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L’antidoto
Il collo di una donna è una delle esperienze più eccitanti che un uomo possa mai fare.
E Jack lo sapeva fin troppo bene.
Per questo motivo cercava in tutti i modi di resistere alla tentazione di affondare subito il viso in quella sorta di paradiso e di godersi ancora per qualche istante la sensazione di impotenza mista a sincero stupore.
L’aveva vista per la prima volta al bar Mexicali, un postaccio con le pareti colorate verdi e blu pieno di gente dedita al calcio, alla birra e a menar le mani. Era capitato lì per caso. Il classico colpo di fulmine. Faceva un gran caldo, il puzzo di sudore di tutte quelle persone che sbavavano dietro alla cameriera era quasi più insopportabile dell’odore di birra da due soldi. Colpo di tosse e via:
- Scusi dov’è il bagno? - la barista spalancò un sorriso sincero come se avesse visto l’oasi nel deserto e rispose
- In fondo a destra come in tutti i bar di tutto il mondo, ma le consiglio di non usarlo.
Jack non sarebbe entrato nel bagno di quel locale per tutto l’oro del mondo se non fosse stato per questioni di vita o di morte. Ringraziò e si diresse rapido nella direzione che gli era stata indicata.
La procedura di somministrazione del nuovo farmaco che stava sperimentando era lunga e complicata e aveva assolutamente bisogno di un lavandino e uno specchio.
Un quarto d’ora dopo, quando uscì dal bagno, il locale era semideserto.
La cameriera stava caricando la lavastoviglie, Jack si accasciò esausto sullo sporco bancone e chiese dell’acqua.
È impressionante come la superficie di un bancone da bar possa rivelare così tante storie pensò Jack mentre gli veniva versata dell’acqua in un bicchiere alto e spesso. I solchi lasciati dai boccali sbattuti sopra, le incisioni fatte con i taglierini dai ragazzini, le ditate unte dei balordi, gli aliti degli ubriachi.
Jack bevve d’un sorso tutta l’acqua.
Una volta ripresosi alzò gli occhi e guardò meglio la ragazza che lo stava scrutando con aria interrogativa e ammaliata che gli stava di fronte.
Aveva occhi azzurri e capelli castani raccolti in una bassa coda di cavallo, denti stupendi e bianchissimi che cozzavano rispetto allo squallore e al colore scuro di tutto il locale. Poi si soffermò sul collo, come faceva sempre, ogni volta che era davanti a una donna.
Era una cosa più forte di lui, quasi prima di guardarla in volto le guardava il collo.
Si immaginava il resto da lì.
Era convinto di riuscire a leggere dentro le donne semplicemente scrutando questa parte del corpo, così sottovalutata da immagini e pubblicità. A Jack era sempre piaciuto il collo, non avrebbe saputo dire perché, forse fin da piccolo. Ogni qual volta piangeva, sua madre lo prendeva in braccio e lo coccolava canticchiando vecchie canzoni e lui si aggrappava con le mani intorno a quello che considerava il paradiso e la salvezza; una volta lì, come per magia, tutte le paure scomparivano e tornava la serenità, il sonno.
Ora era davanti a questa stupenda ragazza, stava per baciarla, per spogliarla, per fare l’amore con lei eppure non riusciva a staccare gli occhi dal suo collo.
È stato così anche quel giorno, quando dopo aver bevuto il suo bicchier d’acqua l’aveva guardata ed era rimasto ammaliato da quell’incavo eburneo. Era stato un attimo, un lampo, le luci aranciate del locale erano diventate stelle danzanti, la puzza di birra un ricordo lontano e le mura scrostate dal tempo e dai balordi si erano trasformate in un cielo blu complice.
- Come fai a lavorare in un posto come questo? - aveva chiesto con un filo di voce senza riuscire a distogliere lo sguardo.
- Mio padre è morto una settimana fa e questo è tutto quello che mi ha lasciato.
- Tuo padre? - la apostrofò Jack.
- Sono tornata dalla Sardegna per sistemare le solite faccende burocratiche e mi sono trovata a spillare una birra dietro l’altra.
Poi prese uno strofinaccio e se ne andò a pulire un paio di tavoli in fondo alla sala. Jack la osservò: si muoveva come un felino, elegante e sinuosa, non era molto alta e aveva le gambe che disegnavano una leggera parentesi, come i giocatori di calcio e questa particolarità la faceva ancheggiare ancora di più restituendo una camminata che non passava inosservata.
