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Maracaibo
“...balla al Barracuda sì ma balla nuda zà zà, sì ma le machine pistol..” Un pacchetto di rosse da dieci mi dura circa una settimana, ma per questo viaggio un pacchetto non mi bastò. Ero arrivato in Venezuela nello stato della Zulia, nella sua capitale Maracaibo, la seconda città della nazione per grandezza e vero motore economico per il commercio e il turismo. Ero seduto al tavolino di una palafitta vicino al porto dove preparavano le aragoste appena pescate e servivano il vino bianco italiano che io, Michele Fanti vendevo direttamente dalla mia azienda vinicola. Il caldo insopportabile era il mio miglior alleato quando dovevo vendere, nessuno resiste al mio Greco di Tufo freddo con quella polpa bianca che ti si scioglie in bocca. Stavo assaggiando un’aragosta che il mio amico cliente Pedro Cardoza mi aveva offerto, quando la vidi entrare. Si appoggiò al bancone e si allungò fino in punta di piedi per salutare Pedro e il vestitino bianco seguì il movimento delle sue spalle scoprendo le sue cosce mulatte quasi per intero. Ero rimasto come impalato a guardarla e lei con un colpo d’occhio si girò verso di me, notando il catturato interesse nel mio sguardo. Fu un attimo, mi vide e si voltò, si rimise a parlare con Pedro e iniziò a ridere , forse rideva di me, anche Pedro mi guardava e rideva mentre con lo strofinaccio asciugava un boccale per la birra che qualche miscredente tedesco si ostina a bere con il pesce. Bifolchi! mi viene da dire ogni volta che li vedo commettere questi sacrilegi. Mi rimisi a masticare la mia aragosta velocemente e abbassai lo sguardo con un colpetto di tosse come per scaricare l’imbarazzo. Presi un bicchiere e lo riempii di vino lo alzai per berlo come per brindare da solo e vidi la ragazza che mi stava fissando. Le feci un cenno col bicchiere e lei mi sorrise. “Pardon?” si avvicinò al tavolo e mi chiese il permesso di sedersi. “....sì ma le mitragliere era una copertura faceva traffico d’armi con Cuba...” “Pedro mi ha detto che sei italiano, stasera facciamo una festa al Barracuda, vuoi venire?” pensai che il buon vecchio fascino dell’uomo italiano forse cominciava a vedersi. “Certo!” le risposi, finendo d’ingoiare frettolosamente il mio crostaceo. “Mettiti d’accordo con lui, venite insieme”. “Andai in albergo, Pedro sarebbe passato a prendermi alle 23 e portai con me un suo regalo. Mi feci una doccia, la barba e mi pettinai i capelli con un olio di cocco per renderli più morbidi e luminosi, telefonai a mia moglie per dirle che il vino era piaciuto e che tra due giorni sarei ripartito, le parlai del caldo e dell’umidità che hanno qui anche ad ottobre. Mentre ero al telefono, mi veniva da tremare per tutti i pensieri che facevo sulla ragazza mulatta, avevo paura di tradirmi in qualche modo non essendo abituato a “fuori via” di questo tipo, avevo anche il timore che tornato in Italia non sarei stato capace di mantenere il segreto. Certo, nei miei altri viaggi di lavoro ero solito cercare compagnia la sera, ma finivo per lo più in squallidi night dove al massimo rimediavo un paio di consumazioni. Mi ricordai di quando andai a Caracas e trovai un locale grazie ad un “tiradentro” che lungo il viale principale, mi fermò e mi disse : “Ciao italiano, stasera vuoi scopare? vieni al Las Vegas, ci sono le migliori, vedrai sicuro, no problem” capii che avevo la classica faccia da italiano che si fa fregare, ma non m’importò e accettai il consiglio del tipo, finendo a bere con una brasiliana sfatta dalle grosse tette, che prima di sedersi con me faceva la vogliosa strusciandosi coi suoi meloni sulla mia faccia e una volta appartati per la consumazione cominciò invece a parlarmi dei suoi problemi con i figli, i soldi e il marito che la menava. Faceva bene, pensai dentro di me. Ero pronto. Avevo messo la giacca bianca di lino sopra la camicia nera aperta sul petto. Mancavano ancora un ora all’appuntamento e cercai di farmela passare nel migliore dei modi col regalo di Pedro. ”...rum e cocaina...” Aprii