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Carne in Scatola (Resoconti di Mondo di Carne)
di Gabriele Pani
Pubblicato su SITO


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La vera maledizione del genere umano è l'abitudine. Non ho avuto le palle di suicidarmi quando potevo e ora mi sono abituato a questo nuovo inferno.

Sono Reinmar Schm, impiegato alla Cocon, fabbrica produttrice di cibo in scatola per cani e gatti. Ho iniziato il turno da 5 ore e 15 minuti. Quest’oggi sono supervisore alla sicurezza per le postazioni al nastro dall’80 alla 120, ma anche “ambasciatore” del capo per il licenziamento di Rob e Tessa: troppo lenti per questo lavoro. Mancano 2 ore alla fine del turno e vesto il ruolo di tuttofare entrando ancora una volta nella maledetta cisterna del 15 A, dove passano organi ancora troppo riconoscibili per i miei gusti: intestini, tendini, mammelle, esofagi, … Pochi sanno che oltre a carni di pollo, tacchino, vitello sono presenti anche carni avariate e tumori, e carni di topo, gatto randagio e cane provenienti da laboratori farmaceutici e cosmetici.

Il condotto di scarico è otturato: probabilmente ancora un osso o un grosso lembo di pelle che è sfuggito alla prima pulitura. Allungo il braccio con in mano un cacciavite, ma oltre a sporcarmi di grasso e sangue l’orologio non rimedio. Questa volta mi servirà un oggetto parecchio lungo per liberare lo scarico. Ho fretta e comunque non posso chiedere ancora al capo strumenti specifici che l’azienda non può permettersi di comprare, perciò devo ingegnarmi. Entro nell’ala 16 E, quella in disuso, scavalco scatoloni di vecchie etichette e lattine che non verranno mai utilizzate e comincio a frugare tra il ciarpame, tra la polvere accumulata da un abbandono di alcuni mesi. Un oggetto scintilla sotto l’immensa macchina di smistaggio. Sorpasso i nastri trasportatori ancora carichi di latte riempite e sigillate; mi scontro con un nastro e crollano a terra tutte. Fanno un baccano assurdo, ma non mi preoccupo per il rumore: dagli altri reparti non sentirebbero manco il rumore di una bomba. Tocco l’oggetto nella poca luce che filtra dalle sale in funzione, è lungo e sottile, forse il residuo metallico di una graticola: è perfetto! L’oggetto è incastrato sotto un sostegno, ma tirato con forza dovrebbe venire fuori in un attimo. Tolgo l’orologio dal polso, mi accovaccio sotto alla macchina e allungo un braccio. Tiro. Il rumore non è quello che ci mi aspetto. Il pavimento scompare da sotto i miei piedi. Vengo risucchiato verso il basso.

Sono integro, guardo verso l’alto: il sopra è rimasto sopra senza che nulla mi sia venuto addosso. Sono in un sottopavimento, ho colpito alcuni tubi. Un altro rumore, questa volta forte, come un nitrito metallico. La macchina oscilla e si accascia, l’intera struttura sprofonda su di me.
Sono rimasto sveglio per tutto il tempo, non ho avuto la fortuna di poter svenire, o forse sbaglio. Lamine, latta e supporti si sono accumulati lentamente sopra di me, cedendo un po’ alla volta anziché crollare d’improvviso, riducendo poco alla volta gli spiragli di luce, pressando gradualmente il mio fragile corpo.
La mia situazione? Il collo è strozzato e contorto in una posizione innaturale: fatico persino a deglutire. La linea del mio corpo è spigolosa, ma la colonna vertebrale sembra integra, per fortuna sento tutto il corpo: per lo più dolore. Travi sono penetrate nell’addome, nella coscia sinistra e una ha ridotto in frattaglie la caviglia destra. Parti dell’intestino sono fuoriuscite, le posso vedere esposte: strette nel metallo; gonfiando forse hanno bloccato l’emorragia. Posso prendere fiato solo con la parte alta del petto, in basso sono cinto ovunque. Restando calmo riesco a non andare in carenza di ossigeno. Sul mio corpo scorre una sostanza fredda e viscosa che non so distinguere, non può essere sangue. Ho provato a chiedere aiuto, ma non riesco a produrre suoni. C’è istintività e utilissimo distacco nella mia meticolosa identificazione col corpo, ma forse è solo l’effetto dell’adrenalina, e questa sta calando perché comincio a sentire più forte il dolore. Mi coglie una perdita di coscienza.