- Dimmi almeno come ti chiami - urlò Jack dal bancone strizzando gli occhi per cercare di focalizzare la ragazza attraverso la poca luce che c’era.
- Caty - si sentì rispondere e subito dopo qualche arrivò un grugnito da un tavolino alle sue spalle. Si girò di scatto per rispondere a quella che poteva risultare un’obiezione mal formulata, invece era solo l’ultimo ubriacone rimasto nel bar che, non reggendo più la testa, era caduto faccia in giù sul tavolino di legno massiccio.
Quando Caty tornò aveva sulle labbra un sorriso malizioso e occhi interrogativi
- Che ci fa un bel ragazzo come te da questa parti?
- Sono solo di passaggio.
- Di passaggio per dove?
- Per lavoro non ne posso parlare, sai…cose segretissime..
- Ahh ehm...ti fermi in zona ancora per molto?
- Dipende.
- Da cosa?
- E’ segretissimo anche questo.
La ragazza sorrise appena, quanto bastava perché si sporgesse appena in avanti e rivelasse ancora di più il collo fino a far intravedere le spalle.
- A che ora chiudi qui? Chiese ansioso Jack.
- Proprio adesso.
Dopo 10 minuti Caty stava chiudendo il locale girando nella toppa una vecchia chiave arrugginita e faceva strada a Jack su per una salita verso la casa di suo padre.
Il salotto era piccolo, sporco e pieno di bottiglie rovesciate, il divano dove erano seduti emanava un tanfo che faceva arricciare il naso e la polvere era ammucchiata un po’ ovunque sul pavimento.
Caty si abbandonò al pianto, raccontò di quando se ne era andata via di casa con la zia dopo la morte di sua madre: aveva solo tre anni e la zia non se l’era sentita di lasciarla insieme a quello che chiamava “il porco zotico” che aveva messo incinta la sorella e che l’aveva portata a morire di botte. Lei così piccola non capiva nulla: si era ritrovata ventiquattro ore dopo in Sardegna in una casetta con un grande giardino e tanti animali da accudire che lei adorava. Quella era stata la sua vita per 28 anni, fatta di animali e piante. Lei e la zia gestivano un emporio di cibo per animali domestici e concimi per piante da appartamento. Tutto filava liscio come l’olio fino ad una strana telefonata, le avevano solo detto “Tuo padre è morto. Torna a Torino”. Stordita e intontita aveva preso l’aereo e si era trovata a dover dire addio a un uomo che dicevano essere suo padre ma che lei si rifiutava anche solo di guardare. Tutto poi era successo così in fretta che non aveva avuto nemmeno il tempo di metabolizzare l’accaduto: una strana signora l’aveva accompagnata prima in quella casa e poi al bar. Fuori dal portone del locale le due donne avevano già trovato cinque o sei energumeni già mezzi ubriachi che urlavano e battevano i pugni sul portone e imprecavano perché il bar era ancora chiuso. Quando era entrata la puzza la invase, fu spinta dentro da quei cinque uomini che, come in trance, continuavano a chiedere da bere. La strana signora le aveva detto che si apriva alle 11 e si chiudeva alle 11 di sera e poi se ne era andata lasciandola in balia del puzzo e di quegli enormi svitati.
Jack la lasciò sfogare, la ascoltò per tutta la storia senza interromperla e senza capire perché questa ragazza gli stesse raccontando la sua vita. A lui. Un perfetto sconosciuto. Uno sconosciuto con il morbo di Atalov.
Quando Caty si calmò era stretta fra le braccia di Jack e non singhiozzava più, si era appisolata esausta e non si rese conto di essersi avvicinata così tanto a quel ragazzo mai visto prima.
Jack disse:
- Non so perché mi hai raccontato tutto questo ma stai tranquilla, tutto si sistemerà, tutto andrà per il verso giusto, non devi sentirti obbligata a tenere aperto quello schifo di bar.
- Lo so
- E allora perché lo fai?
- Perché non so come fare, sento che questo potrebbe essere il momento per dare una svolta alla mia vita, vorrei aprire un locale tutto mio, stare in piedi da sola. Fino ad ora mia zia si è occupata di me e non ho dovuto mai pensare a nulla. Ora invece mi sento pronta a camminare per conto mio. Ma ho paura.
