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Strade e cammini
di Antonino Turano
Pubblicato su PB18


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STRADE E CAMMINI


All'inizio don Sarino, il postino, si portava sconsolatamente le mani ai capelli. Stentava ad abituarsi a quella capricciosa situazione: colpa del sisma maledetto che, solamente a nominarlo, mi fa rizzare i capelli!
Da quando, all'indomani del terremoto, la gente si era sparpagliata per le campagne, come tanti passeracci, per il portalettere era diventata un'impresa da carabinieri scovare tutte quelle persone che, già da una vita, conosceva di nome e anche di fatto, per poter consegnare loro le missive. Così la posta, in quei giorni sbandati d'inizio sisma, si accumulava nel suo borsone di cuoio stralucido e consumato con lo stemma di ottone delle PT. Una soma a tracolla che si tirava dietro anche se andava a spasso con la famigliola così che la gente, quando lo incrociava, lo tormentava continuamente: «don Sarì, c'è niente per me?». Lui, torvo, aguzzava lo sguardo e, insofferente, la degnava di un «niente». D'altronde, a volte per strada, capitava di sentirsi chiamare da lui, con un vocione da venditore ambulante, e vedersi sbandierare da lontano una cartolina di "saluti e baci".
Il portalettere non riusciva a capire perché gli altri uffici, comprese banche e scuole, rimanevano chiusi in quanto considerati "sinistrati", mentre la posta doveva lavorare a pieno ritmo; tanto da rendere il povero postino doppiamente sinistrato: nella persona e nel lavoro. Purtroppo, la corrispondenza in arrivo bisognava distribuirla e allora, chissà perché, ne arrivava a vagoni stracolmi. Perciò in quel periodo don Sarino pareva invecchiato di dieci anni e la sera rincasava tanto sudato e impolverato che più di un postino sembrava un muratore.
All'inizio aveva provato a consegnare la posta in bicicletta; ma i paesotti della valle del Belice, contrariamente a quanto si possa immaginare, sono situati su terreni movimentati: impervie colline e dossi, invalicabili per le due ruote. Oltre al pesante borsone, egli avrebbe dovuto trascinarsi dietro anche la bicicletta. Aveva subito rinunciato. Per portare le lettere o i pacchi postali, in tutto l'hinterland comunale, don Sarino faticava come un ciuco. Andava a piedi, lungo le strade sconnesse e polverose per dirigersi a Giacheria, Cannitello o Catena, aiutandosi spesso con un bastone o una canna strappata da qualche campo. Allora in lontananza, con la tracolla che lo tirava giù come una zavorra, sembrava un San Cristoforo. Ma niente lo fermava: alla ricerca dei destinatari percorreva le peggiori trazzère; con un incedere lesto e sacrificato: attraversava ogni recinto, anche di filo spinato, siepi, fossi e guadi. Il già scarso prestigio della posta, intanto, si era ridotto a zero. A volte, mentre distribuiva la corrispondenza, i cani dei poderi, a causa della sua andatura bislacca, s'inquietavano e si alteravano. Ed era tutto un abbaiare ostinato che annunciava il suo arrivo tanto che era costretto a tenere sempre le tasche del già pesante giaccone rigonfie di sassi, da usarsi all'occorrenza. Capitava anche di ritornare col borsone tragicamente ancora pieno perché non aveva trovato nessuno. Ma quando lo svuotava era rigonfio di omaggi ortofrutticoli: arance, broccoli, mazzi di cipolle, carciofi, fave fresche, a seconda della stagione. Poiché per la gente era un eroe, l'unico vero lavoratore in un paese ridotto forzatamente a riposo e faceva a gara per offrirgli ospitalità o il solito caffé, sempre ben accetto, che poi lo faceva andare spedito come una gazzella.
