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Non ho molto da espiare, almeno relativamente a quella vicenda d’aver dato un supporto, diciamo così, logistico ad un anarchico venuto da Paterson, aggrappato al manico di una valigia traboccante di vendetta, per sistemare i conti con il mandante morale delle cannonate di Bava Beccaris.
Non era quindi la voglia di ripercorrere i luoghi di un’altra esistenza ad avermi portato su quella spianata circondata da platani che facevano da cornice alle linee di fuga di una prospettiva un po’ banale che indirizzavano lo sguardo verso il monumento un po’ kitsch che, al di là delle intenzioni, non riesce ad ispirare pensieri di rimorso e di purificazione.
In realtà, ci torno, tutte le volte che voglio rivedere mio nonno, a quasi trent’anni dalla sua morte.
Ci sono al mondo luoghi, che agiscono come condensatori di energie soprannaturali, in cui si dischiudono varchi verso l’inconoscibile e l’arcano, quasi pentacoli per cerimonie non necessariamente esoteriche, che costituiscono solo lo strumento di appagamento dell’aspirazione all’eternità.
Per intenderci, non è la cattedrale di Chartres, con il suo labirinto e la sua vergine nera. Né il priorato di Borley, infestato di mille fantasmi. Non è il ponte di Borgo a Mozzano dove Satana beffato si dovette accontentare dell’anima di un maiale. Né il bosco di Locronan con i suoi riti celtici, che riecheggia ancor oggi di echi irreali. Neppure uno degli infiniti onfali (1) che leggende popolari disseminano nei luoghi più disparati del globo, corredandoli di apparizioni e strepiti di catene, di lucori e ghigni sinistri.
Si tratta, più banalmente, della cosiddetta cappella espiatoria che una città, allora piuttosto acritica nei confronti dei malesseri sociali, intimamente tradizionalista e monarchica, per malintesa riconoscenza di antichi lustri, ha voluto elevare sul luogo in cui Gaetano Bresci ha officiato la nemesi di un popolo.
Non so perché quel sito fosse in grado di produrre quell’effetto di sconfinamento in una terra di nessuno, in cui la vita e la morte si fondevano in un unicum stupefacente per un soggetto come me, del tutto scevro da inclinazioni verso il trascendente e il mistico.
Forse il tutto era determinato dallo spirito del nonno che si trovava ad aleggiare, oltre la sua consapevolezza e la sua determinazione, intorno a quei luoghi posti in fondo alla via in cui aveva passato gran parte della sua esistenza, così trasudanti, per lui, di sentimenti e di sensazioni assopite che lo riportavano ad affetti dismessi, come un abito non più indossato ma conservato nel baule dei ricordi di un tempo remoto.
Finiva lì, al tempo della mia infanzia, il dipanarsi quotidiano dei vagabondaggi che per lui costituivano il ripercorrere lungo i viali freschi del parco i luoghi della sua giovinezza, quando andava a trovare la morosa che abitava alla cascina Frutteto, con una pistola in tasca, effimero deterrente al marasma sociale successivo alla grande guerra, e tanti progetti per il futuro nella mente e per me rappresentavano l’affaccio su tradizioni perdute verso cui avrei nutrito curiosità durante tutta la mia esistenza.
Mentre mio nonno si leggeva il giornale, che allora costava venticinque lire, quasi a sottolineare la miticità dei tempi, trasformavo in cavalli alati per fantasiosi voli fanciulli verso domini senza limiti e senza barriere i cippi di pietra, che sostenevano le catene di ferro brunito che delimitavano il recinto sacro alla testimonianza della coda di paglia dei monzesi.
Ed è lì, appunto, che da quasi trent’anni avviene questa celebrazione rituale, priva di implicazioni spirituali o spiritiche, quasi fosse un protrarsi delle partite a carte, intervallate soltanto da brevi commenti sul gioco o dall’affabulazione su episodi antichi, con cui intrattenevo il vecchio negli ultimi suoi anni di vita, in un rapporto vivace cui facevano da humus emozioni mai esternate.
Era anche, per entrambi, un ripercorrere quelle pedalate perdute sui sentieri del parco, verso la cascata del Lambro, verso i mulini e le visite alla torretta dove viveva il vecchio Biasin con la moglie e con Till, il cane pulcioso che divideva con me i biscotti ammuffiti di cui Biasin ogni volta mi riempiva le tasche.
