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Gli Scettico Blu
di Carlo Santulli
Pubblicato su SITO


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Di quel litigio, Francesco credeva di ricordare proprio tutto, ma magari non era vero. C’è sempre qualcosa che non si riesce a spiegare, anche di una persona in apparenza aperta come Alberto. Quella sera, se l’era presa con Sergio e, per dirla tutta, motivi reali non ce n’erano. La verità è che Alberto era stanco, dopo due anni di successi perfino esagerati, tendenti al furioso, specie al meridione: aveva delle occhiaie che arrivavano alla moquette (già, erano in albergo, all’estero, e le grida, pensava Francesco, erano scese a pianterreno). Il portiere avrà pensato che erano i soliti giovinastri, che avevano alzato troppo il gomito, e non si era premurato neanche di salire, né di chiamarli al telefono, anche se aveva ricevuto lamentele un po’ da tutti i piani (capirai, alle undici di sera, di lunedì...). Aveva lasciato solo un biglietto, che era scivolato sotto la porta, quando Sergio aveva deciso che ne aveva abbastanza di quelle parole scagliate verso di lui come coltelli affilati, ed era uscito a prender aria, a fumare forse. Ma Alberto non si era calmato, se non quando Francesco gli aveva sussurrato, come faceva quando insegnava alle elementari per spegnere il vocìo: “E se lo sanno i giornalisti?”.
Beh, l’avevano saputo: tre giorni dopo, due loro foto di repertorio, scelte con cattiveria tra le meno riuscite, incorniciavano il titolo “Rissa a Lione: gli Scettico Blu si sciolgono”. Allora Alberto aveva pianto, senza neanche leggere l’articolo, pieno di malignità, come al solito, ma non c’era più nulla da fare. Si erano sciolti, infatti, tanto per dar ragione a quel perditempo di un paparazzo, anche se Sergio, che era un bravo ragazzo, ed era il più giovane, quello con la voce delicata, aveva chiesto addirittura scusa ad Alberto. Ma lui, il batterista, quello con la voce profonda, non aveva sentito ragioni: “Se ci vogliono finiti, finiamola noi per primi”. Bel modo di ragionare: comodo, poi. D’altronde, Alberto aveva sempre agito da capo, non da batterista, e pian piano aveva impregnato della sua volontà le decisioni del gruppo: poche scivolate nel jazz, qualche parte parlata, ma suggestiva, ritmo quanto necessario, poi molto coro, molti controcanti, anche in décalage, per far vedere che dominiamo la tecnica. Francesco, e parzialmente Sergio, avrebbero voluto più protesta, messaggi più chiari, il momento era giusto, sembrava che tutti contestassero tutti, altro che essere tutti d’accordo, come si illudeva quel cantante col gran naso, che però li aveva in simpatia. Ma per Alberto la musica veniva prima di tutto, e l’arrangiamento, la struttura della canzone, doveva rivestire tutto il resto, giustificarlo in un certo senso. Eppure...c’erano dei momenti che Alberto, con quel pizzetto un po’ incerto, più dimenticato sul mento che studiato, e quella corporatura alta e robusta, si animava, si scatenava, sempre nel limite della sua formazione di musicista, che cercava di far credere più solida di quel che fosse in realtà. Francesco si ricordava quella sera a Padova, prima del concerto, quello strano minuetto o gavotta che gli era venuto in mente e che aveva accennato, camminando a passi enormi come un orco su e giù per i camerini, e che era diventato una canzone estemporanea, un successo di cui si erano sempre un po’ vergognati. Specie Sergio, cui era uscito, nell’emozione di veder Alberto contento, dopo otto ore di borbottii e lamentele, una specie di vocalizzo da gallina in calore, aveva considerato quel minuetto una specie di affronto personale, ed aveva fatto promettere al produttore, quello scemetto stempiato con la barba nera, di cancellare la registrazione, cosa che lui aveva giurato con le mani in croce. Due mesi dopo, il cliché del 45 giri del Ballo della chioccia era pronto: “Bei cantanti di protesta”, aveva sbottato Sergio, soppesando il disco nelle due mani, forse incerto se distruggerlo. Ma Alberto gli aveva detto: “Anche chi di solito contesta, a volte si diverte” con un tono di chi sa di aver ragione, e non spende troppe parole per dimostrarlo.