Fortunatamente tutti quegli sfollati vennero raccolti nelle tendopoli, altrimenti, per continuare a svolgere quel lavoro di postino, ci sarebbe voluto il cavallo come ai tempi di mio nonno. Ma non crediate che tutte quelle tende, messe in fila come un accampamento nomadi, favorissero il ritrovamento dei destinatari! Don Sarino, all'inizio, non conoscendo le nuove destinazioni dei cittadini, brancolava come un miope senza occhiali, e, in mezzo a quelle tende bifamiliari, in fila per sette, non faceva altro che chiedere: «dov'è Tizio?, dov'è Caio?», poi era tutta una catena di S. Antonio per scovare tutti quei Tizi e quei Caio o far viaggiare, via mano, qualche letteruccia spiegazzata.
Anche se il peso del borsone a tracolla gli dava il portamento contorto d'una pianta d'olivo, lo zelante postino, si aggirava, fra tutti quei fili e picchetti delle tende, saltellando come una ballerina del Teatro S. Alessandro. Almeno, ora che non andava per campi, aveva un aspetto curato e comunque più confacente alla sua persona: oltre alla pancia prominente, faccione tondo e colorito, occhialoni scuri, e sguardo sbrigativo. Sembrava un esattore sperduto. In effetti, quando non trovava i destinatari, si sentiva tanto perso che avrebbe avuto voglia di buttare tutte quelle lettere in aria fra la gente, come fossero confetti sulla sposa.
Passava la sua giornata a consegnare le lettere nelle tre tendopoli di Giacheria, Cannitello, Madonna di Trapani così, senza alcun recapito, dando semplicemente un'occhiata a tutte quelle facce già note che gli suggerivano, a colpo d'occhio, nome, cognome ed indirizzo ante-sisma. Ma non sempre trovava gli interessati nella propria tenda perché la gente era spesso attirata da tutti quei camion e furgoni strapieni di stracci e doni che arrivavano da ogni dove per essere distribuite ai sinistrati. E così non sapeva mai dove lasciare la posta perché, i malfidati, chiudevano le tende con lucchetti e catene che sembrava ci tenessero chissà quali preziosi. Fortuna che l'ingegno di don Sarino non conosceva barriere! Si era subito organizzato e appuntava le lettere ai lembi delle tende con le mollette dei panni, se proprio non doveva ripassare l'indomani per una raccomandata. Poi, quando finalmente aveva preso dimestichezza a ballonzolare fra tutti quei paletti per scovare i destinatari più imboscati, la cittadinanza, quasi dispettosamente, si trasferì nei piccoli ricoveri delle amplissime baraccopoli e, per il postino, ricominciò il solito calvario per apprendere i "nascondigli residenziali" della popolazione! Stavolta dovette imparare tutto un cifrario di sigle e numeri per risalire al tipo di baracca (ESPI, BARTOLASO ecc.: dai nomi delle ditte fabbricanti verso cui era stato fatto defluire qualche rigagnolo del fiume miliardario pro-Belice.) Va da sé che il povero don Sarino divorava chilometri, ingoiava malcontento e smangiava calzature (che poi si potesse consolare sul fatto che buttava giù la trippa, era un'altra cosa!).
Insomma era un'ardua impresa continuare quel mestiere soprattutto perché sulle lettere gli indirizzi si mantenevano sempre di più sul vago. Colpa di queste rivoluzioni residenziali, a malapena conosciute dagli interessati figuriamoci dalle fantomatiche persone del mittente. Non era raro trovare posta con indirizzi riferiti agli svariati periodi (antesisma, tendopoli o baraccopoli); a volte, gli scriventi esasperati, si limitavano ad indicare solo il nome senza aggiungere altro, come a voler dire: poi se la vede il postino che, certamente, conosce tutti.
Ma ci fu un periodo di stasi mentale per il povero portalettere, poiché gli abitanti, perfidamente vittime delle loro radicate insoddisfazioni, si scambiavano le baracche come fossero giornaletti: il tutto per stare vicino ai parenti. E don Sarino, in quei giorni di assestamento residenziale, sballottava sconsolatamente il borsone strapieno per le nuove interminabili vie. Stavolta ci mise un bel po' ad organizzarsi per far fronte alla nuova, sempre provvisoria, complessa situazione. Dovette dividere la mappa cittadina in tanti lotti ed affidare un po' della posta ai ragazzi aiuto-postino, assunti nel frattempo.