Proprio quella torretta dove l’altro mio nonno, negli anni tardi del liberty, lavorava come cuoco del ristorante frequentato dalla borghesia cittadina e che faceva da soggetto di una vecchia cartolina di Monza, su cui comparivano due bianchi sbaffi di mosca sul prato antistante: io e la figlia del fotografo, in grembiulino, come si usava a quei tempi agghindare i rampolli perché non si sporcassero i vestiti.
E’ sicuramente per questa familiarità dalle radici ramificate che, cresciuto, ho sempre guardato a quella struttura falso medievale con l’occhio del proprietario espropriato, luccicante un po’ di malinconia e un po’ di livore.
Il nonno che si sedette accanto a me sulla panchina quel giorno era un nonno su cui si erano sovrapposti con gli anni strati di polvere che lo avevano invecchiato, prosciugato, ingrigito e ingobbito, ma bastò un soffio deciso per fare emergere da una nuvola grigia la figura asciutta che pigiava un tempo sui pedali, con le mollette che stringevano i pantaloni all’altezza delle caviglie per non farli impigliare nei raggi della ruota, leggermente curvo verso di me, comodamente insediato sul seggiolino imbottito incastrato tra il manubrio e la canna, sfiorandomi i riccioli con la tesa del cappello ben calcato sulla fronte perché non volasse via lungo la discesa del parco, affrontata con gagliardia presenile.
“Ti voglio raccontare una storia”, mi disse, “che riguarda il nonno della nonna, che viveva alla cascina Frutteto. Qualcosa hai già sentito da piccolo, ma quello che ti racconto oggi, del lacé del re (2) sicuramente non l’hai mai sentito, anche se la parte ufficiale della storia l’avrai letta da qualche parte”.
E si mise a ripercorrere tracce vetuste da cui emergeva un ritratto arguto e un po’ stupefacente, ma neppure irrealistico, dati i tempi, perché i potenti dell’epoca non erano in grado di essere autonomi neppure quando andavano a puttane.
Il mio trisnonno forniva di latte la casa reale fin dai tempi in cui Umberto I aveva deciso di trascorrere lunghi periodi nella villa disegnata dal Piermarini per gli Asburgo e passata con l’unità d’Italia nell’appannaggio dei signori Savoia.
Pa’ Giuaneu era il regiù (3) della vecchia famiglia contadina insediata nella parte rurale di quella struttura tipica dell’architettura lombarda del primo ottocento, progettata dal Canonica, inserita in un vasto appezzamento di alberi da frutta, a cui deve il nome, contraddistinta da ampi archi e un porticato di collegamento con i fienili e le stalle dai soffitti a cupola, con una facciata gialla sopra la quale spicca tuttora una cuspide denominata popolarmente “campanin sensa campann” (4).
Pa’ Giouaneu si era investito della cura della stalla, che conduceva con quel sentimento misto di distacco e di affetto per gli animali, cui non lesinava alternativamente un bastone perentorio ma non feroce e pacche affettuose ammannite con ruvida bonomia.
Questo ruspante villico, reso autorevole da un’età già cospicua e da una fama di austero patriarca, era stato un giorno avvicinato da una specie di ruffiano collocato in una qualche posizione di prestigio nell’organigramma della Versailles lombarda che, con fare di untuosa confidenza, misto ad accenni misteriosi, a suggestioni di segretezza e ad appena prospettate minacce, gli aveva commissionato l’incarico d’indubbia delicatezza di recarsi sul far della notte in una certa villa di Vedano al Lambro per accompagnare in una certa carrozza anonima, ma di grande conforto, una certa dama misteriosa fino a una certa entrata del palazzo reale.
Il regiù aveva sicuramente orecchiato qualche favoleggiamento, durante le veglie invernali al caldo della stalla, infarcito di allusioni confezionate un po’ per il fatto di ignorare i particolari, un po’ per celare alle orecchie dei più piccoli la malizia pruriginosa che la diceria lasciava sottintendere, relativo alla tresca regale con la contessa Litta.
Eugenia Litta era un gran pezzo di topa, come direbbero i toscani, così diversa dalla regina Margherita, corta di gamba, priva di sensualità, probabilmente frigida e pallida da rasentare l’emaciato. Viveva in una villa di Vedano al Lambro, confinante con la tenuta reale di Monza, ed era l’amante del re già prima delle auguste nozze: per questo motivo, Umberto I soggiornava volentieri a Monza, con la coscienza lieve per l’avallo indifferente e condiscendente della moglie, cui l’essere regina importava evidentemente più del virtuale diadema osseo che le ornava la fronte.