Il quarto era Mario, e somigliava a Ringo Starr, vagamente per la verità, anche se non perdeva occasione di rimarcare la somiglianza, bassetto lo era davvero, e probabilmente più dell’originale, e unassuming, come John aveva definito Ringo, parola che Mario non sapeva esattamente come si traducesse in italiano, ma comunque era come si sentiva di essere, forse modesto, senza pretese. Francesco non capiva che gusto ci fosse ad esasperare la somiglianza col più brutto dei quattro, quello che manco cantava di solito, mentre Mario le sue brave sortite le faceva, forse perché aveva paura di Alberto, ed allora lasciava la chitarra in un angolo, si accostava agli altri, e pian piano ci prendeva gusto e tirava fuori la voce.
Alberto il successo pensava di meritarselo, era una grancassa, come Sergio l’aveva definito in un momento felice, ed invitava a cena chiunque, così, per farsi vedere dal vivo e poter parlare senza esser contraddetto, non per ostentare i soldi. Dei soldi, non gliene fregava niente, si era fatto l’americana, come anche Sergio e, dopo qualche insistenza, anche lui, Francesco, il maestrino di Porta Vittoria, solo per vedere, come diceva, quanto era lunga da vicino. Alberto una Plymouth, Sergio una Lincoln, lui, boh, non si ricordava manco più, una qualunque: l’avrà guidata forse tre volte, un pieno di benzina costava quanto l’anticipo che aveva dato per la Seicento quattro anni prima. Mario non aveva voluto l’americana, anzi (a volte quel ragazzo poteva essere cattivo) si era accostato, da sotto in su, ad Alberto che in compagnia di una ragazza, di quelle un po’ esagerate che piacevano a lui, magnificava la Plymouth, e gli aveva detto a muso duro: “Tu farai la fine di Buscaglione”. Al che Alberto, senza scomporsi, gli aveva replicato: “Sì, ma di giorno, e non da solo”, mentre ammiccava alla ragazza che forse, povera stupidella, non sapeva nemmeno di cosa si stesse parlando (o fingeva, come sanno fare le donne). Che c’entrava quel poveraccio di Buscaglione con Alberto? Poi la Plymouth era verdina (verde cesso, gli aveva detto di nascosto Sergio, perché aveva un colorino che ricordava le piastrelle dei bagni pubblici) e mica rosa come la Thunderbird di Fred (non avevano fatto a tempo a conoscerlo, comunque era, beh, era stato sempre un collega).
Alberto sembrava essere inesauribile, si tirava dietro date, concerti, cantagiri, città e paeselli come se fossero stati platani sulla statale, facendo credere a tutti di essere il capo, anche perché con quella voce profonda, sprizzava carisma e ottimismo (a parole, mica nella realtà. Francesco non contava le volte che l’aveva trovato bagnato di sudore e di paura la sera prima di andare sul palco: da Mario e Sergio non si faceva vedere, “perché sono ragazzini” diceva). Poi, una canzone intera, Alberto non l’aveva mai scritta da solo, mentre loro tre, il maestrino ed i due ragazzini sì: ma fingevano di dimenticarlo; tanto, come diceva lui “se non volete che sia solo fuffa, da me dovete venire”. Fino a quella sera a Lione, quando la paura se l’era mangiato vivo (il giorno dopo dovevano andare a Parigi), e lui aveva cercato di scaricarla su Sergio, e Francesco aveva dovuto telefonare all’impresario francese per disdire: on a tous la grippe, gli aveva detto, e non suonava credibile nemmeno a se stesso. Influenza ad agosto, figurati, a Lione c’era un caldo da schiattare, infatti avevano anche le finestre aperte quando la tensione e i fantasmi della mente si erano giocati Alberto. Tutta la città doveva aver sentito la prima fine degli Scettico Blu.
