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Dentro
di Massimo Martinelli
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Dentro.

Qua ti danno roba da terzo mondo. Io non lo so come è il terzo mondo, ma qua il mangiare fa schifo.

Io sono dalla parte maledetta della storia, sì, quella con la s minuscola e niente altro. La storia è un fiume con le sue sponde ed io sono sulla riva sbagliata, quella dove non arriva il sole, dove il ghiaccio che si forma la notte non si scioglie con il giorno che viene. Io sono qua, insieme a molti altri, così tanti che manca l’aria.

Vorrei fare un film, o scrivere un libro, che raccontasse degli ultimi, dei perdenti, degli esclusi; insomma di coloro che in fondo danno un senso alla vita di quelli che stanno dalla parte giusta e che ogni tanto buttano un occhio verso noi pezzenti, il tempo di vedere che a qualcuno va peggio che a loro. Il tempo di consolarsi.

La nostra presenza è per loro abbastanza inquietante, ma quando siamo confinati negli spazi angusti che ci meritiamo, diventiamo un’ inquietudine confortevole; diventiamo la tempesta che imperversa fuori, mentre dentro si sta al caldo. Chi sta in casa e sente la pioggia e il vento frangersi sui vetri, è un po’ preoccupato, ma proprio questa preoccupazione lo convince ancora di più della sua bella fortuna. Ci guardano; vedono e sentono la tempesta e si raggomitolano felici nei loro plaid. Magari di cashmeare.

Ci osservano qualche volta sui notiziari, leggono di noi sui giornali, ma giusto il tempo per capire che sono ancora in grado d’indignarsi, di disprezzare e, perché no, di provare compassione. Li facciamo sentire migliori, quando non basta loro il consenso dei leccapiedi, delle mogli, delle amanti. Siamo valore aggiunto, ma a patto di non superare il confine che da loro ci separa. Per me la faccenda è semplice: il confine è concreto ed è un muro di cinta alto tre volte un uomo, tre volte me. Non posso far altro che restare dalla mia parte. Quella sbagliata. In altri casi è più complesso, vedere il muro intendo: ma fra noi e loro c’è sempre qualcosa, non importa se sia fatto di cemento armato o di sguardi o di parole. Il fiume, le due rive…

 

Vorrei fare dunque questa cosa, un libro, un film che sia. Ma in caso di successo, se cominciassero a piovere soldi, io prenderei solo l’indispensabile, una sorta di stipendio minimo. E vorrei che facessero così anche i miei collaboratori: vorrei che nessuno fosse “riammesso” nella società per via di quei soldi. Niente salvezza con quelli!

Gli esclusi devono continuare ad essere tali. Nessuno dovrà perdere la libertà d’essere un ribelle, di avere coraggio, di vederla a modo suo. Gli esclusi devono restare tali, esclusi dal mondo “borghese”, dalla normalità fra virgolette, ma assolutamente compresi nel flusso della vita, che scorre come un fiume e non gli frega niente dei piloni d’un ponte messi lì da un giorno ad un altro. Nessuno dovrà risorgere. Tutti dovranno restare là dove la vita scorre. 

Un po’ come in quel romanzo cinese, quella bellissima storia cinese che attraverso più generazioni racconta gli anni della repubblica e della guerra contro i giapponesi invasori e fra comunisti e nazionalisti, quando nemico era chiunque avesse come te un’arma.   

In quella storia, che credo sia proprio vera, autobiografica, in quella storia ognuno resta al suo posto, anche coloro che sembrano spostarsi verso la parte alta nella scala del consenso, verso una migliore posizione sociale. I banditi e reietti del romanzo restano tali, anche quando diventano capipopolo e le loro gesta diventano esempio di coraggio e fierezza. Non c’è redenzione. Sì, come in questo romanzo di più di cinquecento pagine che ho letto in una notte, una lunga notte senza sonno.

È proprio così che vorrei fosse il mio film sugli esclusi, come quel libro che parla di infinite distese di sorgo rosso, con le piante alte più di un uomo a cavallo, che in autunno scintillano rosse e lucide al primo sole del mattino, coprendo ogni acro della valle fino alle sponde del fiume Moshui, dove le notti hanno il colore grigio dell’uva e l’acqua ha il colore dell’albicocca.

Ma “io non ho preso il Palazzo d’Inverno” e sono chiuso qua, dietro queste sbarre oblique e ingannatrici che mostrano un mondo sotto di me che non esiste, perché il mondo non è questo cortile circondato dal cemento, senza alberi, con l’erba che cresce per rabbia fra le crepe del cemento, dove le piogge ed il vento hanno ammassato abbastanza sudiciume da far germogliare qualcosa.

A volte, oltre queste sbarre riesco a vedere gli storni. Sono pulviscolo, una campitura distante, sempre in movimento, che ondeggia sopra la città in forme mutevoli. A volte sono animali, a volte sono palazzi, ma sempre in movimento, come fronde mosse dal vento, come l’acqua del fiume.