E, come conseguenza di questi frequenti soggiorni e della polivalenza regia in fatto di amplessi, a cavallo dei due secoli non era infrequente incontrare in città un certo numero di ragazzotti e fanciulle con tratti somatici che lasciavano galoppare le fantasie verso genealogie inconfessabili, che era meglio non approfondire.
Stranamente e per un cinico gioco del fato, la mal riuscita sotto il profilo estetico andò ad investire l’unica progenie, re d’Italia, imperatore d’Etiopia e latitante di Brindisi, che avrebbe avuto la necessità di giovarsi di un aspetto più aitante.
Da quella prima sera in cui pa’ Giuaneu se l’era vista salire in carrozza fugace, elegantina nel suo abito blu notte da cavallerizza ed emanante effluvi conturbanti sotto un folto velo che le celava interamente il viso, lasciando solo intuire un languido profilo, erano state infinite quelle spole misteriose tra le due tenute, officiate nel silenzio più totale, senza neanche un buonasera, a causa della proterva boria nobiliare della contessa e del pratico opportunismo rurale del regiù, che gli faceva interpretare il suo ruolo di automedonte dell’avvenente fantasma, con la consapevolezza che era meglio mettere da parte le buone maniere, per evitare rogne e inutili complicazioni: tanto, nessuno gli avrebbe mai rinfacciato di essere un villico maleducato.
“Anch’io ti voglio raccontare una storia”, gli dissi: “una cosa che non ho mai avuto occasione di dirti, tutte le volte che abbiamo parlato del re, della cascina del parco, di questa cappella espiatoria e del pa’ Giuaneu”.
Mio nonno mi guardava con un’espressione un po’ curiosa, un po’ sorniona, stringendo gli occhi in due strette fessure, come gli capitava quando voleva concentrarsi su qualcosa o manifestare un attento interesse.
“Nella mia situazione, non credo di potermi stupire di qualcosa”, disse.
“Non esserne mai sicuro”, gli replicai.
“Raccontami allora. E se è così delicato quello che devi dirmi, dammi almeno una sigaretta”.
“La nonna non vuole...”, sogghignai.
“Uff, la nonna...”
Gli accesi ridendo la sigaretta e cominciai a raccontare.
Pinin di Triante si trovava a Milano l’8 maggio 1898, mentre al Verziere suonava l’oficleide (5) dell’apoteosi del generale Fiorenzo Bava Beccaris che, dal suo quartiere di piazza Duomo, impartiva l’ordine di sparare ad alzo zero sui manifestanti contro l’aumento del prezzo del pane.
Come sempre, folla insubordinata e prevenuta, con una rabbia covata da mesi sulla brace di artefatti pretesti: un contadino di Siculana ammazzato dall’esercito (ma che cazzo ve ne frega di Siculana, che neanche sapete dove sia?); repressioni e arresti a Canicattì, Montescaglioso, Santeramo; scempiati e ammazzati seminati con scientifico equilibrio geopolitico, a celebrazione della ancora recente unità nazionale, ad Ancona, Bassano, Chiaravalle, Firenze, Gallipoli, Jesi, Macerata, Matelica, Modica, Molinella, Osimo, Senigallia, Trani, Troiana, Voltri.
E poi ancora Bari, Faenza, Ferrara, Napoli, Palermo, con sapiente mescolanza di rappresentanti delle categorie del dissenso: braccianti, mondine, tessili, calderai, cavatori, selciatori, scarriolanti, sindacalisti, socialisti, anarchici, nullafacenti e rilasciati da galera.
E, in un crescendo di piazze militarizzate con la crème dei generali reduci dalle belle prove fornite nell’avventura coloniale, mucchietti di morti tristi a Molfetta, a Bagnocavallo, a Piacenza, a Figline Valdarno, a Sesto Fiorentino, a Pavia.
Pinin di Triante respirava la morte che allagava il Verziere, preoccupato di salvarsi dai colpi, di rassettare la folla dispersa dalla furia dell’assalto e di sfuggire al setaccio maniaco operato dall’esercito per arraffare i caporioni di una rivolta di straccioni disperati a cui l’artiglieria spalancava benevola una decorosa via di fuga dall’arazzo di merda che decorava le pareti della loro esistenza spietata.
Registrava tutti quei gridi e tutto quel sangue sul magnetofono della sua mente febbricitante, costruendo un reportage che avrebbe diffuso nella prossima riunione del circolo anarchico, già proiettato verso nuove rivolte e nuove ribellioni, a cui il popolo si sarebbe presentato non più impreparato, armato a sua volta di fucili carichi non solo di inutile rabbia.