Si erano rivisti, un paio d’anni dopo, Francesco e Sergio d’altronde vivevano vicino, Mario aveva ancora la stessa zazzera, ed Alberto se n’era uscito, con la solita boria, con proposte per canzoni di protesta “che più di protesta non si può” che sembrava che i canti operai fossero zuccherini al confronto. Erano tornati a registrare: l’LP era uscito, ma non aveva avuto distribuzione. “Difficile” aveva detto il produttore “Siete vent’anni avanti, secondo me”, al che Alberto rispose: “Lo so”, e Mario scoppiò a ridere nervosamente, chissà perché. Dopo, erano passati venticinque anni di silenzio, solo Francesco e Sergio si vedevano, con le rispettive famiglie, giocavano coi bambini, tre Francesco, due Sergio, più o meno della stessa età. Poi Sergio, quello con la voce d’angelo, si era ammalato di tumore ed era morto.
Un giovedì, una voce profonda, da leader, lo aveva cercato al telefono. Ora stava andando in un posto che non conosceva, a parlare con un tipo che era una specie d’inviato del Consolato di non sapeva che città tedesca, Francoforte, Monaco, non aveva capito bene, Alberto gli aveva spiegato che lui era la sua speranza, Mario si era fatto negare al telefono, sapeva che il povero Sergio... l’aveva letto sui giornali, ma lui Francesco, così colto, così intelligente, avrebbe capito... La zona non era un granché per un incontro con un inviato del console, ammesso che lo fosse davvero, Francesco rintracciò non senza fatica i mezzi per andarci (da tempo non guidava più): poteva forse essere un tranello? Eppure la voce era la sua, immutata negli anni, anche il tono, anche l’arroganza di chi sa che dietro di sé ha il vuoto e il buio. Quando stava per entrare in quella specie di circolo dopolavoristico, si ricordò del litigio, Lione 17 agosto 1968, la prima fine degli Scettico Blu, e si rese conto che tanti dettagli si erano persi, vedeva come in sogno Alberto ed il povero Sergio, e, gli sembrava, fogli di carta da musica volare in quella stanza d’albergo, che non valeva quel che l’avevano pagata: Hotel Métropole, il nome lo ricordava ancora. Ed ora, che ci stava a fare lì, in quella periferia di capannoni, eternit e tubi Innocenti, dove quella costruzione giallina sembrava scampata alla demolizione per sbaglio.
Entrò, e si sentì subito meglio: almeno faceva caldo. Era pur sempre l’inizio di novembre, anche se ragionevolmente mite quell’anno. In ogni modo, aveva gli occhiali appannati, e poi...non c’era traccia di Alberto: a vari tavoli si giocava a carte, qualcuno parlava a voce troppo alta, e la barista lo squadrava diffidente. La cornetta del telefono a scatti penzolava inerte. Una specie di tuffo nel passato, e senza braccioli né ciambella. Non era preparato, e poi, improvvisamente, quell’atmosfera, quelle lampadine fioche, che non arrivavano da un tavolo all’altro, lo facevano sentire vecchio, a disagio, finito. Che diamine, una moglie e tre figli, un lavoro tranquillo a scuola, ed era corso dietro a quel disadattato, che probabilmente correva ancora dietro alle gonnelle come trent’anni prima. Era cretino, certo, ma intanto il disagio cresceva, e Francesco si avvicinò alla barista, che vista più da vicino gli sembrò meno diffidente, forse sperava di scucirgli almeno un caffè. “Ci sarà anche Riccardo, che da solo gioca a biliardo...” pensò. Alberto era nascosto, in una saletta leggermente meno scalcinata, pomposamente soprannominata “ridottino”, dove il lusso era limitato a qualche tovaglia non a quadroni sui tavoli e ad un paio di stampe bisunte, copie di quadri di Brera o di qualche altra civica raccolta. Lo abbracciò, anzi lo travolse, e non si scusò affatto, il che indicava che non era cambiato, e questo era un problema, ma anche in certo senso una garanzia. Accanto a lui, dietro una birra alla spina, un ometto calvo e grassoccio sorrideva, con più entusiasmo che denti.
“Questo è Francesco, l’altro Scettico”.
