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L’estate dell’indipendenza fu per Luca, quella dei suoi dodici anni. La seconda media gli era volata alle spalle senza nessun problema e si era guadagnato il diritto di andare in paese da solo, pedalando per i vialetti polverosi in mezzo ai campi.
“Solo promettimi di non fare la statale.” Si era raccomandata per la quindicesima volta sua madre, con in fondo alla voce quel tremolio di madre preoccupata che lo infastidiva tanto. Luca abitava con i suoi in una villettina a un quattro chilometri dal paese, era stata una cascina con tanto di stalle e cantine per il vino, ma suo padre aveva venduto tutto, tenendosi solo la casa padronale. Lavorava con il computer suo padre, da casa, uno dei primi a fare telelavoro in tutta Italia, si vantava spesso. Così per tanti anni Luca era rimasto imprigionato nel cortile della cascina, oppure accompagnato dai suoi genitori come un poppante fino al paese, l’estate scorsa se voleva vedere i suoi amici doveva farsi accompagnare in paese ed essere raccattato nuovamente per tornare, una vergogna inimmaginabile. Ora sembrava che persino la sua apprensiva madre si fosse accorta che stava crescendo e finalmente il tanto agognato permesso era arrivato. Il regalo di promozione era stato un cellulare.
“Portalo sempre e acceso, mi raccomando.” Si era assicurata con voce tremolante sua madre. Ed ora pedalava libero con i capelli biondi al vento, il Sole davanti agli occhi e tutta un’estate di libertà, non gli sembrava vero, il suo cuore e il suo respiro sembravano non avere confini si espandevano in quel mondo che era tuta una meraviglia di cose da fare e da scoprire.
Improvvisamente, fu la casa.
Sembrava piegarsi in avanti, osservava attraverso numerosi occhi dalle pupille infrante, iridi taglienti dagli spigoli acuminati.
Minacciava immobile.
Luca guardò verso il muro grigiastro ferito da crepe, era passato nelle vicinanze con i suoi genitori, ma da solo era tutta un’altra faccenda, l’aria sembrava farsi più densa e fredda, dava fastidio in gola e portava poco sollievo ai polmoni affaticati dal pedalare. Le imposte ricordavano palpebre morte e penzolanti, attaccate per lembi di pelle al cadavere che si stava decomponendo. L’intonaco sembrava pelle morta, a pezzi cadeva nella polvere seccandosi al sole di fine giugno. Le ombre davano l'illusione del movimento. Era il volto di un enorme essere deforme, che tentava di sradicare le fondamenta e camminare libero per il mondo.
Cercava d'ignorare la sensazione che quella cosa fosse viva e lo stesse guardando. Pareva sapere che lui era lì, aspettava che si avvicinasse un po' di più per prenderlo e ingoiarlo, tenerlo in una sorta di limbo, a metà fra questo universo e un altro, dove cose buie e pericolose camminavano, cose con artigli e denti aguzzi, cose piene di rabbia e rancore per tutto ciò che è vivo e innocente.
Luca si considerava un ragazzino coraggioso, senza particolari apprensioni da moccioso per il buio, le cantine polverose o le porte chiuse. Ma la casa era un'altra faccenda, pompava una disperazione agghiacciante, una sensazione di morte che saliva dal terreno grigiastro tutto intorno. Era una zona di passaggio, un corridoio che portava dove lui non avrebbe mai voluto andare.
Nella casa abitava un tizio, un handy. Anche se davanti a suo padre si ricordava di chiamarlo “portatore di handicap”. Un omone dagli occhi obliqui e un sorriso ebete.
Ne raccontavano di cose su di lui, che rapiva i bambini e li teneva nella casa, soprattutto quelli disubbidienti e piagnoni e faceva cose che le persone normali non osano nemmeno pronunciare. In paese spesso risuonavano le parole isteriche di qualche madre arrivata al fondo della pazienza: “Se non la pianti ti lascio col tizio della casa!!” Avere l’orco cattivo lì vicino portava qualche vantaggio.
“Quello è un povero cristo.” Sosteneva invece il padre di Luca. “Un ragazzo sfortunato che se la cava alla bell'e meglio.” Ma Luca pedalava di gran lena appena intravedeva la geometria storta della casa. Dava l'impressione di una cosa antica e paziente, che sa aspettare i giovani entusiasti ragazzini che per troppa fretta o poca esperienza, si vanno a infilare nelle sue grinfie.
Dopo i venti metri di strada vicino alla cancellata nera, l’aria prendeva una fragranza leggera e delicata, Luca si accorgeva di avere le mani indolenzite per aver stretto troppo i manubri della sua bici. Quel giorno aveva tardato appositamente, amava gli ingressi trionfali e si era preparato la scena del suo ingresso in piazza. Il primo giorno della sua vita da adulto.
La piazza del comune era un piccolo slargo con tre panchine e una fontanella striminzita, tutto in scala nel loro paese di seimilaottcento anime. A dir la verità non era propriamente il paese di Luca, perché lui abitava in frazione Cantinelle. Arrivò che c’erano già tutti, svaccati sulle panchine verdi ad arrostirsi al sole di giugno, Diego fu il primo a notare il suo arrivo, Teo era immerso in una partita al game boy, una vera malattia per quel ragazzo che, quando non giocava ai giochini elettronici s’ingozzava di merendine, gelati e caramelle, contribuendo con generosità al cumulo di grasso che strabordava dal suo corpo. Fabio e Mara stavano su un’alta panchina a parlottare fra loro, ultimamente succedeva sempre più spesso, alle elementari i cinque erano sempre stati insieme, ma in prima media Luca, Diego e Teo erano in una sezione diversa e nel corso dei due anni scolastici il rapporto fra Fabio e Mara era cambiato, a dire la verità anche Mara era cambiata notevolmente, esplosa in una rigogliosa pubertà che le aveva evidenziato parti del corpo fino a quel momento sopite sotto le spoglie dell’infanzia e donato una sinuosità che risvegliava desideri a cui Luca era ancora impreparato.
“Ciao a Tutti!” esclamò sgommando.
“Ciao.” Rispose laconico Diego. Teo mugugnò qualcosa, sempre tenendo lo sguardo fisso sul giochino.
“Bella Luca.” Disse Fabio. “Sei diventato un ometto, ti fanno venire solo in paese?”
Luca gli mostrò il dito, mentre scendeva di sella e allineava la propria bici alle altre. Ma era troppo felice per arrabbiarsi delle prese in giro di Fabio, fece un cenno a Mara godendosi il viso incorniciato dai capelli biondi e lo scorcio di pancia che la maglietta corta faceva intravedere, lei gli sorrise socchiudendo gli occhi, una cosa che aveva preso a fare ultimamente che mandava letteralmente in ebollizione il sangue di Luca.
“Ciao socio, allora come va?” Diego era e sarebbe stato per sempre il migliore amico di Luca, non sapeva esattamente il motivo, ma la loro affinità andava oltre le parole. Non era un rapporto facile, Diego era chiuso, scattoso poteva cambiare umore ed esploderti in faccia come un raudo difettoso, d’altra parte non parlava molto di sé per lo più stava zitto e ascoltava, ma forse ne avrebbe avute da dire; in un paese piccolo come quello lo sapevano tutti che suo padre lo menava, tant’è che nemmeno il Chiorla padre ne faceva un mistero, gridando a più non posso che quando s’incazzava lo sentivano fino a Milano. La madre era una donnetta mite e silenziosa, l’aveva incrociata qualche volta a scuola a parlare con maestre o professori, gli aveva sorriso, non l’aveva mai sentita parlare, frequentava la chiesa, tra i più fedeli della cerchia di don Giorgio sempre in prima fila a messa la domenica e nelle iniziative benefiche in cui si lanciavano gli agguerriti paesani cattolici e apostolici. Don Giorgio era persino andato di persona a parlare col Chiorla padre, un pezzo d’uomo che lavorava saltuariamente nei campi anche per dodici ore di fila senza nessun problema, Luca non sapeva cosa si erano detti, ma i lividi sulla faccia del suo amico non erano passati e il don ora faceva di tutto per ignorare il Chiorla, anzi se per caso lo incontrava per strada faceva tanto di cambiare marciapiede.
“Normale.” Rispose l’altro, lanciando un’occhiata alla panchina vicino dove Fabio e Mara avevano ripreso la loro conversazione a mezza voce. C’erano equilibri che si stavano spostando fra loro. Cose che Luca avvertiva anche dentro di sé e riusciva a capire poco. Relazioni che rischiavano di crollare per troppi silenzi o troppa indifferenza. Amicizie che andavano compromettendosi per uno sguardo bieco. Nella sua vita di preadolescente non c’erano mai state tutte quelle complicazioni e, con l’intelligenza che lo aveva sempre contraddistinto, Luca immaginava che crescendo le cose sarebbero solo peggiorate.
“Hai finito di bruciarti il cervello?!” Disse a Teo che si limitò a scuotere la testa immerso fin sopra alle orecchie nella partita, Luca gli mise una mano sul display.
“Dai stronzo!” Ma già la musichetta annunciava che la partita era finita. “Ma vaffanculo, mi hai fottuto la partita.”