Mi raccontò di quelle giornate di violenza e di morti e commentò la croce di grand’ufficiale dell’ordine militare di Savoia che il re aveva, motu proprio, conferito al generale sanguinario, per gratitudine e riconoscimento della sua grandiosa impresa.
“Quel figlio di puttana si è assunto la paternità del massacro”, disse Pinin, “ma quella firma l’ha messa anche sulla sua condanna a morte”.
“E’ figlio di una regina, Pinin. Magari è la stessa cosa, ma occorre più rispetto per l’istituzione”.
“Stavolta gliela faremo pagare sul serio. Non quelle bischerate con il coltello, come Passannante e Acciarrito”(6).
“Una pallottola è troppo cara per un coglione come il re, che non ne vale il costo. E poi, Pinin, morto un re, se ne fa subito un altro e non è detto che provochi meno danni all’Italia del suo predecessore”.
Era indubbiamente, pur nella sua scontata banalità, una intuizione profetica di tutte le benemerenze che si sarebbe acquisita nel tempo il casato dei signori Savoia, cui il referendum del 1946 avrebbe impedito di perpetuare l’occupazione delle istituzioni con personaggi connotati, al di là dei preconcetti sull’istituzione monarchica, d’infimo profilo culturale, almeno sul versante maschile della dinastia.
Erano passati più di due anni da quei fatti, quando Pinin di Triante mi venne a cercare, verso il dieci di luglio, nell’abbaino che avevo adibito ad atelier da pittore dove producevo tele impressioniste di buona fattura che esaltavano il mio estro, ma non mi davano da mangiare e rifinivo i ritratti, abbozzati alla domenica sui luoghi del passeggio dei borghesi, la cui autostima sconsiderata mi garantiva una decente sussistenza.
In realtà lo studio era diventato anche un luogo di transito di spiriti liberi, vagamente cospiratori, a volte coinvolti in quelle indagini cavillose e invasive con cui il potere assilla i dissenzienti, per il gusto di fargli sentire il fiato sul collo anche quando non ci sono contestazioni specifiche di fatti giuridicamente rilevanti.
Venivano lì, cambiavano la società con le loro trame alquanto velleitarie, organizzavano complotti e attentati in un gioco di ruolo artificioso, ci passavano la notte quando avevano qualche motivo per starsene lontano da casa e io me ne andavo la sera lasciandoli lì, dicendogli soltanto: “Quando te ne vai tirati dietro la porta”, tanto non c’erano serrature e dentro non c’era niente che valesse la pena di prendere, perché i colori me li portavo sempre dietro in una sacca sformata, insieme al cavalletto pieghevole, e i quadri finiti non me li avrebbe rubati nessuno.
Transitavano per il nostro diletto anche suffragette e modelle, ragazze ai margini della società per bene, che rallegravano alquanto i truci progetti rivoluzionari e intiepidivano con i loro corpi il gelo crudo incartato nelle nebbie invernali.
“Devi farci un favore, compagno”, mi disse Pinin di Triante, mettendomi un braccio sulla spalla e soffiando fuori le parole con un fare cospiratorio.
“Compagno di chi?”
“Già, compagno no di certo, imbrattatele borghese, perso dietro i tuoi sogni artistici...Ma comunque ci dai una mano quando abbiamo bisogno e non chiedi niente e non stai con i padroni...”
“Lascia perdere, Pinin, e vuotami addosso il tuo sacco. Deve essere una cosa grossa, stavolta, se fai tanti preamboli. Di solito andate, venite, senza chiedere un cazzo e mi scopate anche le modelle”.
“E tu ti rifai con le compagne che passano di qui”.
“Touché, Pinin. Racconta tutto al tuo padre spirituale”.
E per favorire le confidenze ci tuffammo in un assenzio pastoso dentro cui macerare patemi e progetti di mostruosa grandezza.
“C’è un tale, che è venuto da Paterson...”
“In quale buco del culo del mondo è questa Paterson?”, lo interruppi sarcastico.
“Paterson City. New Jersey. United States of America...”
“Cosa blateri, Pinin? Un anarchico individualista come te, parlare in inglese come un baronetto. Via...”
“Vuoi chiudere quella fogna di bocca, cazzo. Stai zitto e stammi a sentire”.
“Va, bene: c’è un tale che è venuto da Paterson, New Jersey, United eccetera. Cosa vuoi da me?”