L’ometto si animò, divenne quasi fosforescente, nell’atmosfera depressa del ridottino. “Si conoscevano?” pensava Francesco. “Allora” gli disse quello con uno spiccato accento tedesco-avellinese “lei è quello che cantava il ritornello della Posada?”.
La Posada era un’incursione pseudo-catalana di Alberto che, dopo aver letto su qualche rotocalco che c’era rischio facessero fuori sia Bob Kennedy, come poi puntualmente avvenne, che forse Ted, che invece se la cavò piuttosto bene alla fin fine, aveva detto: “Basta con le cover, basta di dare i soldi ai gangster. Da domani sombreri e Ramblas!” come se le due cose avessero qualcosa in comune. Francesco sbiancò al ricordo di quel ritornello cantato con un finto accento della Costa Brava, ed Alberto, insistente, spigoloso, incalzò: “Dagli del tu, Pasquale, Francesco è un amico, il mio migliore amico”. Questa poi... Si sedette: la barista, comparsa con un sorrisetto di trionfo, gli portò un cappuccino liquidissimo e appena vagamente schiumoso, che senza dubbio Alberto aveva ordinato per lui, visto e considerato che lei lo guardava con l’aria di “se non c’era il signore, voi...”
Pasquale riprese, con una voce stridula che mal si accordava con la corporatura: “Noi a Kassel sappiamo tutto di voi Scettici...” Alberto ritenne di dover precisare, quasi urlando: “Kassel è al centro della Germania, a nord di Francoforte...” Francesco annuì in modo anodino e rassegnato, cercando con la coda dell’occhio se il ridottino avesse un’uscita secondaria. Non l’aveva. Nel farlo incontrò il viso sudato di Pasquale, sul quale sembrava si riflettessero tutte le poche luci di quella saletta, e si sentì venir meno: quell’entusiasmo infantile, quelle rughe profonde sugli zigomi pronunciati, tutto in un’espressione a stento trattenuta che si allargava da sola, come se non sapesse se poteva mostrare una qualche emozione o franchezza.
“Io sono venuto via dall’Italia, quando voi eravate in testa all’Hit Parade, con quella canzone...”
“Profeta d’amore”: Alberto ricordava tutto, a quanto pareva. D’altro canto, era stata l’unica volta in cui erano stati numero uno, e Sergio era quasi svenuto davanti alla radio, quando aveva sentito la voce di Luttazzi fare il loro nome per ultimo. Povero Sergio... Mancavano ancora pochi mesi alla fine, a quel litigio senza motivo nell’albergo che affacciava sul lungofiume.
“Eh già, ma poi, perdonatemi, sapete, lontano, lavoro, famiglia, vi avevo scordato, così... vergessen...“
“Ma” disse Alberto, sollevando l’indice come una specie di Mosé “ascolta bene Francesco, io la storia l’ho già sentita quattro volte stasera, ma non mi stancherei mai...Ma ora ascolta tu, io la so a memoria”
“Mio figlio, quello grande, Bert, poi vi faccio vedere la foto, ce l’ho qui... Non so com’è, perché non parla nemmanco bene italiano, ma ama la nostra musica. Sessanta, settanta, fino ad oggi... Si trovava in un posto vicino a noi, che vendeva cose vecchie, Flohmarkt, come si dice..., quelle che saltano...”
“Va bene” troncò la ricerca lessicale Alberto, al quale, dichiaratamente, il tedesco faceva venire il mal di testa (almeno così disse quella notte a Lione: Francesco lo ricordava solo in quel momento, perché Sergio aveva parlato di una ballata di Kurt Weill).
“Il mercato delle pulci” disse Francesco a fatica, ed Alberto lo guardò ammirato, come a dire “Vede com’è colto il mio amico?”
“Trova questo vecchio disco del Profeta d’amore, gut, viene su a casa, e lo mette sul piatto...E giù a dire che è roba forte, che nei Sessanta si faceva roba moderna...Grande...E i miei altri figli tutti d’accordo...”
“E lei che ha fatto?”