“Sai che roba.” Rispose Luca ficcandosi tra i due. “Cazzo esci da casa a fare se stai attaccato a quel robo tutto il santo giorno?” Il game boy finì nel marsupio e le grassottelle dita di Teo ne tirarono fuori due pacchetti di caramelle. “Volete?” Entrambi scossero la testa. “Ehi laggiù! Volete una caramella.” Fabio fece cenno di no con la mano, Mara mosse la testa smovendo le sue chiome. Luca notò lo sguardo dell’amico restare su di lei un po’ troppo a lungo. Non ci si capiva molto della testa di Diego, soprattutto perché lui faceva il meno possibile per rivelarsi, doveva avere una botola buia dove metteva tutte le cose, soprattutto quelle brutte. Se arrivava a scuola con un livido in faccia si metteva seduto sul suo banco, come se dovesse digerire l’accaduto, come se fosse necessario metabolizzarlo. Luca si diceva che lo stava spingendo nella botola, conduceva la sua battaglia interna e poi, d’improvviso, ricominciava a parlare e scherzare come sempre. Probabilmente tutti noi abbiamo una botola nera dove ficchiamo le cose che non ci piacciono, un posto buio e nascosto che non desideriamo vedere.
“Facciamo qualcosa, vorrete mica stare qui come cinque deficienti?” Saltò su Luca.
“Cosa proponi?” Chiese Fabio con tono mellifluo.
“Facciamo sta cazzo di diga.” La diga era stata nei loro pensieri per gli ultimi due mesi di scuola. Il fiume che scorreva vicino al paese era un po’ troppo basso per potersi tuffare, ma se avessero costruito una diga c’era un posto perfetto dove l’acqua si sarebbe accumulata, proprio sotto una quercia dai rami possenti che pendevano direttamente sull’acqua. La proposta fu accolta un po’ freddamente. “E dai, ne abbiamo parlato tanto.” Per lo più era lui che ne aveva parlato, cercando di tirare in mezzo gli amici col suo entusiasmo. Era stato suo padre a dirglielo.
“L’acqua non è abbastanza alta?” Si era limitato a suggerire a cena. “Costruite una diga, lo fanno anche i castori.” Suo padre era la parte razionale della vita di Luca, ancora un punto di riferimento che ascoltava volentieri e di cui cercava ancora l’approvazione. Non poteva immaginarsi in una situazione come quella di Diego, dove il genitore che avrebbe dovuto proteggerti ti si poteva rivoltare contro e farti del male. Luca avrebbe fatto quella diga a regola d’arte e ci avrebbe portato suo padre per vederla.
“Per me.” Disse Diego alzandosi. “Si può anche fare, magari facciamo pagare per tuffarci.”
“Già!” Saltò su Teo, che a parlare di soldi si catturava immediatamente la sua attenzione, come se la sua famiglia ne avesse bisogno. “Un euro a tuffo.”
“Cazzo, due sacchi per tuffarsi da un ramo?” Replicò Fabio.
“Non sono due sacchi.” Teo era già in piedi. “E poi se la facciamo bene sarà l’unico punto in cui ci si può tuffare, potemmo metterci a vendere bibite. Le compriamo al centro commerciale e le portiamo nei frigo da campeggio sulla bici e…”
“Frena, cominciamo a darci da fare, poi vedremo.”
“Certo, ma chi si vuole tuffare deve pagare.” Teo era figlio di un assessore e già si delineavano le preferenze che avrebbe avuto nella vita. Luca non si sarebbe mai sognato di far pagare, voleva quella diga e voleva farla bene, del resto non gliene fregava un emerito.
Salirono sulle biciclette parlando di sassi e terra, di come organizzarsi e di quali fossero le prime cose da fare.
“Scegliere il posto.” Gridò Diego con la sua voce che già aveva preso un tono basso. Con i capelli quasi rasati e l’orecchino d’oro sembrava aver intrapreso la carriera di delinquente, l’apprensiva madre di Luca aveva trovato da ridire sulla loro amicizia fin da subito, ma in sei anni non era ancora riuscita nel suo intento. “Per prima cosa scegliamo il posto, io una mezza idea ce l’ho”.
Si accodarono a lui come da sempre era successo, in ogni cosa Diego stava alla guida del gruppo, per Luca era una cosa talmente naturale che non si faceva la minima domanda. Lavorarono tutta la mattina, trasportando sassi, rami e terra, sporcandosi fin sopra alle orecchie, Diego fu il primo a togliersi la maglietta, seguito da Fabio e Luca, Teo non li imitò, aveva una certa diffidenza a mostrarsi a torso nudo. Mara naturalmente tenne il suo top bianco che si bagnò e mise in mostra il disegno del reggiseno sottostante, l’acqua fredda contribuì a inturgidire i capezzoli e gli sguardi dei quattro ragazzi furono una continua danza fra le loro mani e il seno dell’amica. Luca aveva un’immaginazione abbastanza fervida per costruirsi un’immagine di lei nuda, magari insieme a lui in quello stesso fiume a scoprire e provare cose che sono l’anticamera del mondo degli adulti. I suoi pensieri furono interrotti dal suono del cellulare.
“Ma dove sei?” Irruppe la voce della madre apprensiva. “E’ quasi l’una.”
“Scusa mi sono distratto, arrivo subito.” Doveva tornare per le dodici e mezza, a casa vigeva il codice di rispettare gli orari. “Ragazzi ci vediamo oggi pomeriggio.” Anche gli altri avevano perso la nozione del tempo con quella capacità tipicamente adolescenziale d’immergersi con passione nelle cose, dimenticando tutto il resto.
“Ci becchiamo direttamente qui?” Gridò Teo.
“Va bene.” Fece luca da sopra la spalla, già si stava preparando a beccarsi i rimbrotti di suo padre e il sermone su come la fiducia si costruisca sulla responsabilità.
La casa era lì ad attenderlo, non appena la vide il respiro si fece affannoso, era come un gorgo in mezzo all’acqua, che se non ci stai attento ti risucchia trascinandoti in fondo. Il sole pieno di metà giornata illuminava la sua pelle vecchia e scorticata, ma non riusciva a penetrare oltre i vetri rotti, lì il buio era totale, quasi solido e li potevi sentire i mille sguardi che osservavano quel ragazzino biondo, disapprovando il suo ritardo, disapprovando i suoi dodici anni e la sua fresca gioventù di cucciolo d’uomo.
Aumentò la pedalata superando ancora una volta il cancello nero e tornando a respirare normalmente solo dopo. Sentiva lo sguardo puntato sulla schiena, non si voltò temendo di vedere che si era girata per osservarlo, come a stamparsi bene a mente la sua figura.
Il predicozzo arrivò puntuale, si giustificò brevemente e volò a lavarsi prima del pranzo, sapeva bene che per una volta se la sarebbe cavata con poco. Se fosse stato Diego sarebbero volate sberle e pugni, suo padre non ci sapeva fare molto con le parole, così gli aveva detto l’amico.
“Lui ci sa fare solo con le mani.” Una delle rare volte che si era un attimo sbottonato, erano in un angolo del cortile della chiesa, nascosti stavano fumando la prima sigaretta della loro vita, forse l’attimo di complicità aveva creato il momento giusto, fatto sta che Diego aveva cominciato a parlare e la voce era roca, forse aveva gli occhi lucidi, ma Luca sapeva bene che non avrebbe dovuto guardare negli occhi il suo amico, se stava piangendo era una cosa personale. “Se combino qualche minchiata sono botte, schiaffi e pugni, a volte mi graffia.” C’era stato un attimo di silenzio, Luca non aveva osato neppure muoversi, forse per non rompere il clima che si era creato. “Ma solo sulla schiena, ha unghie dure come pietre, quando lo fa non dormo per almeno tre notti.”
Luca probabilmente non ci avrebbe creduto se non avesse visto coi propri occhi i lividi e le cicatrici che disegnavano una cartina stradale sulla schiena di Diego. “Sono caduto su dei vetri.” Raccontava lui. “Sono volato dalla bici.” Era un’altra delle cazzate che nessuno a scuola o in paese si beveva, perché tutti sapevano come stavano le cose.
La diga veniva su, anche se pensarla e realizzarla erano due cose completamente diverse. Dopo una settimana già aveva una considerevole altezza e cominciava a costringere una certa quantità d’acqua. Un pomeriggio arrivarono e la trovarono distrutta.
“Che figli di puttana.” Disse Diego. “Saranno stati Merlo e gli altri stronzi.” Si riferiva ai ragazzi più grandi, quelli che stavano nel limbo compreso tra i quattordici e i diciassette anni. I maggiorenni del paese avevano tutti la patente e se ne scappavano il più lontano possibile appena potevano. Ma tra quattordici e diciassette hai al massimo un motorino e rimani inchiodato nei dintorni polverosi a far passare il tempo, troppo grandi per i giochi idioti dei mozzi, come definivano quelli che ancora facevano le medie, ma troppo giovani per rischiare la pelle a cent’ottanta dopo essere stati a ballare in qualche discoteca dei dintorni. Merlo era uno degli esempi più calzanti di questo prototipo, chiamato così per i capelli neri e il naso a becco, aveva quindici anni e, dopo la terza media, non faceva un emerito cazzo. Con tutto quel tempo libero a disposizione aveva un’inesauribile scorta di scherzi da stronzo per i mozzi del paese. Come la volta che, munito di tronchese, aveva tagliato le catene delle biciclette di mezza scuola. Era specializzato anche in tagli delle gomme delle macchine e rigature varie sui cofani, artisticamente modellate sul disegno di sproporzionati membri maschili. Si portava dietro un’accozzaglia di dementi stronzi come lui e, se possibile, con meno cervello.
“Aspetta che prendano la patente.” Aveva sentenziato suo padre. “e vedrai che ammazzeranno qualcuno.”