A volte sogno di attraversare il deserto con un catamarano di fulgida stoffa, in una corsa indescrivibile, che taglia la luce abbacinante ed eterna, con le notti uguali ai giorni. Ma sono chiuso qua. Con tutti i sogni, con tutta l’immaginazione, con tutta la speranza che posso avere. Per ora sono qua. Devo pagare. Ma chi ha battuto il conto?

 

Un mese fa mia madre è caduta. Una brutta caduta. Mia madre è anziana. Le piace di tanto in tanto andarsene per i campi a raccogliere cicoria e bietola selvatica. Ci prepara delle polpette, mettendo insieme carne e patate e un po’ di emmenthal, e queste erbe che non le costano altro che un po’ di fatica. Mentre raccoglieva bietola selvatica sul fianco un po’ ripido di una strada sterrata, ha perso l’equilibrio ed è caduta sulla massicciata sottostante, fatta con scarti di marmo affilati come coltelli. Si è tagliata il viso, una brutta ferita. La sua pelle si è rovesciata in lembi come una nuvola attraversata dagli ultimi raggi del sole al tramonto, ed il sangue è sgorgato inarrestabile. Avrei voluto essere lì con lei. Invece c’era sua sorella, che è più anziana; due disperate in mezzo ad un campo in un pomeriggio d’inverno, con tutto quel sangue che solo perché faceva molto freddo non si riversato completamente a terra svuotando le vene e le arterie di mia  madre.

Mentre il debole sole invernale spariva dietro gli olivi, i sassi della strada da gialli si facevano rosso cupo e poi quasi blu, intorno a mia madre, sotto le due minuscole sorelle. Non riusciva, la sorella, a fare il numero con il cellulare per chiamare i soccorsi. Le tremavano le mani, con tutto quel sangue. Le sue dita pigiavano sempre il tasto sbagliato, e via daccapo, via ancora una volta. Intanto mia madre moriva. Per fortuna, da una casa lì vicino si è affacciata una donna. Si è affacciata per via delle urla e del pianto della sorella di mia madre. Così i soccorsi sono arrivati, ma non subito E per fortuna che faceva un freddo cane, altrimenti, l’ha detto anche il medico del pronto soccorso, altrimenti mia madre sarebbe morta dissanguata.

Ecco, tutto questo l’ho saputo dopo, me l’hanno raccontato. Io ero qua dentro, dietro queste assurde sbarre oblique, che partono un po’ distanti sulla parte alta e vengono verso di te come artigli; e lei era seicento chilometri lontana; prima in mezzo a un campo incolto e poi in un ospedale.

Sono riuscito a sognarla. Dico “sono riuscito”, perché ci ho provato, l’ho desiderato. Ci sono riuscito dopo una settimana. E’ stata una cosa del tipo: ce la faccio! ce la devo fare! di quelle che si vedono nei film, con gli occhi chiusi e le mani serrate a pugno e l’illusione che la forza di volontà compia il miracolo.

Dunque, nel sogno guidavo verso il tramonto, rasato e pulito, ascoltando la radio. Alla radio davano quella ballata di Springsteen, quella su Tom Joad, quella che mi metto sempre a frignare come un bimbo quando arriva la parte di lui che dice a sua madre: ovunque trovi qualcuno che lotta per un posto dove vivere in pace, per un lavoro dignitoso, per un aiuto, ovunque trovi qualcuno che lotta per essere libero, guarda nei loro occhi, mamma, vedrai me. Quella. E nell’abitacolo ancora illuminato dall’ultimo sole c’era un buon profumo di pulito, un odore buono e totale che aveva a che fare con l’eternità di un dipinto del Rinascimento, di quelli che ritraggono qualche nobildonna sullo sfondo della campagna appena fuori le mura della città.

Sono arrivato all’ospedale che era buio e sono salito senza un fiato di troppo su per le scale, fino al quinto piano. Nella stanza dove stava mia madre c’erano anche altre persone; stavano tutti seduti sui letti e non capivo chi fossero i pazienti e chi quelli in visita e siccome non conoscevo nessuno era come fossimo soli, io e lei.

Vicino al letto c’era un tavolino di quelli che si possono staccare dal resto e appoggiare sul letto. Sopra c’erano tre scodelle, ognuna con il suo coperchio colorato. Vuoi mangiare mamma? Le ho aperte per vedere cosa le avessero portato. Erano tre pietanze diverse, almeno era diverso il colore. Avevano colori vivaci. La consistenza era la stessa per tutte e tre: una pappetta semiliquida, e a guardarle meglio, il colore di ognuna era quello del rispettivo coperchio: arancio, verde, marrone chiaro. Una roba coi fiocchi, giuro.