lo scartoccio e con un cucchiaio ne presi un po’ che stesi sopra al comò stile coloniale. Preparai un rigo, lo feci subito, ma ne rimase un po’ dai lati e sul dollaro arrotolato, quindi presi una Malboro, le tolsi il filtro e ne rimisi solo metà, la leccai lateralmente, per farci attaccare la roba che era rimasta e me la fumai steso sul letto, pensando alle caviglie sottili con i tendini tesi della mulatta, alle sue spalle di velluto, vestite solo di due fili di seta e ai suoi bellissimi capelli castani sopra di esse. Le boccate si andavano ad infrangere sulla persiana semichiusa, galleggiando qualche istante prima di essere risucchiate dall’aria della città, forse il fumo portava con sé la mia anima. Pensai che ad una festa si dovesse ballare ed io da buon Italiano del 67, sapevo ballare solo il Valzer, la Mazurca e un po’ di Tango, quindi decisi di esercitarmi davanti allo specchio con qualche passo in scioltezza caraibica, abbracciando l’attaccapanni che avevo vestito con la mia giacca di lino. Alle 23 e 30 , da queste parti la puntualità è un optional, passò Pedro. Mi chiese se il regalo era stato gradito ed io annuii con una risata fragorosa che lasciava intendere che il rigo di prima era stato seguito da molti altri e da tante altre sigarette. “...era in cordigliera da mattina a sera...” Il Barracuda è un locale lungo la spiaggia e questa sera era off-limits per gli stranieri, eccetto che per me che ero stato invitato. Per la strada chiesi a Pedro di parlarmi della mulatta, mi disse che era cubana e si chiamava Luna, faceva la ballerina ed era fidanzata con Miguel, ma adesso Miguel non c’era, perché doveva sbrigare degli affari sulle montagne. Entrai con Pedro, l’ambiente era molto carino, pieno di belle ragazze poco vestite che facevano la spola tra il banco dei cocktail e la pista da ballo. In pista a ballare sulle casse c’era Luna. Rimasi a guardarla come la prima volta che la vidi, mi catturavano le sue movenze, i suoi passi di danza così calienti, ballava piegando le gambe e movendo il bacino in avanti, teneva la mano sinistra dietro la testa girata di lato e l’altra appoggiata sul fianco destro, faceva una specie di saltelli veloci in avanti che non avevo mai visto prima, ma che trasportava tutti i miei desideri addosso a quel corpo dalla pelle bruna, immerso in un letto dalle coperte bianche e profumate. Iniziai a ballare in pista con l’intenzione di avvicinarla sempre di più, per salutarla, come se fosse per caso. Mi muovevo alla meno peggio, ma mi sentivo terribilmente goffo rispetto alla gente che mi attorniava, al ché una ragazza, mi si avvicinò, mi prese le mani sorridendo e incominciò a ballare con me, il massimo che potevo fare era muovere i miei piedi seguendo un po’ il ritmo e questo a lei bastava, infatti cominciò a mettere le sue cosce intorno alla mia gamba destra e a muoversi come per fare l’amore. Il ballo mi trasportò al punto che mi sentii sciolto e mi muovevo come se i miei arti fossero di gomma, mi piaceva guardarla negli occhi mentre danzava sinuosa davanti a me, io ero il suo palo e lei la pantera legata ad esso. La presi più volte per le mani e la feci girare, fino a che sentii un colpetto sulla spalla che mi invitò a voltarmi, mi girai e ferma davanti a me c’era Luna. Rimasi stupito del fatto che smise di ballare sulle casse per venirmi a salutare, forse le interessavo veramente. Mi disse “Ciao Italiano, vieni a fare un giro? ti devo parlare.” Acconsentii e la seguii. Con noi venne anche Pedro e questa cosa non mi piacque, Luna si dirigeva verso l’uscita e io facevo dei segni a Pedro con gli occhi e la bocca per invitarlo a lasciarci soli, ma lui non capiva o fingeva di non farlo, anzi, mi sorrideva quasi divertito e ci seguì fino alla casetta di legno prima della spiaggia. Entrati nella casetta Luna mi disse il motivo perché mi aveva invitato alla festa, mi diede una busta in mano e mi fece promettere di consegnarla al destinatario una volta tornato in Italia. La busta era sigillata, lessi però il destinatario “Al Segretario