“Non so.” Rispose Luca scendendo dalla bici. La diga era crollata al centro, un buco largo da cui defluiva l’acqua in una cascatella di mezzo metro. “Secondo me è stata l’acqua, l’abbiamo fatta troppo leggera.” Si tolse maglietta e pantaloni e andò a vedere il danno. La corrente era forte, l’acqua gli lambiva appena il costume, ma faticava a stare in piedi. “Dobbiamo rinforzarla dietro, la corrente è forte.”
“Sì ma che palle.” Disse Fabio. “Mi sono rotto di fare il muratore. Oggi non faccio un cazzo.” Quindi si sedette accendendosi una sigaretta.
“Anch’io non ho voglia di bagnarmi.” Replicò Mara con la sua voce da uccellino e si mise di fianco a lui.
“Bene, chi mi ama mi segua.” Luca cominciò a impilare sassi, seguito da Diego e Teo, ma lavorarono in silenzio e di malavoglia, mentre i due amici sulla riva parlottavano fra loro chiudendosi nella cinta della loro complicità.
Ogni volta la casa tornava a lui. Era questa la sensazione che Luca aveva, che fosse la casa ad arrivare a lui e non viceversa. Gl’invadeva le emozioni, soggiogava i suoi pensieri come un tanfo nauseabondo che avverti, ma di cui non riesci a scoprire l’origine. Ora ci pensava anche mentre prendeva manciate di terra per tappare i buchi fra i sassi, era lì ad aspettare l’abitudinario ragazzino biondo troppo pieno di vita, conosceva le sue abitudini, i suoi orari, i suoi troppi occhi lo seguivano bramando la sua giovinezza, desiderando la sua vita.
Non appena saliva in sella era conscio del suo appuntamento, gli era venuta una mezza idea di fare la statale ma oltre ai quattro o cinque chilometri in più di pedalata, c’era anche il fatto che se sua madre l’avesse beccato non sarebbe più uscito di casa fino ai trent’anni come minimo.
La faccia grigia si compiaceva nel vederlo. Sembrava piegarsi ancora di più per osservare dall'alto quella testa bionda di ragazzino. Avvertiva il sorriso soddisfatto, mentre i molti occhi rimanevano gelidi e bui, pareva assaggiare la sua presenza trovandola molto appetitosa.
Questa volta lo strano tizio era davanti all'ingresso. Luca rallentò inconsapevolmente, plagiato dalla curiosità.
Non conosceva il suo nome. Per tutti era “il tizio della casa”, vestiva una salopette di jeans a torso nudo, sicuramente regalo delle comari della parrocchia. Voltato verso la costruzione, sembrava eseguire una danza, muoveva le mani penzoloni a destra e sinistra intonando una cantilena di “gauga, giuagau, googiuagiuagao”. Ogni tanto le braccia compivano un arco completo, le bloccava spalancandole e buttando la testa all'indietro, poi ricominciava a dondolarle penzoloni destra e sinistra, battendo i piedi, mormorando la nenia a mezza voce. Batteva i piedi e tornava a muovere le braccia, pareva una di quelle danze che gl’indiani d’America fanno intorno al fuoco. Luca stava ebete a bocca aperta a fissare la strana danza.
“Devi considerarti un ragazzo fortunato.” Gli ricordava spesso suo padre. “Lo so che è difficile da capire, ma tanti non hanno le tue possibilità, sarebbe un peccato non sfruttarle.”
Ma la bizzarra idea che gli si arrampicò dentro, era che l'handy sapesse bene cosa stava facendo. L'orribile idea parlava di un rituale, qualcosa di cattivo e pericoloso. Luca sentì il viscido del sudore sui palmi delle mani, l’aria sembrò farsi più densa era faticoso respirare, doloroso e difficile.
“Piantala Luca.” La voce di suo padre lo redarguì prontamente. “E' solo un povero sfortunato e tu un ragazzino con troppa fantasia.” Suo padre era quello che gli spiegava il funzionamento delle cose, che sapeva aiutarlo a costruire i modellini e si alzava nel cuore della notte a mostrargli che nell’armadio a muro non c’era nessuno, la sua roccia nel mare in tempesta, ma davanti all’energia maligna della casa non sembrava avere molto potere.
Improvvisamente il tizio si girò a fissarlo e c’era consapevolezza in quello sguardo, non il sornione luccichio del ritardato mentale. Inchiodato dagli occhi neri sentì il respiro mancare, sembrò che l’aria già incendiata dall’estate torrida si scaldasse ulteriormente. Si buttò in avanti pedalando come un ossesso, quasi fosse stato beccato a fare qualcosa di sbagliato e rischiasse di finire in galera, o peggio, disse una voce non proprio razionale nella sua mente, o molto peggio.
La sera non riuscì a concentrarsi molto sui compiti e nemmeno sul libro che stava leggendo, continuava a pensare che era stato visto. Visto in faccia, e non c’erano molti ragazzini biondi che abitavano in frazione Catinelle, il tizio avrebbe potuto arrivare fino a lui di notte, silenzioso spietato assassino di bambini. Passò una notte agitata, sognando di scappare dal tizio in salopette, di correre con i polmoni incendiati dallo sforzo, correre disperato accorgendosi solo alla fine che la destinazione era la porta nera della casa che, come un’enorme bocca spalancata, era pronta a ingoiarlo.
La mattina dopo quasi prese la statale, non era sicuro di riuscire a passarci accanto, e poi c’era sempre il tizio, avrebbe potuto saltar fuori e farlo cadere dalla bici per poi trascinarlo dentro per finirlo con calma. Ma ancora una volta vinse la parte razionale e prese per i campi, ma prima di sbucare sulla strada che passava davanti alla casa rallentò, assicurandosi che il tizio non fosse nei paraggi. Effettivamente non c’era, Luca pedalò prudente pronto a scattare al minimo segno di pericolo, ma non vedeva nessuno, la porta era chiusa e nel cortile polveroso senza un minimo ciuffo verde, non c’era nessuno. Si chiese come doveva essere dentro, pensò a una fila di cadaveri seduti a terra, la schiena appoggiata al muro e le teste inclinate in modo impossibile, il tizio gliel’aveva ritorta fino a spezzare le vertebre. Cercò di cacciare quel pensiero da qualche parte, ma continuava a ritrovarselo davanti, i cadaveri avevano polvere negli occhi e lunghi fili di ragnatele sulle ciglia immobili. Il tizio li contava e se li guardava come esemplari di una collezione. Come tutte le volte riprese a respirare solo oltre l’ultima lancia della cancellata nera.
In piazza c’era solo Teo che pasticciava col solito giochino.
“Gli altri?”
“Non ci sono.” Rispose senza nemmeno alzare gli occhi. Luca cominciava a innervosirsi.
“Questo lo vedo.” Fortunatamente la partita finì seguita dalla musichetta idiota.
“Che palle, tutte le volte che arrivi tu sbaglio.” Si guardò attorno sbattendo gli occhi. “Non penso che oggi verrà nessuno.” Aggiunse con uno sguardo furbo. Gli piaceva fare il misterioso non appena sapeva qualcosa di più di un altro. Di far uscire Luca dopo cena la madre non aveva voluto sentirne parlare, quindi lui si perdeva tutto quello che capitava la sera e doveva essere successo qualcosa d’importante se aveva segato il gruppo tutto di un botto.
“E perché pensi che non verrà nessuno?”
“Sapessi.” Ancora quello sguardo con un mezzo sorriso di superiorità.
“Ascolta Teodorico.” Quello era il modo per piegare definitivamente Teo. Già, tutti avrebbero potuto pensare che fosse il diminutivo di Matteo, ma non era così. Il padre aveva voluto togliersi uno sfizio e gli aveva appiccicato quel ridicolo nome, Teo era una concessione che i suoi amici gli toglievano non appena dovevano piegarlo ai loro voleri. “Non ho tempo da perdere, mi racconti o no?”
“Sai.” Disse con un sorriso. “Ieri sera Fabio e Mara si sono messi assieme.”
“Assieme?” Una fitta fastidiosa gli attraversò lo stomaco.
“Sì assieme, dovevi vedere come slinguavano nel retro del bar. Li ho beccati io, ho chiamato i ragazzi, c’erano Diego, Franco e Simone. Gli abbiamo fatto una bella sorpresa, ma penso che Diego non l’abbia presa bene.”
“Già lo penso anch’io.” Luca saltò sulla bici.
“Aspetta!!” L’amico mise il gioco nel marsupio e salì in sella, provocando preoccupanti cigolii nell'intera struttura.
Arrivarono che Diego era già in strada. Lo sguardo non prometteva niente di buono, diceva che la molla era bella carica e pronta a scattare, doveva aver ficcato nella botola nera anche Mara e Fabio, doveva averci messo un bel po’. Come li vide esitò un attimo. Poi si risolse ad andare loro incontro, come non potesse fare altrimenti
“Allora?”
“Allora cosa?” Restituì l'altro ringhiando.
“Cos'è 'sta storia che non volevi venire?”
“Perché sono obbligato?” Diego tastò il taschino dove teneva le sigarette. Poi ebbe un ripensamento, se suo padre lo avesse beccato a fumare, gliene avrebbe date tante da doppiare il numero di lividi fatti in dodici anni di assidua carriera. “Prendo la bici.”
La bicicletta era abbandonata contro il muro, sembrava uno dei cadavere con il collo spezzato. Il pensiero della casa tornò prepotente, i cadaveri erano seduti a terra in bell’ordine, la schiena appoggiata al muro, le teste inclinate e la polvere sui capelli, negli occhi. Lunghi fili di ragnatele li ornavano come festoni, poteva sentire l’odore della polvere e un freddo ottuso che invadeva la pelle cercando di penetrare dentro, fino al cuore.