“Adesso è da certi parenti, poi andrà un po’ in giro con una specie di fidanzata; a fine mese sarà qui a Monza e ha bisogno di un posto dove starsene fuori vista per un paio di giorni”.
“Cosa si porta dietro? Bombe, dinamite, cannoni?”
“Credo solo una pistola, ma il rumore sarà tanto”
“Non c’è un altro posto dove andare?”
“Apparentemente si cercherà una sistemazione, ma in realtà dovrà chiudersi in un posto non ufficiale”.
“Va bene, Pinin, tanto se anche dicessi di no, me lo troverei tra i coglioni al momento opportuno”.
“Gli servirà qualcosa, quando starà qui?”, chiesi dopo un attimo di pensamenti inespressi.
“Magari una compagnia, una delle tue modelle, insomma, l’importante che sia disponibile...”
“Ma quella specie di fidanzata?”
“Non verrà con lui. A Monza arriverà da solo. No, con un altro compagno. Ma si sistemeranno in posti diversi. E’ un bel ragazzo... Forse lo ammazzeranno subito. Se gli va bene lo arresteranno e lo ammazzeranno dopo. Comunque non lo vedrai più. Se anche riuscisse a scappare, andrà via da Monza di corsa. Ma non ce la farà.”
“Sembra che la cosa più importante sia trovargli una donna che lo riscaldi”.
“Siamo a luglio, minchione. Diciamo che non lo faccia pensare troppo nelle ore d’attesa”.
“Proprio una cosa da niente, Pinin. Vaffanculo te e l’anarchia...”
Restammo a guardarci un attimo in silenzio, prima di scoppiarci a ridere in faccia.
“Posso sapere come si chiama? Per capire, quando si presenterà, se è proprio lui.”
“Meglio di no: meno cose sai, meglio è per te. Comunque lo accompagnerò qui io. O qualcun altro che tu conosci. Non devi preoccuparti. Solo, evita che ci sia altra gente in giro, oltre la modella, voglio dire. E anche tu, per favore: togliti dalle balle”.
“Ma certo, compagno. Fate come a casa vostra. Se vuoi vado via da Monza e mi trasferisco a Paterson: si chiama così, no, quel cazzo di posto?”
“Fin quando arriva lui stai dove vuoi, ma poi lasciagli spazio”.
“Quando arriverà di preciso?”
“Non lo so. Non lo sa neppure lui, oggi. Credo dopo il 21”.
“Dopo il 21? Il 21 arriva il re a Monza. Cosa state combinando, Pinin?”
“Reprimi i tuoi istinti di mostrarti troppo intelligente. Nessuno ti premierà e potresti rischiare grosso. Questa esibizione di meningi attive l’hai data a me e non lo dico a nessuno. Di te mi fido, anche se non sei dei nostri e so che non parleresti mai; ma qualcun altro potrebbe ritenere le tue intuizioni troppo pericolose”.
Gaetano Bresci venne da me la sera del 28. Era un bel ragazzo sui trent’anni, due baffetti curatissimi su un viso aperto, che ispirava naturalmente cordiale simpatia.
Indossava un abito di buon taglio di fattura accurata, una camicia di tessuto non ordinario, un panciotto con tanto di catena. Dalla spalla gli pendeva la tracolla di una macchina fotografica. Unica concessione all’anarchia un foulard nero che sostituiva la cravatta.
Dopo che Pinin me lo ebbe presentato come il compagno di cui ti ho parlato sentii le sue braccia forti dietro le spalle che mi abbracciavano come un vecchio amico.
“Grazie”, mi disse soltanto.
“Ben arrivato a casa”, risposi ironico e un po’ sconcertato. “Sistemati come vuoi. Io me ne vado subito con Pinin. Vai pure avanti e indietro senza problemi: la porta non ha serrature. La Cosciona verrà per le nove. Non me la guastare: è la mia modella più brava, non solo per le cosce. Ah, si chiama Maddalena. Non è una puttana, anche se è di larghe vedute. Quindi falle un po’ di corte e, dopo, non lasciarle i soldi sul comodino”.
“Devo chiederti un favore, compagno. Vorrei assistere al saggio ginnico domani sera, in via Matteo da Campione. Mi potresti accompagnare?”
“Dico, Pinin, non vorrete mica cacciarmi in un qualche casino?”, dissi rivolgendomi al mio amico e senza rispondere alla domanda di Gaetano.
“Avevo detto a Bresci, qui, che sei un ragazzo intelligente. Vedi di non smentirmi fin dalla prima battuta. Non vorrai che lo accompagni qualcuno di noi, conosciuto da tutta la sbirraglia che ci sarà lì intorno domani sera?”
