portava sempre con sé, poi però sia le lettere sia i contatti telefonici si erano diradati fino a cessare del tutto. Era stato a quel punto che Irina aveva deciso di venire in Italia a riprendersi la figlia. E nel dire questo le lacrime le rigavano il viso. Irina si scusò, nel suo stentato italiano, di importunarlo con le sue storie; invece Piero che inizialmente aveva accettato l’invito più per creanza che per altro, si sentiva progressivamente coinvolto in quella vicenda triste, simile a tante altre di cui aveva letto sui giornali, ma che mai aveva toccato con mano.

   La donna concluse che, purtroppo, non era riuscita a ritrovare la figlia e, finiti i soldi e scaduto il permesso di soggiorno, se ne stava tornando al paese, anche se non intendeva lasciare perdere poiché era riuscita comunque a scoprire il turpe traffico di giovani donne moldave che, inevitabilmente, finivano, dopo un brutale trattamento, sul marciapiede o in qualche club per soli uomini. Non intendeva certo fermarsi di fronte a nessuno – tanto la sua Yulia non gliela restituiva nessuno - abbassò gli occhi e prese sommessamente a singhiozzare. Forse un senso di imbarazzo o di umana condivisione lo bloccavano seduto a quel tavolino con quella sconosciuta; passarono così alcuni interminabili minuti. Poi decise di alzarsi; il caffè gli stava andando sù e giù e lui si sentiva proprio a disagio. Per uscire da questa strana sospensione chiese il conto ed insistette per pagare le consumazioni. Al momento del commiato anche la donna si alzò, gli tese la mano – era una mano calda, vigorosa, abituata al contatto – poi, come naturale chiusa di quello strano incontro lo tirò a sé e, delicatamente, gli diede un bacio sulla guancia.

   A Piero, pur sorpreso, questo bacio non dispiacque affatto; anzi.

   Se ne uscì, rapidamente guadagnò la stazione, dove l’attendeva un affollato treno pendolare e ritornò ai suoi pensieri. Mentre ripensava alla storia che gli aveva raccontato Irina, si vergognò un po’ dei suoi pregiudizi verso gli stranieri. Nei giorni seguenti, poi, gli ritornò alla mente quello strano incontro, ma lo archiviò tra i pochi atti di umana solidarietà che aveva compiuto ed, un poco, ne fu soddisfatto. Pertanto quando aveva letto sul giornale del ritrovamento ne era rimasto colpito, ed era stato costretto al ricordo: un po’ come un film che si riavvolge velocemente all’indietro e ti costringe a ripensare. Ciò che in verità più lo disturbava era la conclusione dello scritto, assolutamente in linea con le più banali e stereotipate immagini: 'la donna assassinata così barbaramente era probabilmente una prostituta punita dai suoi sfruttatori'. Un sentimento di disgusto misto ad una rabbia sorda lo pervase; doveva segnalare a qualcuno la verità su quella donna, dire che no, lei era solamente una madre coraggiosa, che era venuta per riprendersi la figlia e per portarsela a casa; non era affatto una povera prostituta finita morta ammazzata come tante altre lungo una scarpata dietro la stazione.

   Glielo doveva proprio, ad Irina, questo atto di giustizia.                        

   Pagò il suo the, uscì dal locale, con passo spedito, raggiunse il piazzale degli autobus e prese quello per l’ospedale dell’Angelo, quello nuovo; il giornale diceva che il povero corpo di Irina Malkowska giaceva là, all’obitorio. - Io sarei venuto per la donna che avete ritrovato dietro la stazione – aveva detto, con voce esitante, all’impiegata nel piccolo ufficio all’entrata dell’obitorio; la donna, una brunetta evidentemente abituata a trattare con gente addolorata, alzò appena lo sguardo dal registro sul quale stava annotando qualcosa e lo fissò con occhi interrogativi. – E’ meglio che chiamiamo la polizia dell’ospedale perché a quella poveretta manca addirittura un nome! – esclamò con una strana, stridula vocetta mentre lo squadrava da capo a piedi. Dopo alcuni minuti fu raggiunto da due agenti; uno, più giovane, arrivò per primo, un collega lo seguiva, qualche passo indietro, camminando a fatica. Lo squadrarono a loro volta da capo a piedi, poi lo condussero in una stanzetta attigua alla morgue e gli chiesero di raccontare tutta la storia: Piero si mise comodo e raccontò del loro incontro ed espose quanto la povera Irina gli aveva detto e del perché si trovava in Italia e proprio a Venezia…

   Presero buona nota di tutto invitandolo a ripassare il giorno seguente per la stesura del verbale; atto necessario – dissero – per avviare le pratiche per il rimpatrio della salma. Bene! Aveva fatto il  suo dovere; ora poteva andare. – Solo una cosa – chiese Piero al più anziano dei due agenti, che sembrava essere il più alto in grado - E’ possibile poter vedere la donna? - Per me va bene – rispose – se il personale non ha nulla da obiettare.

   La sala dove stavano i morti, in attesa di sistemazione, non era molto diversa da come se l’era immaginata: una vasta stanza rettangolare, illuminata da una serie continua di neon, i carrelli allineati, alcuni vuoti altri con i corpi ricoperti da teli color grigio scuro. Piero seguì l’operatore fino in fondo alla sala: sopra l’ultimo carrello giaceva il corpo immobile, finalmente a riposo, di Irina. Chiese di poter vedere il viso: i lineamenti erano finalmente distesi, come in pace, la linea del naso regolare, la bocca gentile, le labbra sottili e delicate; unico indizio di violenza, un segno bluastro sul collo.

   La porta a scorrimento si aprì, lo colpì una zaffata di aria gelida. La laguna, poco lontana, gli mandava il suo inconfondibile gusto salmastro; mentre si avviava Piero si chiese se in Moldavia si sentiva l’odore del mare.    

© Rinaldo Coggi





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