Poi, bene o male, il tempo trascorse per tutti divorando le gioventù e le varie amministrazioni, che si succedevano a ritmo elettorale. Ad ogni vigilia di elezione, in paese, si sfoggiava l'affascinante parola ricostruzione, calamitante voti e consensi, come un invito a pranzo (perché la gente va presa nel momento del bisogno e all'apice dell'impellenza). Le promesse, a lungo andare, sempre più remote e sempre più blande, rimanevano semplici parole cosicché tutto ristagnava sfiancando sempre più i cittadini. Dal canto loro i vari gruppi di partito si scambiavano acerrime invettive sulle responsabilità per le mancate attuazioni delle iniziative deliberate.
Col tempo, brutta abitudine, si fa il callo a tutto e la cittadinanza, già avvezza ad assuefarsi ad ogni disgrazia, apprese che avrebbe dovuto adeguarsi anche al miserabile, incerto futuro. Anche il postino si adattò alla nuova rete stradale imparando pazientemente i nuovi recapiti. Intanto la parola ricostruzione, diventata per un periodo obiettivo irrangiungibile, riapparve come un sole fra la nebbia fino a diventare realtà concretizzabile. Allora al "baraccato" orizzonte cittadino, apparvero le prime abitazioni -quando ormai la gente si era abituata a non guardare avanti-, tutti, all'improvviso, rialzarono la testa cominciando a pensare seriamente di dedicarsi compatti alla realizzazione delle loro aspirazioni.
Il propagarsi delle nuove abitazioni era proporzionale alla frequenza dei cambi di guardia comunali: lentamente si delineava l'abitato prossimo venturo.
Il nuovo centro urbano cresceva ad alveare e si espandeva a vista d'occhio, già cominciavano a delinearsi le case, i marciapiedi, le fognature, i negozi, le piazze e le vie. La cittadina, che ogni giorno si popolava di famiglie, diventò presto un intricato dedalo di vie, viuzze e vialoni e, mentre questo paese di cemento armato cresceva con gli anni, divorava l'altra città fittizia: la baraccopoli.
Immaginate lo sconforto del povero don Sarino che si trovava nuovamente al punto di venti anni prima (con la toponomastica cittadina non faceva altro che imparare l'arte e gettarla via!). Ora non si capiva se quell'agglomerato urbano in espansione fosse quasi una città o un quasi-cantiere. Intanto la gente ci abitava pressoché tutta e si era alle solite: mancavano i nomi delle vie. Il postino, e non solo lui, navigava in un mare d'incertezza. Questa volta dovette imparare i numeri dei lotti e dei comparti. Era una situazione indecente e tutti lo gridavano a pieni polmoni. Bisognava decidersi a intitolare le vie della nuova cittadina.
Quell'anno, dopo innumerevoli fumate bianche, l'accordo politico più abbordabile fu quello di un pentapartito. I disaccordi erano l'unica certezza paesana ben radicata, un'abitudine cui anche i politici non vollero staccarsi neanche per decidere il futuro delle strade della cittadina.
La nuova città era costituita da una grande piazza, tagliata da un vialone centrale da dove dipartivano una serie di grandi strade principali e dalle quali poi si ramificavano le altre secondarie fino a formare agglomerati di case come piccoli quartieri.
I personaggi più prominenti ed "apolitici" del paese furono delegati alla stesura di un piano ex-novo di "toponomastica urbana": il professor Tortorici preside di scuola media e storico locale (simpatizzante comunista), l'arciprete padre Barbera (democristiano fino alla tonaca), un vecchio geometra che tutti chiamavano ingegner Tumminello (socialista fin dai tempi di Nenni), il maresciallo dei carabinieri in pensione Barrile (missino dichiarato), il presidente della pro-loco, ragioniere, da tutti chiamato "professore", Caleca (verde arcobaleno) ed il cavaliere Sampieri (benestante e socialdemocratico). Il colloquio andò così.