Una mano lo toccò, Luca ebbe uno scatto prima di ritrovarsi fra i due amici, nella soleggiata via del paese.
“Ti sei rimbambito?” Teo lo fissava preoccupato.
“No, pensavo.” Poi rivolto a Diego: “Cosa ti è successo? E’ per via di Mara?” L’altro alzò una mano.
“Basta là.” Disse Diego. Era il suo modo di avvertirti che stavi sconfinando, che stavi entrando nel suo raggio privato e lui non lo gradiva. Di solito nessuno replicava più e Diego si chiudeva nel suo mondo interiore. Quando questo non succedeva poteva scattarti addosso, investirti con tale rabbia che sembrava impossibile potesse contenerla tutta nel suo corpo. L’aveva visto Luca, picchiarsi con i ragazzi più grandi che gli avevano buttato per terra le bici. Luca e gli altri le avevano raccolte in silenzio, lo sguardo a terra, tremendamente consapevoli della loro inferiorità. Diego era andato da Merlo, il più grosso e stronzo.
“Cazzo vuoi mozzo di mer…” Era riuscito a dire prima che Diego gli sferrasse un calcio nelle palle. Avevano udito il fiato uscirgli dai polmoni in un sibilo che era diventato un rantolo, lo avevano visto accasciarsi a terra tenendosi lo stomaco. In quel momento Luca aveva provato un orgoglio spropositato, come se il calcio lo avesse tirato lui. Ma era durato poco, in tre avevano sollevato Diego scaraventandolo sul marciapiede, poi ci avevano dato dentro con i calci. Luca avrebbe potuto fare qualcosa, magari gridare, invece era rimasto a vedere, atterrito dall’angoscia, tirando la riga immaginaria che separa i coraggiosi dai vigliacchi e restando imprigionato dalla parte sbagliata. Forse era stato da lì che era cominciata la sua venerazione per Diego, o la svalutazione di se stesso.
“Non è successo niente.” La voce di Diego lo riportò alla realtà, Teo era già sulla bici sapeva bene quando era il caso di stare alla larga. “Andiamo via di qua, alla baracca, oggi non ho voglia di spostar sassi.” La baracca era stato un capanno degli attrezzi in mezzo ai campi, ora rimanevano le pareti di legno parzialmente ammuffite e la porta scardinata. Ci si poteva stare tranquilli e non veniva mai nessuno di giorno, la sera qualcuno sì, che lasciava preservativi usati per terra, tutte le volte dovevano liberarsi con un bastone dalle scomode presenze. Ci tenevano un pallone mezzo sgonfio e qualche fumetto deformato dall’umidità e due o tre riviste che Teo aveva fregato a suo padre. Non parlarono per tutta la strada, Diego fissava davanti a sé, le mascelle serrate, ogni tanto Luca gli lanciava un’occhiata, ma l’espressione dell’amico era di pietra. Teo sbuffava dietro a loro cercando di stare al passo, l’unico rumore oltre qualche lieve folata di vento. Si svaccarono nella capanna, con le spalle alla parete e nelle narici l’odore della muffa, Diego accese una sigaretta, Teo accese il Game Boy. Luca ripensò alla casa, cercò di vedersi dentro a curiosare mentre il tizio dormiva, immaginò di trovare cose oscene, bambini morti scomparsi da casa molto tempo prima, orrendamente mutilati e torturati dallo strano personaggio che si aggirava per quelle stanze, giovani donne seviziate i cui corpi si andavano decomponendo. Ecco cos’era quell’orrendo puzzo, pensò Luca certo di essere arrivato a una verità importante, morti che marcivano lentamente dentro le stanze polverose.
“Mi hai rotto il cazzo con quel coso.” Disse improvvisamente Diego alzandosi. Il coso era probabilmente il giochino di Teo.
“Ma i rompo a non far niente.” Protestò l’altro, ma spense il gioco.
“O poverino si rompe.” Diego prese il pallone mezzo sgonfio e uscì al sole. “Allora dovremmo fare qualcosa per distrarti.” Si girò verso la porta della capanna. “Attenzione! Missile in arrivo!.” E tirò una pallonata, il pallone sfiorò la testa di Luca andando a sbattere contro la parete, tutta la struttura si mosse.
“Ehi testa di minchia!” Gridò Luca alzandosi e impossessandosi della vescica di cuoio. “Il missile torna alla base!” Tirò un calcio potente centrando Diego in pieno.
“Bella Luca, è l’ora della vendetta.” Gridò Teo uscendo per prendere la palla.
“Non se ne parla trippone.” Diego palleggiò abilmente evitando l’amico più lento. “Ed ecco Chiorla in area…è solo…scarta il difensore…fa un paio di finte e tiraaaaa!” La palla avrebbe centrato Luca se non si fosse spostato abilmente.
“Nel culo Chiorla!” Gridò ridendo e recuperando la palla.
“Dai.” Piagnucolò Teo. “Voglio tirare anch’io.”
“Davvero?” Luca prese la mira e sferrò una micidiale cannonata. Teo fece in tempo a girarsi e prendersela sulla schiena.
Andarono avanti per un bel pezzo, sollevando un gran polverone. Fradici di sudore e sporchi di polvere ridevano come matti cercando di colpirsi ed elaborando cloriti insulti ogni volta che si prendevano. Luca guardava Diego ed era contento di vederlo ridere, contento che anche quella bufera fosse passata, era riuscito a ficcare anche Fabio e Mara nella botola, c’era da chiedersi quanto fosse grande e quanto tempo ci sarebbe voluto a riempirla tutta..
Verso mezzogiorno l’ombra della casa si stese su di lui, tornando ci sarebbe ripassato vicino e già lo stomaco si ritorceva di fastidio come un vecchio canovaccio umido. Erano tutti e tre stesi al sole, ansimanti e sporchi, ma Luca non riusciva a godersi il momento, la tensione era una spina nel cuore, solo i suoi amici avrebbero potuto attutirla.
“Ehi sfigati.” Disse tutto allegro. “Che ne dite di venire a mangiare da me?” Già aveva il cellulare in mano.
“No problem.” Disse Diego
“Devo chiamare a casa.” E già Teo frugava nel marsupio.
Non appena la madre rispose Luca non le diede tempo di riflettere. “Ciao mà, Diego e Teo vengono a mangiare da noi. Ci sono problemi?” Un attimo di esitazione.
“No certo, ma la prossima volta avverti prima.”
“Grazie mamma, se un angelo.” Chiuse la comunicazione. “Allora è fatta?” Teo, che stava ancora parlando al telefono annuì, sentivano la stridula voce della madre che gli raccomandava di comportarsi bene, di essere educato e ringraziare e non mangiare troppo. Non mangiare troppo? Diego e Luca si scambiarono un’occhiata.
In sella alle bici procedevano vicini, parlavano di mettere a posto la capanna, magari rinforzare le assi delle pareti e costruirci una porta.
“Prima finiamo la diga.” Puntualizzò Luca.
“Che palle sta diga.” Teo doveva aver valutato che spostare sassi, legni e terra in mezzo all’acqua fosse troppo faticoso per la sua considerevole mole.
“Va bene tripposo.” Lo prese in giro Diego. “Noi finiremo la diga e poi dovrai pagare per tuffarti.”
“E io ci vengo quando non mi vedete e mi tuffo quanto voglio.”
“E noi ci mettiamo delle pietre e tu ci vai a sbattere la testa.”
“E io vi denuncio e l’avvocato di mio padre vi toglie anche le mutande.”
“Intanto tu sarai su una sedia a rotelle.” Rispose Luca, ma era distratto, si stavano avvicinando al cancello nero, già vedeva le tegole del tetto, rossastre che sembravano sangue coagulato.
“Giusto le mutande può togliermi.” Disse Diego. “Mio padre non c’ha manco la macchina.”
Poi non dissero più niente, l’atmosfera si fece densa e la temperatura sembrò calare, lo strano odore che avvolgeva quella costruzione gli penetrò nelle narici e nella gola, propagandosi come una malattia. Tutti e tre si girarono a fissare la struttura, a guardare la sua pelle scorticata e i pertugi attraverso cui sembrava osservare il mondo. Tutti e tre ne rimasero soggiogati provando la strana sensazione di apparire piccoli esseri fragili davanti a qualcosa di molto più forte.
“Porca la troia.” Osò dire Diego dopo che si furono lasciati alle spalle l’orribile costruzione.
“Già” Sottolineò Luca, sperava di provocare quella reazione. “Dentro ci abita un handy.”
“Lo so.” Disse Diego. “Mia madre, insieme a un altro paio di tipe dell'oratorio va a portargli da mangiare di tanto in tanto.”
“Da quanto è lì?” Si incuriosì Luca.
L'altro alzò le spalle. “Dovresti saperlo tu, ci passi tutti i giorni.”
“L'ho visto 'sta estate, per andare a scuola prendo l'autobus.”
“Mio padre dice che è un abusivo.” Intervenne Teo. “Lo vuole far sbattere fuori, la casa è proprietà del comune.” Non perdeva occasione di ricordare che suo padre era un assessore, impegolato nella politica fin sopra le orecchie.
“Tua madre ha mai visto com'è dentro?” La curiosità era una spia lampeggiante dentro Luca, il formicolio l’anticipazione della paura che andava spenta.