“E non vorrai che sia io a finire nei guai come complice una volta celebrata la festa...” ribattei sull’incazzato.
“Devi solo accompagnarmi sul posto”, mi disse Bresci con serafica pacatezza, “tanto per insegnarmi la strada. Non è necessario che rimani con me. Una volta lì farò tutto da solo”.
“E dopo?”, gli chiesi, “Se devi scappare?”
“Non ci sarà tempo”, sorrise rassegnato, “non è prevista una fuga. Sarà impossibile andare via di lì. Sarà già tanto se non mi accopperanno subito”.
Aveva disegnati sul viso i tratti di un destino stabilito, di cui aveva maturato una consapevolezza tragica, da guerriero acheo, anche se non rassegnata, fin dai giorni in cui aveva acquistato la Harrington & Richardson nell’armeria di Paterson e si era messo ad esercitarsi in un tiro a segno puntiglioso che gli avrebbe potuto valere un oro olimpico, proseguito con una perseveranza caparbia negli ultimi giorni sulle rive del Sillaro, dove aveva passato ore ricamate di fragilità con Teresa, ombrellaia appassionata che, inconsapevole di vivere nella storia, aveva condiviso un po’ della sua con quello strano americano vestito come un damerino che parlava d’anarchia e, nelle fratte, mescolava pallottole ad artefatti riti d’amore.
Il giorno dopo lo lasciai lì sul campo di marte, a gironzolare tra la folla con quell’aria da finto turista che, in una spirale sempre più stringente, convergeva verso la tribuna d’onore, già sradicato dal mondo e proteso come un cane da ferma a ipnotizzare la lepre.
Mi allontanai senza neppure salutarlo e non per ignavia: solo per l’indifferenza più assoluta per quanto sarebbe successo, un atteggiamento da “né con lo stato, né con le brigate rosse”, non condividendo l’ideologia violenta, ma comprendendone tutto il dramma e le angosciose ragioni.
Mi risparmiai così il crudo pestaggio che, dopo, gli purificò il corpo dalle impronte delle carezze impudiche della Cosciona.
“Te lo saresti mai aspettato, nonno?”, chiesi alla fine della storia al nonno, rimasto impassibile a sentirmi parlare.
“Pa’ Giuaneu era diventato sordo come una campana e, quando il giorno dopo lo informarono della morte del re, gridandogli dentro l’ orecchio più volte e a voce sempre più alta: -Hanno ammazzato il re-, rispose solo: -Oh, pucianiga- (7) . A posteriori si potrebbe dire che forse in quello stupore c’era anche un commento al tuo ruolo avuto nella storia”.
Dalla vicina chiesa di San Biagio giungevano i rintocchi dell’angelus.
“E’ ora d’andare, cosa dici?”, disse mio nonno. “La cena sarà pronta”.
E mi parve di vedere mia nonna, in piedi davanti alla stufa, schiumare il brodo con un gesto misurato d’altri tempi.
note dell'autore:
(1) l’onfalo (dal greco omphalòs, ombelico) nel linguaggio esoterico è il luogo dove il divino si unisce con il terrestre e dove non c’è confusione di lingue. Nell’antica Grecia era considerato omphalòs della terra il tempio di Delfi.
(2)lattaio del re.
(3)il termine regiù, storpiatura dialettale del termine “reggitore” indicava il patriarca delle famiglie contadine dell’800. Si trova con diverse variazioni fonetiche in tutti gli idiomi regionali.
(4) campanile senza campane.
(5)strumento musicale in disuso, della famiglia degli ottoni, a forma di serpente attorcigliato, che emette un suono rozzo e grottesco.
(6)Il 17 novembre 1878, a Napoli, Giovanni Passannante aveva attentato alla vita di Umberto I, ferendolo solo leggermente con una coltellata; il 22 aprile 1897 ci aveva provato Pietro Acciarrito a Roma, senza neppure riuscire a ferirlo.
Si trattò, in entrambi i casi, di iniziative individuali, estemporanee, caratterizzate da molta velleità ed improvvisazione, in cui la premeditazione era relativa unicamente al progetto di attentato e non coinvolgeva altri protagonisti che si potesse ricondurre a un disegno associativo.
(7)Termine senza un significato preciso, forse una storpiatura di puttana, senza un’accezione triviale, come oggi si potrebbe dire con sorpresa: “Oh, cazzo”.
©
Gianni Caspani
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