Mi risveglio nella stessa condizione. Non so che ora sia, non ricordo che turno di lavoro stessi facendo, ho sete, ho fame, ho paura. Lotto contro l’impossibilità di guadagnare spazio, darei qualunque cosa per potermi solo distendere. Oltre che per il dolore, la struttura mi cinge troppo stretto e ogni tentativo di agitarmi crea solo piccoli cedimenti, riducendomi ulteriormente lo spazio vitale. Cerco di immaginare ampi spazi, ma visualizzo solo il mio garage chiuso e i miei pensieri di morte con il gas di scarico. Sto piangendo, noto solo ora. Cerco di asciugarmi il viso e mi accorgo di non sentire il braccio destro, non posso guardarlo dall’assurda posizione della testa, dev’essere pendulo dietro la schiena. Il braccio sinistro si può muovere invece dal gomito alla mano. Sposto le lacrime, e tocco la sostanza viscosa percepita in precedenza, la annuso: è grasso animale, sta su tutto il suolo ora, mi gocciola da una spalla. In questa condizione a cosa potrebbe servire pulirsi il viso dalle lacrime, a cosa poteva servirmi farlo nel mio garage tutte le sere.
Non ho legami affettivi, non ho una relazione, non ho un grosso attaccamento alla vita, eppure non riuscirei a suicidarmi adesso. Per farlo dovrei agitarmi con forza, aprendomi come una cozza poco cotta fino a dissanguarmi. Per quanto tempo potrei resistere a questa condizione? Non riesco ad immaginare al di là dei prossimi dieci minuti. Arriverò a non sopportare più questa condizione, preferirò un grande dolore pur di far cessare l’incubo. C’è un’incredibile maledizione che affligge da sempre l’umanità: l’abitudine. Il tempo lenisce le mie angosce e nel silenzio ottundente dell’ala 16A ho il tempo persino di accettare la mia condizione, come una nuova condizione permanente di vita. Il dolore ora è minimo, in effetti, ed è passata la sensazione claustrofobica. A quanto pare non c’è una perdita di sangue importante perché a quest’ora sarei morto. C’è pace, ho la benevolenza della rassegnazione che non sono riuscito ad accogliere in tutta la vita: sempre sull’orlo della crisi, sempre pronto a reinventarmi, a cambiare per gli altri, a inseguire la luce. Ora sono qui è morirò, e non ci sono più aspettative che tengano, fantasie di successo, obblighi e consuetudini sociali, solo il buio e il metallo a farmi da padroni. È catartico sentirsi finalmente umano, al giusto gradino dell’universo: misero e fragile. Accetto quindi di potermi cibare del grasso colante e concedere lunga vita alla mia nuova forma mentis. Lo lascio scivolare da un dito poggiato sulla spalla fino ad un altro dito nella bocca. Chissà quali animali sto succhiando? Non provo vergogna, per un momento mi sembra pure di poter godere del gusto, privo come sono di giudizi. Mi compiaccio di star risorgendo dalla crisalide.
Sono asceso, mi sento eterno, potente come non mai. La mia mente è un varco aperto: potrei persino scivolare già nel luogo che sta oltre la vita, giusto per dare un’occhiata. Ne avrei tutto il tempo, non mi verranno a cercare nè oggi, nè fino al turno di pulizie, e probabilmente neppure in quelle, visto che nessuno si avvicina più a pulire questo reparto. Sarebbe un’opportunità mai concessa ad essere umano, un’opportunità di toccare mete mai raggiunte dalla mente.


Due pensieri si gemellano. Non è che sono già uno scarto della mia anima terrena? Sono morto e ora sono uno spettro? Irrisolti e roba simile sotto forma di un ciclo eterno, inscatolato per l’eternità: una metafora piuttosto calzante. Posso andarmene da qui allora! Serve solo la giusta volontà di distacco. Mi muovo.
Dolore lancinante. Torno alla realtà. Mi agito mentalmente, cerco di sfogare l’angoscia e la frustrazione muovendo muscoli mai percepiti prima. Mi sono raccontato un sacco di palle e ora sono nel panico, come è giusto che mi comporti: sono incastrato senza via di fuga, sto per scivolare nel buio eterno, forse prima di ciò impazzirò per il dolore. Penso si possa proprio impazzire di dolore, soprattutto se dura troppo e non c’è modo di sfogarlo. Non c’è più piacere nella mia nuova condizione, c’è sempre stato un minimo di piacere a tenermi in vita fin’ora, ma adesso è svanito completamente. Al suo posto c’è solo un sordo dolore ininterrotto. Ringhio e strabuzzo gli occhi, poi piango ed emetto un urletto quasi fischiato, lungo e penoso. Identificandomi per un momento nell’eroe vittima della Tragedia recupero un poco di piacere: cessa così il panico. Forse con quel suono nuovo che la gola mi permette di fare potrei essere udito? Ne faccio un meccanismo automatico: inspiro e fischio, inspiro e fischio, contemporaneamente continuo con la Tragedia. Cosa mi illudo, resterò qui nascosto per sempre.


Penso a tutta la mia vita di merda. Ho mangiato tanta merda in vita. Sono ciò che mangio, e non sono più me stesso da tanto tempo. Ho cambiato corpo già da tanto tempo, sostituito in ogni singola cellula da altrettante cellule. Le membra che prima pensavano un Reinmar ora pensano un altro Reinmar. Quindi perché stare troppo a preoccuparsi di smarrire la propria identità nel vuoto cosmico se tanto siamo già morti pochi anni dopo la nascita, e sostituiti e sostituiti ancora? Ed ora per lo meno tutta la mia essenza è qui, compresi i miei escrementi, e rimane conservata in un solo posto per l’eternità. La mia essenza è imballata: carne di diversi esseri in scatola di metallo. La mia identità è al sicuro.

© Gabriele Pani





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