“No. Quando vanno a portargli la roba la lasciano sul cancello. A volte la va a prendere, altre volte le ignora completamente. Ogni tanto si mette a ballare per il giardino e a mugugnare. Quando fa così non c'è verso di distrarlo.” Sua madre ne parlava quasi con orgoglio, per lei era una fortuna che esistessero persone così, davano un senso al suo affaccendarsi intorno alla parrocchia, al suo cercare di stare lontana dal lungo braccio violento di suo marito.
“Già l’ho visto fare così una volta.” Poi finalmente arrivarono a casa di Luca. La madre aveva apparecchiato fuori, mettendo un paio di ombrelloni per proteggere i piccoli pargoli dal violento sole estivo.
“Ciao ragazzi, dovrete aspettare un attimo che le patate non sono ancora pronte.” Non sfuggì a Luca uno sguardo severo che gli diceva di avvertire prima la prossima volta che invitava qualcuno. Era un po’ fissata sua madre, sul presentare sempre una casa decorosa, come diceva lei, che in realtà voleva dire pavimenti puliti a specchio, nessun granello di polvere e specchi privi di qualsivoglia alone. Ci si metteva d’impegno ogni giorno e a maggior ragione se c’erano ospiti, forse non era solo colpa del caldo estivo se aveva apparecchiato fuori. Ma ai suoi amici non poteva importare di meno quanta polvere avesse sui mobili, Diego aveva già preso a giocare con Fedro il suo bellissimo pastore, il cane aveva un’adorazione per Diego e già questo bastava a Luca per essere sicuro di potersi fidare dell’amico. La prima cosa che Teo fece fu di andarsi a lavare le mani, chiedendo permesso a ogni stanza che attraversava, scusandosi e ringraziando ogni cinque minuti, era proprio un ragazzino educato e sicuramente quella sera sua madre glielo avrebbe sottolineato ricordando con precisione che Diego si era limitato a un breve saluto per poi rotolarsi nella polvere con Fedro. Il suo amico aveva una diffidenza naturale per gli adulti e non ci voleva una grande intelligenza per capire come mai, stava meglio con coetanei e animali e a Luca andava bene così.
Il pranzo fu ottimo, patate al forno e cotolette impanate, Teo si rimpinzava la bocca chiacchierando del più e del meno con i suoi, si vedeva che era abituato a stare con gli adulti, Diego mangiava per lo più in silenzio, evitava di guardare suo padre, anche solo di muoversi un po’ troppo scompostamente.
Giocarono gran parte del pomeriggio dietro la casa dove suo padre gli aveva sistemato un canestro, Teo ci aveva provato a dirgli di attaccare la play, ma Luca non ci pensava nemmeno di stare in casa con tutto quel sole e aria da prendere. Alla fine ci volle una bella innaffiata con la canna dell’acqua per farli tornare presentabili e dargli un minimo di refrigerio.
“Perché non costruite una piscina?” Teo aveva le idee in grande. “Lo spazio c’è.”
“Non ci ho mai pensato.” Rispose Luca guardandosi in giro con aria critica, come se stesse davvero valutando la cosa.
“Ci starebbe una bella piscina con tanto di trampolino…”
“E magari potrei far pagare per venirci.” Concluse Luca.
“Certo! Almeno fino a ripagarti le spese.” Gira e rigira l’amico era sempre lo stesso, Diego gli scoccò un’occhiata mentre strizzava la maglietta e la metteva ad asciugarsi appesa alla canna della bicicletta.
“Tu farai tanti soldi.” Pronosticò Luca.
“Certo.”
“I soldi non fanno la felicità.” Saltò su Diego, con un moralismo che stupì per primo se stesso.
“Figurati la povertà.” Rispose Teo con un tempismo sorprendente.
“La felicità è una condizione interiore.” S’intromise Luca, una frase rubata al ricco repertorio di suo padre. “Diciamo un modo di essere, molta gente piena di soldi non è assolutamente felice.”
“Sarà, ma preferisco provarlo dalla parte del pieno di soldi.” E’ già partiva avvantaggiato su quella strada, lo dicevano i vestiti che portava, la bicicletta che aveva e i quattro telefonini che aveva cambiato. I genitori di Luca sostenevano che di questo passo uno poi non sa apprezzare più niente e ogni volta che Luca sentiva la maligna vocetta dell’invidia si ripeteva quelle stesse parole, a mo’ di scongiuro contro i cattivi pensieri.
I tre si salutarono quasi all’ora di cena, Luca li avrebbe voluti lì ancora, ma la corda l’aveva già tirata troppo e la comprensiva mamma avrebbe finito la pazienza.
“Mi raccomando attenti quando passate vicino alla casa.” Il silenzio e il buon umore si spensero improvvisi. “Se il tizio vi acchiappa non c’è più scampo.”
“Grazie tante.” Rispose Teo, Diego si limitò al solito dito medio.
“Ci vediamo domani. Sempre che non vi facciate acchiappare.” Luca rigirava il coltello nella piaga, ma non poteva farci niente, il pensiero del tizio, della strana costruzione e delle orribili sensazioni che provava a passarci vicino, erano entrate troppo profondamente in lui. Si addormentava pensando a lei, si svegliava ricordando che avrebbe dovuto passarci vicino, giocava, scherzava, leggeva o guardava la televisione e sempre un angolo del suo cervello era vigile e consapevole della presenza di quella cosa al mondo, come se fosse un’aberrazione, un errore della natura.
Prima di andare a letto non scampò al predicozzo della mamma, che gli ricordò di avvisare prima se voleva invitare gli amici, che poi lei doveva pulire tutto di corsa e ribaltare i piani per la giornata.
“Ma a loro non importa certo di come è la casa.” Cercò di rispondere lui.
“Importa a me.” Rispose stizzita lei col tono gelido che ammetteva poche repliche. “E’ come per te a scuola, se vai bene o male ciò influisce sul giudizio che gli altri hanno di te. La nostra casa è il riflesso di tua madre, dell’impegno e del lavoro che ci metto e della fatica che faccio. Capisci?”
Per la verità non capiva, ma disse di sì come in ogni discussione che sarebbe stata comunque vinta dall’adulto, meglio cedere subito e risparmiarsi ulteriori predicozzi.
Col buio venne a trovarlo una certa apprensione, una sensazione di paura che strisciò fra le crepe del suo spirito. Immaginò i suoi amici imprigionati nelle stanze sporche della casa. Il tizio li aveva visti tornare verso il paese, era uscito cogliendo l’occasione di offrire un sacrificio al demone che abitava la casa, a colui che omaggiava con i suoi balli e mugugni, quello che probabilmente nella sua mente distorta era un dio. La porta si era spalancata, il tizio in salopette era corso fuori a piedi nudi correndo su per il vialetto, oltre il cancello nero sgangherato. Si era buttato in strada, Diego era riuscito a sfuggirli, ma l’amico più lento e grasso non ce l’aveva fatta, con una poderosa spinta il tizio l’aveva fatto cadere, Teo si era messo a piangere, chiudendosi su se stesso per la paura. Luca poteva vedere tutto come fosse un film. Diego che si gira e vede l’amico a terra, ferma la bici e torna indietro, mentre il tizio ha già afferrato il ragazzino grasso per le ascelle e lo sta tirando dentro senza troppa difficoltà. Poi vede Diego, non è difficile per il grosso uomo afferrare il gracile ragazzino, sollevarlo e scagliarlo contro la cancellata nera. Diego sbatte violentemente la testa, resta inerme nella polvere, il tizio li afferra tutti e due, Teo per i capelli e Diego per un braccio. Luca assiste impotente alla scena, come si svolgesse davvero davanti ai suoi occhi, vede il tizio che si guarda brevemente intorno prima di chiudere la porta. Ora c’è il panico che formicola dentro Luca, se fosse davvero successo? Se li avesse rapiti, chiusi dentro le stanze sporche e buie di quell’enorme organismo che è la casa? Sarebbe colpa sua, colpa del suo egoismo che li ha fatti passare da lì.
“Se fossero scomparsi.” Intervenne la razionale voce di suo padre. “I genitori avrebbero telefonato. Qualcuno si sarebbe fatto vivo e noi lo avremmo saputo.” Ovviamente aveva ragione, persino il violento padre di Diego avrebbe chiamato per sapere dove fosse finito quel deficiente di suo figlio. Ma la paura rimase, lo accompagnò fino al sonno tenendolo per mano in un mondo d’incubo dove i suoi due amici erano zombie, assistenti del tizio che venivano a prenderlo per portarlo dietro la porta nera e Teo gli diceva: “Grazie amico. Ti ringraziamo per quello che ci hai fatto.” Diego invece non parlava, bastavano gli occhi che lo fissavano con sguardo terribile, lo sguardo d’odio che riservava solo a suo padre.
Il giorno dopo Luca si svegliò con un certo disagio addosso, la sensazione che non tutto fosse a posto, che fosse accaduto qualcosa di terribile che lui non aveva potuto evitare. Fece colazione velocemente e si lavò ancora più velocemente, saltò sulla bici evitando per un pelo Fedro che gli saltellava intorno.