Da quale vuoi cominciare? Ma lei, mamma, non poteva muovere la testa. Le avevano messo un grosso collare ortopedico del colore delle calze di nylon che indossano le donne anziane e non poteva abbassare la testa per guardare; così le ho elencato i colori: arancio, verde, marrone chiaro. Dammi quella alla carota, ha detto. Io non so se la pietanza di colore arancio avesse davvero a che fare con le carote, però scommetto di sì, scommetto che era proprio carota. Così la imbocco, imbocco mia madre come fosse un bambino piccolo. Lei è un po’ scorbutica, per niente agevole e io sono un po’ imbarazzato, perché è la prima volta, e raccogliere con il cucchiaio i resti di cibo che scivolano ai lati della bocca di un adulto, è un fatto decisamente intimo e assolutamente drammatico, una faccenda parecchio vicina alla morte. Per me.

Finito con l’arancione abbiamo attaccato il verde, rinunciando senza esitazione al temibile marrone chiaro.

Un po’ per il gran caldo che c’è nella stanza e un po’ per l’imbarazzo, ho la faccia rossa e accaldata, ma sono contento e il sogno finisce.

Mi sveglio e ho la faccia rossa e accaldata, le orecchie poi sono bollenti. Un sogno così realistico non l’avevo mai fatto. Niente di strano, niente che non possa accadere nella realtà. Ogni gesto, ogni distanza, ogni riflessione fatta, era assolutamente compatibile con la realtà, addirittura probabile, compreso il mio piagnisteo su Tom Joad. Tom non l’ha inventato Springsteen, ma Steinbeck, lo scrittore. Tom è il protagonista di “Furore”, un romanzo incredibile che dovete assolutamente leggere se volete cominciare a capire cosa significa il divario tra ricchi e poveri e l’atto criminale che implica mantenere o addirittura aumentare tale divario.

Se non avete voglia di leggerlo tutto, leggete il finale, la parte in cui Rosasharn da il suo latte a un uomo sfinito dalla fame. Il latte che esce dalle sue mammelle, destinato al suo bambino nato morto.

Quando per telefono ho raccontato il sogno a mia madre, lei ha detto che i passati di verdura e di carne erano veramente quelli, con quei colori, con quelle scodelle dal coperchio colorato, esattamente come li avevo visti in sogno. Quello color arancio era un passato di carote condito con un filo d’olio d’oliva e poco, pochissimo sale; non un granché, ha detto mia madre.

E certo che ho fatto un sogno così realistico! Perché per una settimana ho desiderato essere laggiù con lei e poterla imboccare o comunque esserle d’aiuto, accudirla come lei ha fatto a lungo con me quando ero bambino; essere laggiù e vedere quando le toglievano i punti e tutto, quando le disinfettavano le ferite e la rimettevano in piedi per la riabilitazione. Volevo esserci, perché quello è il posto di un figlio: vicino alla madre che ha rischiato di morire.

Ora sta meglio. Le hanno tolto il collare color carne ed è tornata a casa, oggi fanno otto giorni. Mi ha detto che la cicatrice è brutta: dalla fronte scende sul lato destro del volto attraversando la tempia, molto vicino all’arco sopraccigliare. Mi ha detto che i capelli le stanno ricrescendo e che appena tornata a casa ha fatto venire la sua amica parrucchiera per farsi dare una sistemata. 

Non ho mai desiderato così tanto essere con lei come in questo periodo. Ho smesso persino di masturbarmi, perché farlo mi costringerebbe a pensare a me e a quello che non posso avere, mentre voglio pensare solo a mia madre. Immagino la successione di accadimenti e gesti possibili nella sua giornata, in modo da essere lì quando serve. Quando la giornata termina e presumo che mamma vada a dormire, anche io tiro su le coperte e mi volto verso il muro, ma non finisco di pensare: penso a quando ero bambino, a tutti i momenti in cui mia madre era con me, per aiutarmi, per accudirmi. Lei non lo sapeva, io non lo sapevo. Nessuno sapeva che sarei finito sulla riva sbagliata. Ero un bambino tranquillo e passavo ore a giocare, da solo o con i compagni, senza annoiarmi mai.

 

Anche in carcere c’è la spending review, ma è solo per noi.  Mancano cose che prima avevi, cose che prima ti passava l’Amministrazione, mentre ora, se non hai un parente, un amico che te le procura… Cose come il sapone, il dentifricio… cose così. Prima passavano anche gli spazzolini da denti. Ora manca tutto. Anche la carta igienica, se non te la porta qualcuno da fuori. Oltre al fatto in sé, oltre al fatto che certe cose non le hai, questo sistema, questo risparmio sulla nostra pelle, ha portato differenze sociali anche qua dentro, dove invece eravamo più o meno uguali. Ora ci sono i ricchi e ci sono i poveri anche qua, dietro queste sbarre assurdamente inclinate dall’esterno verso l’interno.

Certo anche prima c’era chi aveva di più, ma ora la cosa è di un’evidenza tragica. Prima più o meno eravamo tutti uguali. Ora no. Il marocchino che qua non ha nessuno, fa la vita più da pezzo di merda della mia, che almeno ho mia sorella e mia madre che ogni tanto fanno arrivare un pacco con la carta igienica, il sapone, il dentifricio e a volte anche qualcosa da mangiare. Perché qua si patisce anche la fame, roba da terzo mondo.

© Massimo Martinelli





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