Il geometra propose di dividere le strade per ordine di grandezza e quindi associarle ai personaggi da nominare per ordine d'importanza storica.
Si cominciò col cercare di dare un nome al vialone principale. L'Arciprete, che parlò fra i primi, propose subito di dedicarlo alla memoria del Papa "Buono" Giovanni XXIII che tanto amore e fratellanza aveva fatto germogliare nel mondo.
«Ma non scherziamo!» lo fermò prontamente il presidente della pro-loco, «caso mai sarà da chiamarsi "viale 15 Gennaio", a ricordo del giorno che ci ha ridotti in questo stato di lastrico perpetuo in modo che, chiunque, passando da queste parti, associ lo squallore del panorama urbano a quel giorno maledetto che portò in rovina la nostra cittadina».
«Stai a vedere che adesso lo commemoriamo quel giorno, che è solo da dimenticare!», lo interruppe indignato il geometra, strappandogli la parola, «per me è da dedicare alla memoria del valoroso capitano Becchina che portò alto il nome d'Italia e scrisse quello della nostra cittadina fra le genitrici di eroi nazionali». Tutti si tappavano le orecchie per non sentire l'enfasi di quelle esagerazioni da patriota fallito. Il maresciallo, che era un po' sordo, invece, si mise la mano dietro il padiglione auricolare per sentire meglio e prontamente s'indispettiva, agitando l'indice destro:
«Il generale Barrile, mio parente, ha portato ben più in alto il valore dei cittadini...».
«Un momento, un momento», disse pacioso il ragioniere-professor Caleca «Perché allora non la chiamiamo via "Giacheria" come l'antica via che percorreva lo stesso tracciato, in modo che questi nomi antichi non abbiano a perdersi?»
Tutti obiettarono però che un paese nuovo, con nomi vecchi, voleva quasi dire che già nasceva decrepito.
Senza approdare a soluzioni alternative il discorso si spostò sul nome da attribuire alle strade principali da cui si diramavano una serie di straduzze secondarie. Il professor Tortorici propose di dedicarle ai nomi dei grandi del comunismo.
«Eh sì!» s'adirò subito padre Barbera «v'immaginate una nuova cittadina rovinata già sul nascere con tutte quelle vie Gramsci, via Stalin, Via Lenin, Via Togliatti?, oggi che il comunismo ormai ha fatto capire quello che è. Ci sono nomi ben più significativi: volete confrontarli con via De Gasperi, o addirittura via Aldo Moro che è attualissima e suona giovane come il paese che sta per rinascere» e si faceva rosso per l'emozione di aver acchiappato la parola quasi di prepotenza.
«Di giovane in questo paese non c'è neanche l'infanzia, se è tirata su da queste vecchie teste di legno!» Fulminò tutti il ragioniere Caleca «...che cosa c'entra tirare in ballo la politica anche sul nome delle strade dove far nascere le nostre figliolanze? Allora dedichiamole alla cultura, agli scrittori Siciliani: Tomasi di Lampedusa, che qui ci visse, Pirandello, Verga, Quasimodo, Sciascia...» e, irritato, batteva i pugni sul tavolo. «Un momento, un momento!», lo interruppe il professor Tortorici, «non possiamo dedicare tutto un paese ad una sola categoria di personaggi, bisogna variare, creare le zone: città, fiumi, scienziati, scrittori, musicisti, pittori, eccetera, è così che si fa» E il benestante cavaliere Samperi, da mezz'ora col dito alzato perché nessuno gli dava la parola, si fece avanti coraggioso, schiarendosi la voce. Accortosi però di aver dimenticato il discorso preparato mentalmente, tentennò:
«Sì, ma con quale criterio scegliere le zone da dedicare?, ci dovrà esserne uno logico!» E i loro sguardi muti e dubbiosi s'incrociavano impotenti e furono al punto di partenza... e continuò così per tutte le serate delle varie sedute e non ci si cavò nulla di concreto tanto che alla fine bisognò tirare a sorte. Si capiva che c'era lo zampino della politica e quando è così, di accordi neanche a parlarne. Insomma, da non crederci: s'era dovuto sorteggiare!

