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L'ultima foglia
di Giovanna Frascolla
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L’anziana donna, di 102 anni, giaceva nel suo letto da tempo. Soffriva terribilmente per la malattia che l’aveva minata nel fisico e nel morale. Ogni tanto diceva:
“Ho paura, ho paura”:
La figlia Giovanna le chiedeva:
“Di cosa hai paura?”
“Ho paura della morte, dell’ignoto, di non riuscire più a sopportare la sofferenza e di trovarmi sola nel buio”.
Giovanna le accarezzava la mano o il viso e le parlava, cercando di alleviare le sue sofferenze, ma non sapeva proprio come aiutarla diversamente.
Il viso della madre rimaneva contratto in una smorfia di dolore e di angoscia.
Un giorno uno psicologo consigliò:
“Giovanna, raccontale una storia simbolica, ad esempio la storia di un albero, in cui tua madre riesca a immedesimarsi. Ti assicuro che, per mia lunga esperienza diretta, le sarà molto utile. Io uso spesso le metafore che raggiungono lo scopo meglio di tante parole. Il nostro inconscio le elabora, anche se al momento del racconto, a volte, non se ne coglie subito il senso.”

Giovanna raccontò:

“Nella vasta pianura lombarda si scorgeva da lontano un grande platano solitario, attorniato da campi infiniti coltivati a mais.
In estate i suoi rami si innalzavano verso il cielo, carichi di enormi foglie.
Il maestoso albero si sentiva utile e amato. Era felice quando gli agricoltori, dopo il faticoso lavoro nei campi, sostavano parlando e ridendo per consumare il pasto, o si riposavano alla sua ombra. Non si sentiva mai solo ed era fiero di essere l’unico albero, che ancora resisteva nella zona, sano e robusto.
La città andava estendendosi rapidamente, inghiottendo inesorabilmente tutti i campi e sommergendoli con strati di cemento e catrame.
Un giorno anche il proprietario del terreno, dove si ergeva il platano, decise di vendere. L’unica condizione che pose fu quella di lasciare in vita la pianta secolare, interrata tanto tempo prima in quel luogo dal suo bisnonno.
In breve tempo il nuovo borgo prese forma ed estensione: una chiesa, strade, piazze, negozi, villette e case sorsero ovunque.
Il platano si trovò in mezzo al villaggio. Centinaia di persone gli passavano ogni giorno davanti e le auto sfrecciavano veloci, soffiandogli addosso sbuffi di aria venefica che lo facevano soffocare.
Ricordava con nostalgia il profumo della campagna: l’odore della terra umida, appena rivoltata e perfino quello del letame sparso sui campi per concimarli; ripensava spesso ai terreni arati e seminati, alle distese di pannocchie e ai volatili che beccavano i chicchi rimasti al suolo, dopo il raccolto. Che dolce musica udire il cinguettio degli uccelli che aspettavano l’imbeccata della mamma, dai numerosi nidi nascosti fra i suoi rami! Il risveglio al mattino era sempre stato gioioso, pieno di suoni, di colori e di movimento.
Perfino le giornate invernali erano state piacevoli. Nel dormiveglia, mentre il cielo grigio favoriva il suo lungo riposo, osservava i banchi di nebbia o il manto di candida neve che ricopriva la campagna e si sentiva in armonia con l’ambiente circostante.
Adesso più nessuno guardava il bel platano o si soffermava alla sua ombra. Sembrava diventato invisibile!
Anche gli uccelli se n’erano andati lontano, alla ricerca di un luogo meno inquinato, dove nidificare ancora.
L’albero s’intristiva sempre di più e soffriva. Si sentiva vecchio, stanco, solo, inutile. Era evidente il suo stato di malessere generale. Malgrado non fosse ancora autunno, le sue foglie ingiallivano e si accartocciavano cadendo al suolo.
Un giorno arrivò il Sindaco con una schiera di operai. Disse:
 Questo platano è troppo vecchio, malato e ingombrante. E’ inutile tentare di salvarlo. Sarà meglio abbatterlo: così avremo nuovo spazio per una bella fontana.
L’albero era quasi spoglio: un’ultima foglia ancora verde si trovava sul ramo più elevato; sotto i colpi di scure degli operai finalmente si staccò. Una folata di vento la sollevò, innalzandola verso il cielo. Volteggiava come un aquilone. Si elevava leggera, calava rapidamente ma poi riprendeva subito quota, sospinta lontano, in alto sempre più in alto.
Infine la foglia si abbassò, guardandosi attorno meravigliata e ascoltando le voci della natura.
Capì che in quel luogo incantato non si sarebbe mai più sentita sola. Alberi di ogni specie la circondavano, abeti e pini diffondevano il loro aroma balsamico e differenti uccelli riempivano l’aria con i loro gorgheggi melodiosi. Prati ricoperti di fiori, dai più vividi colori e dai profumi inebrianti, si estendevano all’infinito, attraversati da un ruscello cristallino che scendeva gorgogliando dalle cime innevate.
Solo una natura ancora intatta ed inviolata si estendeva davanti a lei, in tutto il suo fulgore.
Atterrò dolcemente e chiuse gli occhi, distendendosi rilassata e serena sulla morbida coltre di muschio, mentre candidi e soffici fiocchi di neve lentamente la ricoprivano.
La foglia ebbe un ultimo guizzo. Sentì nuovamente palpitare in sé il cuore del suo vecchio platano. Sì, adesso era felice: poteva finalmente dormire, attorniata da quella bellezza e purezza incontaminate.
Sognò di ritrovarsi riunita al suo caro e vecchio albero, sul ramo più alto, sfiorando ancora il cielo e le nuvole, riscaldata dal sole di una nuova primavera, in un’altra dimensione dove tutto era per sempre: ordine, pace e serenità.”





Mia madre adesso sorrideva: sembrava in pace. Avevo registrato questo racconto e accostavo spesso il registratore al suo orecchio, poiché era quasi sorda. Fin dalla prima narrazione, le infuse serenità e fiducia e le tolse ogni timore o paura. Quando mi allontanavo da lei, dopo aver udito la mia metafora, era sempre serena e sorridente e si addormentava quasi subito.
Non avevo avuto bisogno di spiegargliene il significato. Mia mamma aveva recepita e fatta sua la metafora e non vedeva l’ora di volare, come l’ultima foglia, verso prati infiniti.
Dopo pochi giorni morì. Non era sola nel buio: io ero accanto a lei, stringendole la mano e accarezzandola, per accompagnarla nel suo ultimo viaggio, verso la luce.

© Giovanna Frascolla





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(3) La scala d'oro di Armanda Capeder - RECENSIONE
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