La faccia della casa sembrava priva di espressione. Il Sole eliminava ogni zona d'ombra, inondava coi suoi raggi ogni crepa e persiana storta dalla vernice scrostata. Luca si concesse un sorriso canzonatorio, forse non era poi così terribile. I suoi pensieri presero il tono di suo padre: “Una semplice vecchia casa, qualche finestra sgangherata, la vernice scrostata, molta polvere. Ci vuole poco a creare un’atmosfera lugubre e a impressionare la fantasia di un ragazzino.” Improvvisamente gli si gelarono i pensieri, in fondo alla cancellata nera e rugginosa c'era l'handy. Sempre la stessa salopette, questa volta indossava una maglietta rossa, aveva i piedi nudi coperti di polvere. Stava sul ciglio della strada e guardava Luca. Il sorriso del ragazzo si spense immediatamente, la voce di suo padre tremolò e sparì in qualche anfratto buio della sua anima. Venne la paura, le gambe si fecero molli e stentavano a coordinarsi nel giro della pedalata, i palmi delle mani sudavano e stringevano il manubrio come fosse un salvagente. L’handy aveva le braccia lungo i fianchi in una postura un po' gobba, seguiva fisso il suo pedalare senza tradire espressione alcuna. Luca cominciò ad agitarsi, già vedeva l'altro che si buttava in mezzo alla strada, che gli correva dietro, lo faceva cadere e...lo tirava dentro. Ai lati della strada c’erano i campi, le alte spighe quasi mature non gli permettevano di deviare da nessuna parte, strinse le mani sulle manopole, il cuore picchiava in gola, gli sembrava di avere la testa in un forno dal gran caldo che sentiva.
Improvvisamente fu a non più di quattro metri. L'altro mosse una mano. Luca strinse le manopole fissando alla sua sinistra, inchiodato da una paura irragionevole e spietata, il cuore picchiava contro lo sterno pazzo di paura. La mano grossa e corta si alzò, rivelando il sudore sotto l'ascella che scuriva la maglietta rossa, i piedi grigiastri di polvere erano larghi e ben piantati a terra, la mano forte pronta ad afferrare e stringere, non ci sarebbe stato scampo per lui. Il ragazzo sulla bicicletta era a un metro, terrorizzato si vedeva già alla fine, stringeva il manubrio senza avvertire le proteste dolorose delle articolazioni.
La mano continuò ad alzarsi in un movimento rallentato dalla paura di Luca che aveva teso i secondi fino a farli gocciolare lentamente come da un tubo troppo stretto. La mano si alzò fino al cenno di saluto, avanti e indietro, insieme a un sorriso un po' ebete da cui il sole lasciava intravedere qualche filo di saliva. Poi il tempo tornò a scorrere normalmente, la paura liberò le gambe di Luca che ripresero a pedalare agilmente, l’aria tornò a defluire per i polmoni, dentro e fuori, ancora dentro e di nuovo fuori. Volò fino alla piazza del comune, grato al mondo e a colui che stava più in alto di tutti, perché i suoi due amici erano seduti al loro posto, c’erano anche Fabio, Mara e Francesco che si faceva vedere in giro i rari giorno che sua madre non lo metteva al banco del minimarket.
“Ciao a tutti!” Gridò ancora dalla strada, la pioggerella di voci acute lo salutò, in contrasto con l’ultimo ‘ciao’ che aveva un timbro molto più adulto, Diego era sistemato di sbieco e fumava tranquillamente. Doveva esserci un motivo grave se fumava in pieno paese, aveva i lineamenti tesi, fissava davanti a sé, ma qualcosa gli rodeva dentro. Luca non fece commenti e raggiunse il cerchio degli altri.
“Niente diga oggi!” Lo precedette Teo. “Non ne voglio sentire parlare.”
“Non ho ancora detto niente.” Replicò Luca già leggermente infastidito.
“Diga?” Chiese Francesco.
“Se ci vai io ti aiuto.” Interruppe Diego accompagnando le parole con uno sbuffo di fumo.
“Ma avevi detto…” Cercò di protestare Teo
“Io non avevo detto un cazzo, tu hai parlato!” Gli buttò in faccia l’altro. “In ogni caso se anche fosse ho cambiato idea, hai problemi?!”
“Quale diga?” Chiese nuovamente Francesco.
“Bene io ho voglia di finirla.” Prese la palla al balzo Luca. “Chi mi ama mi segua.”
“Sto sfacchinando peggio che a scuola.” Borbottò l’amico.
“Piantala lardone, che ti fa bene alla linea.” Disse Fabio e in quel momento Luca notò che teneva la mano a Mara, ancora la fitta di gelosia che già lo aveva colto il giorno prima si fece risentire. Notò lo sguardo di Diego su quelle mani giunte mentre strattonava la bicicletta, senza aspettare nessuno si dileguò fra le viuzze.
“Ma cazzo c’ha?” Chiese Teo.
“Vallo a capire.” Rispose Fabio, ma nei suoi occhi brillava qualcosa, forse una piccola vampa di gioia, una luce di malizia che fece capire a Luca molte cose.
“Io non posso.” Disse Francesco con quella sua vocina da passerotto. “Devo tornare in negozio.”
“Beato te che i tuoi c’hanno un’attività solida.” Lo canzonò Fabio, era proprio di buon umore caricato a mille, Luca ebbe un intenso attacco di disprezzo. Dal paese al fiume ci voleva un buon quarto d’ora in bici, Luca ne impiegò nove scarsi distanziando gli altri e ignorando le proteste di Teo. Trovò Diego che già scaricava sassi in acqua, a torso nudo e con i pantaloni inzuppati fino a metà coscia.
“Socio! Cazzo combini?”
“Tiro su la diga.” Rispose l’altro senza voltarsi o fermarsi.”
“Intendo dire cazzo combini in ‘sti ultimi giorni che sei peggio di una serpe a cui hanno amputato la coda.”
Si girò a mezzo Diego, facendo brillare l’orecchino al sole di luglio, gli occhi erano strette fessure di rancore. Lo fissò senza dire niente, una vena pulsava sulla fronte, poteva esplodere, Luca lo sapeva bene, ma tenne lo sguardo, aveva fiducia nella loro amicizia, essere cresciuti insieme doveva dargli un po’ di credito.
“Lo sai cosa c’ho.” Mormorò Diego, facendo due passi verso la riva.
“Mara è diventata proprio una bellezza.” Disse Luca, l’amico non rispose e andò a sedersi su di un sasso. “Ti piace?”
“Lo sai.”
“E’ così importante?” Ci fu un lungo silenzio, Diego giocava con l’orologio, inchiodando lo sguardo in basso.
“Forse è una cazzata. L’estate scorsa eravamo soli nella capanna, ci siamo baciati, poi abbiamo preso a vederci spesso. Prima di passare in piazza c’incontravamo soli, per lo più dietro la chiesa. Lei non voleva che qualcuno sapesse.” Gli mancarono per un attimo le parole, si accese una sigaretta e aveva gli occhi rossi, Luca li vide chiaramente prima che l’altro tornasse a fissare per terra. “E’ stato il periodo più bello della mia vita, non che ci voglia molto a superare la media, ma la sera quando andavo a letto era tutta un’altra cosa...insomma…un po’ di luce in mezzo alla merda.” S’interruppe sentendo che stavano arrivando, saltò di nuovo nel fiume e prese a buttar sassi e terra, girando la schiena all’amico. Luca si tolse scarpe e maglietta e andò ad aiutarlo, era un ragazzo intelligente, sapeva quando non bisognava parlare.
“Ma che lavoratori volenterosi!” Gridò Fabio che ancora non era sceso dalla bici, aveva i lunghi capelli sciolti, arrivavano appena oltre le spalle incorniciando il viso abbronzato. Si diede da fare anche lui, Mara stese l’asciugamano su di un sasso e si limitò a osservarli mentre prendeva il sole in costume. Teo arrivò sudato e sbuffante, nessuno parlava se non Luca di tanto in tanto per dirigere i lavori. L’acqua stava salendo imprigionata dalla loro costruzione, arrivava fino al collo nei punti più alti, camminavano sulla diga controllando allo stesso tempo se fosse ben stabile. Quando fu mezzogiorno tornarono a casa.
“Raga oggi pomeriggio il collaudo.” Disse Luca. “Direi proprio che ci siamo.”
“Chi sarà il primo?” Chiese Teo e dal tono si capiva che non voleva essere lui a rischiare di finire con la testa contro un sasso.
“Lo farò io.” Concluse Luca.
“Ehi ehi! Prima le donne!” Saltò su Mara. “Ma che razza di cavalieri siete.”
“Ah! Noi facciamo il lavoro e tu ti diverti?”
“Certo.” Si avvicinò a Luca e gli fece una carezza, qualcosa dentro di lui vacillò, non pensava potessero esistere mani così morbide. “Oseresti rifiutarmi questo onore?”
“Non mi permetterei mai di offendere una sì splendida creatura.” Disse Luca dissimulando l’imbarazzo in un inchino.
“Bene ci vediamo direttamente qui?”
“Va bene lardone!” Gli rispose Diego. “Proprio qui.” E partì con la sua bici senza salutare nessuno. Luca ci rimase male, chiedendosi se forse avesse esagerato con Mara, ma cosa doveva fare, non parlarle più? Se fosse stato necessario a mantenere l’amicizia l’avrebbe fatto senza pensarci un attimo. Ma in quel momento aveva altri problemi, ritorno uguale passare davanti alla casa, lo stomaco gli si chiudeva, le gambe diventavano molli, i palmi sudavano, era peggio di un esame, la mente costruiva fantasie immonde che si snodavano fra le pareti di quella maledetta costruzione, dentro gli organi di quello che sembrava un essere vivente senziente. Digeriva le persone, arrivò a pensare Luca, il tizio le catturava per portarle nel ventre del suo padrone. Pedalò fissando davanti a sé, avvertendo la presenza della cancellata nera alla sua destra, sentendo l’alito della bestia che soffiava su di lui come a sporcare la sua giovane vita. Riuscì a non girarsi fin quasi alla fine, ma poi l’impulso la ebbe vinta e sbirciò una delle finestre. Lui era lì. Il tizio lo osservava immobile, le braccia lungo i fianchi e l’espressione ebete degli occhi obliqui. Luca sobbalzò, le braccia ebbero uno scarto e finì lungo e disteso dopo un volo di un paio di metri, ancora avvinto alla bicicletta fissava il tetto della mostruosa creatura, il tizio non si era mosso di un millimetro. Il panico lo fece rialzare, sordo ai bruciori vari delle gambe, saltò in sella e riprese la strada.