- Che cosa vorresti fare?
- Aprire una gelateria, coloratissima, con un’infinità di gusti, così che tutti una volta entrati non sapessero cosa scegliere. Vorrei creare un numero di gusti infiniti.
- Sei una persona con un’aurea di infinite sfumature.
La strinse, le accarezzò il collo a lungo, massaggiandola da dietro in avanti per cancellare la tensione. Indugiando. Scendendo sulle spalle, dolcemente, poi le baciò le tempie. Il miracolo dell’unione illuminò di rosso le anime di Caty e Jack.
Si addormentarono così, abbracciati e felici di essere insieme, di condividere quel momento tragico e insieme prezioso. Verso le tre Jack cominciò a stare male. Sudava, tremava, si contorceva, ansimava, Caty spaventata continuava a urlare.
- Che ti succede Jack, … come posso aiutarti, ….prendi delle medicine ….dove sono…
Jack le indicò la giacca, Caty corse a raccoglierla, vuotò le tasche, trovò e rovesciò sul pavimento diversi flaconi di pillole colorate. Rotolarono con lei nel panico della stanza.
Era agitata e confusa:
- Quale devo prendere? Strillò Caty, mentre nella testa di Jack tutto il mondo cominciò a girare. Vedeva il bar di Caty pieno di figure. Erano orchi, neri e assassini, giravano intorno calpestando boccali di birra e piccoli uomini ubriachi stesi in terra, le pareti sembravano di gommapiuma si muovevano ritmicamente e l’intonaco si scrostava in una continua pioggia di schegge di colore blu notte. Dietro al bancone graffiato la figura angelica di Caty che gli offre da bere il succo della vita, ha un sapore nauseante sembra mostarda mista a miele. Poi il collo di Caty comincia ad allungarsi in modo smisurato, diventa una strada bianca e lastricata che porta lassù.
- Jack, Jack, riprenditi ti prego, guardami. Ho chiamato l’ambulanza, saranno qui a momenti.
Lottando contro una forza sconosciuta Jack si riprese dalle visioni e focalizzò i grandi occhi di Caty che lo guardavano terrorizzati, impietriti.
Impotenti.
Parlò rapidamente con un filo di voce:
- Mi hanno somministrato una dose di un virus in sperimentazione, sto testando l’antidoto. E come puoi vedere non funziona.
La sua mente ora era leggera, si stava svuotando.
- Loro neanche lo sanno – pensava, mentre Caty disperata lo stringeva a sé – le donne non lo sanno quello che sentiamo quando le abbracciamo e sentiamo vicinissimo il profumo del loro collo. Se lo sapessero. Si muovono sinuose, incuranti del potere ammaliatore che posseggono, si mostrano con leggerezza e naturalezza come se non fosse niente. Se sapessero. Capirebbero che molta della fragilità e dell’insicurezza dell’uomo è data dal sentirsi quasi degli inetti rispetto al paradiso che stringono tra le mani. Si sentiva uno stupido idiota. Stava perdendo tutto. E tutto questo per soldi.
Rimaneva un’ultima cosa da fare, si rivolse a Caty:
- Ti prego prendi l’assegno nella tasca interna della giacca. Sono i soldi per questo schifo di esperimento: 100.000 euro. Trasforma il bar di tuo padre nella gelateria più bella che sia mai esistita. Chiuse gli occhi e chinò la testa da un lato.
- Fallo per te stessa e fallo per me - fu l’ultimo pensiero.
Per la seconda volta nella sua vita Caty fu in balia degli accadimenti. Riuscì a capire ben poco delle tantissime cose che aveva sentito, vissuto e provato in quegli istanti e nei giorni successivi alla morte di Jack.
I bambini erano sempre numerosissimi e facevano la fila anche solo per leggere i gusti della gelateria “Peccati di gola”.
- Caty, Caty, non so cosa scegliere mi piacciono tutti, sono indeciso tra Lacrime di fata e Volo di unicorno. Tu che mi consigli?
- Io?
- Sì sì … dimmi quale prenderesti tu- strillava una bambina saltellando lungo la vetrina.
- Io… credo che … prenderei il solito: l’antidoto.
©
Paola Bergamelli
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