del Partito Comunista Italiano” e notai altre lettere scritte in alto a sinistra “E. G”. Non capivo, non riuscivo a capirci niente, forse ero finito in un club di pazzi mitomani, l’unica cosa che capivo e che non le interessavo nel senso che avrei voluto. Accettai comunque e misi la busta nella tasca posteriore dei pantaloni, pensai che una volta arrivato in Italia, l’avrei gettata nel primo cassonetto dell’aeroporto. “Va bene” le dissi “Conta pure su di me”, vidi i suoi occhi neri spalancarsi e le sue labbra carnose aprirsi per sorridermi, mi diede un bacio sulla bocca come ringraziamento. Pedro era rimasto vicino e anche lui mi ringraziò stringendomi la spalla e colpendola in maniera bonaria e ripetuta, ridi sto cazzo coglione, pensai. Avevo perso ogni speranza di potermela spassare con Luna e decisi di tornare dentro il locale per cercare la ragazza di prima per continuare il ballo. Prima tornare dentro, mi appartai un attimo per pisciare e da dietro una siepe vidi entrare nella casetta un uomo, dopo qualche istante, sentii la voce di Luna “Miguel!”, poi udii quattro colpi di pistola. Non sapevo cosa fare, se scappare o se andare a vedere, avevo sniffato troppo quella sera e l’aggressività mi giocò un brutto scherzo. Andai verso la casetta e vidi Pedro a terra in un lago di sangue contorcersi dal dolore, in piedi Luna e Miguel che stavano parlando con lui che le puntava una pistola. “....Maracaibo mare forza 9 fuggire si ma dove ?....” Miguel si accorse della mia presenza e intimò di fermarmi puntandomi la pistola contro, alzai le mani sopra la testa e lui venne verso di me tenendomi sotto tiro e trascinando con forza per un braccio Luna, mentre si dibatteva e piangeva, poi voltatasi verso Pedro ormai morente lo salutò “Adios compagnero!”. “Sei l’italiano ?” mi chiese Miguel, “Sì, mi chiamo Michele Fanti, sono italiano, ma ti giuro che non stavano facendo niente di male, eravamo qui solo per parlare dell’Italia noi non...” Miguel mi interruppe, “Cammina verso quella barca” tutti e tre ci incamminammo, io e Luna procedemmo davanti. Salimmo sulla barca e Miguel levò gli ormeggi. “....come una bandiera morde il pescecane nella pelle bruna...” Una volta al largo Miguel mi disse “Allora italiano, dammi la busta” “Quale busta?” risposi io nell’incoscienza e lo stupore. “La busta che questa terrorista cubana ti ha consegnato prima” ribatté. Mi ricordai che avevo messo la busta nella tasca posteriore dei pantaloni e gliela diedi senza ulteriori titubanze. “Mi chiamo Felix Ramos, sono un agente cubano della Cia, non preoccuparti, non ti farò alcun male”, queste sue parole mi rassicurarono molto, le mie gambe cominciarono a tremare per una scarica di adrenalina che mi invase tutto il corpo, in quanto mi ero già dato per morto e come cena per i pescecani. “Questa mattina” continuò il tipo “9 ottobre 1967, abbiamo condannato a morte e giustiziato, il rivoluzionario, nemico della libertà, Ernesto Guevara, sono tornato dalla Bolivia per finire il lavoro con i suoi complici qui in Venezuela”. “Traditore!” uscii dalla bocca di Luna. Ripensai alla busta che mi aveva dato Luna, “E. G” le iniziali significano proprio Ernesto Guevara!. Felix cominciò a parlare con me in tono quasi rilassato mentre si accendeva una sigaretta “Dovevamo fermarlo, stava diventando una minaccia per tutto il sud America, prima Cuba, adesso la Bolivia, con i suoi scagnozzi sparsi per tutte le nazioni, piano piano avrebbe esteso la sua follia ovunque, lo dovevamo fermare e oggi lo abbiamo fatto!” , “Giusto” dissi per compiacerlo. Finita la sigaretta si voltò verso Luna che aveva la testa bassa e le guance coperte dalle lacrime, le appoggiò la canna della pistola sulla fronte e lei sentendo il ferro ancora caldo per i quattro colpi di prima, alzò lo sguardo, i suoi occhi neri si gonfiarono di fierezza e smisero di far uscire le lacrime, proferì l’ultima frase “Viva la revolucion!”, “..zà zà!”
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Mauro Fodaroni
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