“Ma cos’hai combinato?” Un incidente era per sua madre l’ottima scusa per esternare il suo istinto materno e di protezione e di affetto e di preoccupazione. “Forza vieni a lavarti, che poi ti disinfetto, ma Giuseppe e Maria, guarda come ti sei conciato le gambe.” Dire che non era niente non sarebbe servito, era partita e niente e nessuno l’avrebbe fermata. Suo padre mise la testa in bagno.
“Un bel capitombolo.” Osservò.
“Mica tanto, sono solo graffi.”
“Come hai fatto?”
“Stavo passando vicino alla casa abbandonato, mi sono girato a guardare, devo aver preso un sasso.” Poi aggiunse velocemente. “E’ impressionante quella cosa.”
Suo padre alzò le spalle. “E’ impressionante perché non la conosci. Dentro sarà come tutte le vecchie case del mondo, polvere, muffa e insetti. Ora fatti disinfettare che è sempre meglio.” Gli fece una strizzatina d’occhio e fece posto alla moglie che arrivava con tanto di valigetta del pronto soccorso.
“Non so se oggi è il caso che tu esca.”
“Ma mamma!” Protestò Luca che si era aspettato una proposta del genere.
“Ma niente! Guarda come sei conciato.”
“Sono solo un po’ graffiato.”
“Se poi ti metti a giocare in mezzo alla polvere, voi che scorrazzate per i campi, lo sai che sono pieni di pesticidi? E anche il fiume è uno schifo, con tutta la roba che ci scaricano dentro.”
“Prometto che non mi sporcherò o bagnerò al fiume.” E già il collaudo della diga se ne andava a quel paese.
“Guarda che hai promesso.” Gli disse lei con una voce tremante. “In ogni caso starei più tranquilla se…”
“Mamma!!”
Il pomeriggio dovette letteralmente fuggire dalle premure della donna, aveva le gambe fasciate in modo ridicolo per quei due graffietti che si era fatto. Ci passò veloce davanti, non si girò questa volta, ma sentì distintamente la cantilena dall’handy, quel mugugno sinistro che sembrava quasi una preghiera.
Arrivò al fiume circospetto, si vergognava delle fasciature, se le sarebbe tolte volentieri, ma se sua madre se ne fosse accorta sarebbe stata la fine. C’era Diego fermo in fondo al sentiero, osservava qualcosa stando a cavalcioni della bici. Quando Luca gli fu vicino vide che si trattava di Fabio e Mara che già scorrazzavano nella pozza, nuotavano vicini e parlavano piano uno nell’orecchio dell’altra, ogni tanto la risata cristallina di lei si levava dagli alberi.
“Che stronzi, potevano aspettarci.” Disse Luca giusto per rompere il silenzio.
“Chi se ne frega.” Disse l’altro e poi, guardando le sue gambe. “Cazzo hai combinato?”
“Volato dalla bici.”
“Bella mossa.”
“Passavo davanti alla casa.” S’affrettò ad aggiungere. “Sta diventando un’ossessione.” Vide che l’altro lo fissava. “…Ecco…Me la sogno di notte…ci penso continuamente…”
“Capisco, perché non ci andiamo insieme?” A Luca il cuore fece un balzo, gli tornarono alla mente le parole di suo padre: ‘E’ impressionante perché non la conosci. Dentro sarà come tutte le vecchie case del mondo, polvere, muffa e insetti.’
Poteva farlo, poteva davvero farlo col suo amico vicino. Annuì che a parlare non ce la faceva, l’altro si limitò a girare la bicicletta. Dal fondo della strada arrivava Teo incorniciato da un panorama di grano maturo.
“Non si fa più il bagno?” Chiese vedendo che andavano in direzione opposta al fiume.
“No cambio programma, andiamo alla casa abbandonata.” L’altro esitò, Luca ci diede dentro aggiungendo. “Se hai paura puoi anche stare qui.” Se ci metteva di mezzo la paura non avrebbe osato tirarsi indietro e tre era meglio di due.
“Non ho paura.” Assicurò l'altro. “Ma sarà tutto sporco, pieno d'animali e poi può crollare da un momento all'altro. Non avete visto com'è tutta piegata in avanti?” Immediatamente aggiunse: ”E poi c’è quel tizio…”
“E’ un abusivo, lo hai detto anche tu. Se ci rompe i coglioni tuo padre lo fa sbattere in galera.” Sentire parlare di suo padre fece ringalluzzire Teo, che pedalò dietro di loro.
Il sogghigno della casa bloccò ogni pensiero.
Il male cavalcava l'aria, lo percepivano in fondo al cuore, nella zona più sensibile dell'anima che cercava di farsi piccola e nascondersi.
“Porca vacca.” Esordì Teo.
“Sembra un grosso animale addormentato.” Disse Diego. La rabbia che gli aveva deformato i lineamenti se n’era andata, ora era soltanto un dodicenne impaurito davanti a qualcosa più grande e forte di lui.
“Non volete più venire?” Insinuò subito Luca.
“Figurati.” Teo invece non rispose. Lo strano inquilino non si vedeva. Il cancello aperto pendeva sbilenco appeso all'unico cardine, la parte inferiore sprofondata nella polvere.
Scesero dalle biciclette. Rimasero sulla soglia del cancello a guardare dentro, temendo che quell'enorme animale addormentato si svegliasse gridando.
“Forza.” Disse Diego, camuffando un tono vivace. “Non possiamo mica stare qui tutto il giorno.”
Passarono il cancello, nuotando in un silenzio denso. Era difficile camminare e respirare sul quella terra grigia che sembrava cenere.
Arrivarono alla porta sgangherata camminando piano, sembrava una bocca. La bocca storta e sofferente di una persona malata. Il sogno di Luca tornò vivo e terrorizzante, lui che correva inseguito dal tizio verso la porta nera.
I gradini in legno scricchiolarono infastiditi al loro passaggio. L'aria si fece gelida e fetida, spirava dalla casa come un soffio di disapprovazione. Non vuole che entriamo, pensò Luca.
Improvvisamente l'idea di esplorare la casa abbandonata non gli sembrò tanto geniale. Ma era tardi, già l'ombra del portico gli aveva tolto la protezione del Sole, sembrava di entrare in un altro mondo.
Diego si voltò un attimo, una piccola esitazione prima di tirare la porta, il desiderio di sole, di vita e aria pura lo chiamava insistentemente.
“Forza.” Incitò Diego. “Non vorrai mica tirarti indietro?”
La maniglia era gelida, un gelo impossibile in quel luglio infuocato. Un cigolio terribile come un lamento di qualcosa di vivo emerse dagli stessi muri, li investì ghiacciandogli il sangue.
Poi tutto si fece silenzio.
Entrarono insieme stringendosi per passare, dentro faceva un freddo, come se qualcuno avesse lasciato l’aria condizionata al massimo, ma l’intelligente testa di Luca gli disse che con tutti quei vetri sfondati era piuttosto improbabile che l’aria fresca riuscisse a starsene dentro.
La penombra gravava su di loro come una malattia pronta a colpire. L'aria era cattiva, sapeva di chiuso e di vecchio, anche di marcio, forse carne in decomposizione. Ci misero un attimo ad abituare gli occhi, inquadrare scale polverose che salivano, scale polverose che scendevano. Un pavimento malandato, pieno di buchi e crepe, sporco di terra, grasso e qualcosa di raggrumato e nero. In alto le finestre rotte mostravano un cielo che sembrava lontanissimo, c’era un lampadario talmente pieno si polvere da sembrare il bozzolo di un gigantesco insetto. Luca ripensò ai cadaveri ed ebbe un brivido, l’occhio della fantasia di bambino gli mostrò l’handy che avvolgeva pazientemente le sue vittime in giri di polvere sempre più ampi, ne formava giganteschi bozzoli e loro girando per le stanze ne avrebbero trovati a centinaia.
“Dove si va?” Sussurrò Teo, i due amici sobbalzarono leggermente, erano stati soggiogati dal magnetismo della casa, avviluppati e irretiti dall’ondata di pensieri negativi che essa ispirava. Diego aveva visto che il tizio rapiva i bambini e li picchiava, li chiudeva nelle stanze e quando era arrabbiato ne sceglieva una a caso, gridava e tirava schiaffi e pugni e graffi, non dimentichiamoci i graffi, fatti con unghie dalle punte dure come diamanti, ferite che bruciava come strisciate di fuoco liquido.
Anche Teo aveva avuto la visione di bambini, ma il tizio della casa faceva altre cose, quelle cose che una volta aveva udito origliando dalla porta della sala una conversazione di sua madre con un’amica, mentre stavano bevendo il caffè dopo cena. Naturalmente lui sapeva bene cosa fossero i pedofili, ma le due erano entrate in particolari e descrizioni che l’avevano lasciato sveglio il resto della notte.