Sono passati due anni, da quando sono state affisse agli angoli delle strade le targhe di metallo stampato, con i nomi delle strade estratti a sorte e don Sarino, coriaceo e paziente, ha ingerito anche questa ennesima "pillola a memoria", imparando a tempo di record i nomi di piazze e vie con la vana speranza che fosse l'ultima volta.
Dopo le ultime elezioni la nuova giunta ha portato nell'animo cittadino un nuovo fervore giovanile. Tutti giovani gli eletti i quali, dopo i fatti di tangentopoli, fanno ben sperare. Però per il postino, a sua insaputa, qualcosa di spiacevole si agita nell'aria comunale.
Nel giorno di consiglio è tutto un vociferare di malumore che sembra il preannunciarsi di un temporale:
«Una vergogna! Nomi tirati a sorte come fosse una riffa. Non ci si mette d'accordo nemmeno sui nomi delle vie. Paese di pecoroni, roba da vecchie amministrazioni post-fasciste». Si lamentava, con i consiglieri, l'assessore pidiessino Gravaglia, giovane aitante e rosso in viso per l'emozione.
«Tutto un guazzabuglio di nomi senza senso», confermava, il consigliere de La Rete, Neli «...Una via Tomasi di Lampedusa dispersa in periferia, fra vie con nomi di fiumi e città, neanche fosse stato leghista, nemmeno il conforto di stare fra gli altri scrittori. Una via Pirandello che è un vicoletto cieco, roba da farlo rivoltare nella tomba povero vecchio».
«È un indecenza!» bofonchiava il nuovo sindaco. Stavolta furono unanimi nel progettare un nuovo piano di riordino sensato dei nomi da dare alle vie, incarico affidato all'architetto Ronchetti che lavorava presso l'ufficio tecnico del comune.
Risultato: il vialone fu conquistato da Tomasi di Lampedusa, la piazza grande accaparrata dal sempre grande Pirandello e gli altri scrittori, siciliani e non, si dovettero accontentare di stradine secondarie. I musicisti si presero un intero rione di strade come pure gli scienziati, un altro rione andò ai nomi di città e un ennesimo ai nomi dei fiumi. Così da non sprecare nemmeno le targhe già stampate: soltanto un semplice spostamento delle stesse in perfetta armonia con le nuove leggi antisperpero.

E una mattina d'inizio estate il povero don Sarino guardava sconsolato gli operai comunali appollaiati sulle scale di legno, tutti presi in quel generale smonta e monta che in una settimana avrebbe rivoluzionato i nomi delle strade e la testa del povero postino.
Stavolta don Sarino allargava le braccia: era esausto. La sua memoria cominciava a perdere colpi. Come succede a tutti, stava facendosi vecchio. L'idea di dovere imparare per l'ennesima volta come uno scolaretto, gli mandava in scompiglio il cervello: con gli anni era diventato svogliato. Aveva maturato gli anni di servizio e, sollecitamente, presa la decisione di andare in quiescenza.
Ieri mattina, all'ufficio pensioni presentava la sua domanda. Viso stanco, occhiaie evidenti, insonnia lampante. Mentre firmava il modulo non faceva altro che ripetere:
«... non è possibile... ma siamo pazzi! Quando è troppo è troppo!». Gli impiegati sorridendo e dandosi di gomito cercavano di distoglierlo: «Ch'è successo don Sarì?» e lui incurante e imperterrito: «Quando è troppo è troppo!» e già varcava l'uscita col borsone a tracolla come se avesse appena consegnato la posta.
[1993]

© Antonino Turano





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