“E fallo parlare, Alberto, non l’interrompere in continuazione, porca miseria!” gridò Francesco all’improvviso, o così credette, perché Pasquale continuava, lento, imperturbabile: “E io dicevo: la voce bassa è l’Alberto, poi c’è questo alle tastiere Franco, mi pare...come se vi conoscessi, e mi sono ricordato di quando sono andato via dall’Italia...”
Francesco era stupito: dopo trent’anni, 17 agosto 1968, ricorda, Lione Hotel Métropole, quello che era venuto dopo era contato poco, era solo la fine della storia, il gatto che non riesce più a salire il muro da dove era sceso tracotante, Pasquale ricordava tutto: tirò fuori anche una loro foto, quella doveva essere Riccione, ritagli di giornali d’epoca, rastrellati tra i suoi amici di qua e di là dal Brennero, poi mostrò la foto dei quattro figli, il grande coi baffoni, già un po’ fuori moda, la ragazzina con le trecce e i due gemelli.
“Sa, mia moglie non fa le foto. Dice che viene male, ma magari, se vengono, gliela posso presentare di persona, che è molto più bella. E cucina bene, italiano autentico, eh?”
“Se vengono”: chi doveva venire e dove?
“Ecco, Francesco” lo accostò Alberto, per la prima volta abbassando la voce “Il signore ci chiede se possiamo riunirci in una sala che hanno loro in quel paese, e suonare, noi Scettico Blu, per loro? Per lui, i suoi figli...”
“Duemila italiani ci sono a Kassel, che verrebbero”
“Ma, non so, gli Scettico Blu non esistono più, era una vita fa, poi Sergino è morto, e Mario è...impegnato...” Francesco parlava con fatica.
“Noi possiamo pagare...Pagheremo!”
“Non è per questo, è che sa che io sono quasi nonno. Tra tre mesi”
“Congratulazioni!” gli gridò Alberto: qualcuno si voltò a guardarli. Francesco sorrise amaro, e si alzò: “Mi scusi, ma proprio, proprio non posso. E’ stato un piacere conoscerla” e strinse la mano a Pasquale, che cercava invano un modo per replicare a quella piega così imprevista. Stava quasi per metter mano al portafoglio...
Uscì all’aperto, era buio, e le luci di sicurezza della fabbrica di fronte gli davano un senso di gelo e di desolazione. Si avviò verso la fermata dell’autobus, ma si vide davanti Alberto, che con quell’aria da bambinone in castigo che aveva solo con lui quando qualcosa l’impauriva, gli sussurrò: “Proprio non vuoi?”
“Non è che non voglio... E’ che voglio sia chiaro che non lo faccio per te. Per Sergio semmai. E poi per quel...”
“Non fa niente, basta che lo facciamo. Un concerto, e basta”
“E cosa cantiamo?”
“Quello lo decido io: sto ripassandomi tutto il repertorio alla tastiera, da ieri l’altro, da quando Pasquale è arrivato. L’ho anche ospitato a casa...”
“Sei generoso, tu”
“Diciamo scapolo. E poi un tempo non dicevate così: dicevate pazzo ed incosciente, specie Mario... Ma si cambia, sai? La voce però è sempre quella: i bassi non si logorano mai...” Alberto si fermò e lo guardò fisso, facendo ombra anche alla fabbrica. “Ecco, mi piacerebbe che lo facessi...”
Francesco reclinò appena il capo.
“Oh, meno male, ora torno dentro a dirlo a quel poverino del tedesco, che sarà in pensiero...”.
Alberto corse indietro come un fulmine di sessant’anni, poi gli urlò di lontano: “Sempre meglio che vedere la TV, no?”
Beh, sì, doveva ammettere Francesco, sempre meglio che stare in pantofole davanti allo schermo: non sapeva se gli uscisse ancora la voce, non aveva più cantato dal ’70 a dir poco. Forse gli sarebbe bastato ricordare quei tempi, che sembravano tanto lontani, in cui gli Scettico Blu facevano furore. Quanto era durato? Due anni, forse tre: in una vita già oltre i sessanta erano un soffio, la coda di una cometa. Magari a cavalcioni sulla cometa c’era Sergio, e poteva vedere il loro ultimo concerto senza pagare.

© Carlo Santulli





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