“Allora?” Insistette scuotendo definitivamente gli altri due.
“Diamo un'occhiata in giro.” Propose Diego. “Non vorrete starvene qui come tre stronzi?”
Un movimento li colse impreparati. Fermo, in cima alle scale, stava il tizio. I capelli spettinati lo facevano sembrare uno strano demone.
“Ragazzi.” Bisbigliò Teo. “Cosa si fa?”
“Cosa vuoi fare.” Rispose Diego, la voce leggermente frenata dall'incertezza. “Siamo venuti a vedere la casa e non ho intenzione di farmi spaventare da un mongoloide.” Fecero un passo avanti e lui scese un gradino. Le ombre gli disegnavano un'espressione indecifrabile. Li fissava immobile dall'alto.
“Ciao.” Disse Luca esitante. “Vorremmo dare un'occhiata.”
Non venne risposta, fecero un altro passo avanti e lui cominciò a scendere le scale. I suoi passi risultavano mollicci. Luca aveva la gola secca, fissava l'uomo massiccio e muscoloso avvicinarsi.
“Ragazzi andiamo via.”
“Cazzo dici?” Diego andò sotto la scala. “Ehi! Non è mica casa tua. Vogliamo solo fare un giretto.” L'altro era agli ultimi gradini, fece quattro passi e fu davanti a Diego, molto più alto e imponente. Luca si domandò cosa avrebbe fatto in caso di colluttazione, avrebbe lasciato il suo amico prendersi le botte come l’altra volta?
Un rumore li colse alla sprovvista, tutti e quattro fecero un balzo. Proveniva dal buio di quella che avrebbe potuto essere la cantina.
“Cosa è stato?” Disse Diego. Il rumore si ripeté; uno strusciare, come se qualcuno stesse spostando una pesante cassa o un sacco.
“C'è qualcuno là sotto!!” Gridò Luca, ora aveva la certezza che le cose che si raccontavano su quel tizio fossero vere, assaggiò in quel momento la vera paura, il terrore che ti lascia un sapore metallico in bocca e ti fa rilasciare il sedere.
“Mia madre dice che rapisce i bambini!!” Strillò Teo. “E gli fa delle cose orribili.” Questa volta dal basso venne un leggero tonfo. Diego si spostò, ma l'uomo gli sbarrò la strada, mettendosi proprio sul primo gradino della rampa che portava giù. L’espressione era tutt’altro che mite, gli occhi stretti e aggrottati non facevano presagire niente di buono, l’espressione di mite stupidità che solitamente gli disegnava il volto era stata completamente stravolta.
“Che cazzo vuoi?” Luca pregò tutti i santi che conosceva di proteggere il suo amico. “Lasciami passare!” L'altro mosse la testa a destra e a sinistra, poi ancora a destra e un'ultima volta a sinistra. No.
“Allora mi capisci mongoloide!” Nessun movimento. Altri scricchiolii e rumori struscianti provennero dal fondo. “Chi c'è?!!” Gridò Diego. L'uomo lanciava occhiate furtive alle sue spalle. “Nascondi qualcuno?!!”
Luca avvertiva la situazione scivolargli dalle dita.
Teo tremava e balbettava parole incomprensibili, forse stava pregando.
Improvvisamente Diego tentò di scartare sotto le braccia dell'uomo, ma quello fu più veloce, gli artigliò una spalla sollevandolo da terra.
“Mettimi giù mongoloide bastardo!!!” Agitava le gambe in aria. “Ragazzi! Cazzo, fate qualcosa!” Ma Luca era paralizzato dalla paura, si vedeva già chiuso in cantina, con chiunque ci fosse sotto, era nuovamente al di qua della linea di demarcazione, ghettizzato fra i vigliacchi, quelli che non muovevano un dito per gli amici. C’era una voce che cercava d’incitarlo, gli diceva di andare che Diego aveva bisogno di lui, ma il corpo non rispondeva, le gambe stavano rigide e ferme, mentre il cuore sobbalzava completamente preso dal panico.
Diego finì con il culo per terra, sbattuto nella polvere. Dal basso piccoli tonfi continuavano ad arrivare, come insistenti richieste di aiuto.
“Ragazzi andiamo via!” Gemette Teo. “Non mi frega di chi c'è lì, chiamiamo la polizia!”
Tutto si fermò un istante, con Luca e Teo tremanti davanti alla porta. Diego seduto nella polvere che si guardava in giro, cercando di capire cosa fosse successo. Il tizio li fissava severo. Poi i rumori dal buio si fecero insistenti, strusciare, battere, scricchiolare, sembrava che il prigioniero avesse deciso di tentare il tutto per tutto in un’evasione. L’uomo con la salopette si voltò verso le scale. Prese a mugugnare la solita litania incomprensibile, muovendo i piedi. Dapprima lentamente, poi sempre più veloce. Infine anche le braccia si aggregarono alla danza, dondolando a destra e a sinistra, per poi spalancarsi improvvisamente e poi ricominciare.
“Mi ha messo le mani addosso.” Diego era incredulo. “Sto pezzo di merda mi ha messo le mani addosso!” Si voltò verso i due alla porta. Luca si sentì in dovere di dire qualcosa.
“Andiamo via, lo denunciamo, ma adesso andiamocene.” Le grida si erano fatte intense, cantava e ballava dondolando come ubriaco. La faccia di Diego era una maschera di collera, si alzò fissando Luca, ma probabilmente non lo vedeva, afferrò una sedia sgangherata a cui mancava una gamba e la caricò dietro la spalla destra. Il rumore fu terribile, la sedia andò in pezzi fracassandosi sulla nuca del tizio che non aveva smesso un secondo con la sua strana danza. L’uomo in salopette cadde sul pavimento sporco, finendo a braccia larghe quasi ai piedi di Luca.
“Ecco brutto pezzo di merda!!” Gridò Diego scaricando due calci sul corpo inerme. “Così impari a mettermi le mani addosso.” Luca era congelato dalla paura, vagamente si rese conto che Teo non era più al suo fianco.
“Diego, andiamo via.” Riuscì a mormorare, ma la sua voce si perse nei rumori che provenivano dal basso. Sembrava che il prigioniero avesse deciso di scardinare la porta, lo scricchiolio del legno si era alzato d’intensità. Diego prese a scendere le scale, Luca fece un passo avanti, aggirò il corpo del tizio e vide l’amico che manovrava col chiavistello della porta. I cardini cigolarono in sinistre tonalità, sembravano voci di esseri alieni, pieni di odio e disprezzo per tutto ciò che è vivo e caldo. L’urlo che salì dalla gola di Diego perforò l’aria tra loro, avvolse Luca di orrore e proseguì la sua fuga all’esterno di quella dimora da incubo. Dalla porta uscì una nebbia nera, densa e oleosa come petrolio, ma dentro c’era qualcosa, molte cose e ognuna di esse aveva denti, artigli e una voce che feriva le orecchie. Luca notò il bagliore dell’orecchino del suo amico, prima che la testa si staccasse dal collo e cadesse con un rumore molliccio, gli occhi sbatterono un paio di volte e Luca, da quel momento, ebbe ben altri incubi che quelli fatti fin da quando era ragazzino. Poi qualcosa di lucido e appuntito uscì dalla nebbia, infilzò la testa da un occhio e la trascinò nel buio.
“Non stare lì impalato…Muoviti…Luca non stare li impalato!!!” La voce di suo padre lo sgridava, inizialmente era troppo l’orrore per poterle dare ascolto, meglio aspettare e morire, farla facile per la nebbia nera e per se stesso, ma poi l’autorità a cui era abituato a rispondere ebbe la meglio, si scrollò di dosso la paralisi e fece un paio di passi indietro. Inciampò e cadde facendosi un male tremendo ai gomiti. Era inciampato sulle gambe del tizio della casa, lo guardò stranito, poi fissò le prime bave di buio che si arrampicavano in cima alle scale, ingoiavano la luce, sembravano nutrirsene come del poco calore lì dentro che aveva ingoiato, dalla bocca del ragazzo si liberavano nuvolette di condensa come nel più gelido degli inverni. Luca scattò in piedi, afferrò la stinta salopette e prese a scrollarla con tutte le forze.
“Svegliati!! Svegliati cazzo!! Forza, svegliati!!” L’uomo aprì i suoi occhi obliqui, fissò Luca che nel frattempo non si era accorto di niente e continuava a scrollarlo, poi vide cosa stava salendo le scale e si divincolò dalla presa del ragazzo. Si piantò a gambe larghe davanti alla nebbia nera mormorando la nenia e muovendo i passi di danza, poi le braccia in ampi giri e dondolii. Luca osservava seduto sul pavimento, vide il nero arrestarsi, fare due o tre tentativi di accerchiamento, ma i movimenti del tizio lo redarguivano prontamente. Poi prese a retrocedere, l’uomo avanzava di un passo e la cosa indietreggiava. Gradino dopo gradino non smise un istante di cantare e la cosa aliena tornò nella cantina. L’uomo continuò la danza per un bel po’, alla fine chiuse la porta e risalì i gradini, si fermo a fissare Luca. Uno sguardo poco benevolo, lentamente alzò una mano e puntò l’indice verso la porta, fu come se avesse dato il via a una gara, Luca schizzò in piedi e corse verso il caldo del giorno. Saltò sulla bicicletta e poi si bloccò, guardando quella di Diego che se ne stava sola nella polvere. Allora cominciò a piangere.
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Umberto Maggesi
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