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Pista plebea
di Valeria Francese
Pubblicato su PBSE2007


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Il custode, incapsulato nella porziuncola del suo abitacolo, all’ingresso del portone, ti guarda fisso col viso incerato e due lenti spesse e laccate. Sei tornata a casa tardi, troppo tardi e così fingi di guardare l’orologio, con una specie di sbalordimento che s’inarca lungo le sopracciglia, come chi non s’è accorto dell’ora.
Il portinaio, allora, avvolto nell’alone turchino della televisione alle sue spalle, t’ha mimato con le dieci dita che sono già le undici. La cosa ti stizza parecchio, perché, nel residuo del conto delle decine, quell’unità espressa dall’ultimo mignolo, il più corto e malandato, è di una puntualizzazione perfida.
Sul pianerottolo raggiunto di fretta, cavalcando le scale, per sfuggire al conteggio del ritardo, ti avvicini alla porta del tuo appartamento in punta di piedi. Hai aperto la porta, un affondo repentino nel buio, certe riflessioni sulle modalità di un rientro straniero. E’ così che comincia tutta una sensazione, estratta fra indice e medio, come si farebbe con una pietra di sole sulla pelle. Tutto concorre a lasciare il segno di una cicatrice, se non si accorda, alla sensazione e alla pustola, una sinfonica fuoriuscita di senso.
L’ombra sul pavimento, divelta dal tuo corpo con immediata dedizione, ti sembra un buon inizio. Attribuirle un passo, sarebbe poi geniale. Fare andare avanti lei, la tua ombra, la silhouette dei tuoi pensieri e di tutti gli accadimenti che ti costringono a questi varchi stranieri, mentre il tuo corpo resta così, indietro, indietro nel cammino, per poter ricavalcare le scale, scendere giù nel portone e mimare al portinaio puntiglioso, che arrivi e partenze hanno tutti lo stesso valore, quando le cose cambiano.
La tua coscienza ombrata comincia a darti ordini, ora che le hai passato il comando delle rotte.
Virare di poco, oltre est, superando le scogliere dei volumi della libreria sulla parete, attenzione ai venti, provengono contrari da correnti che si alzano da insenature aperte, altro colpo di motore e infine… infine, gettare l’ancora dello sguardo sulla mattonella meno calpestata, approdo non naturalmente preferito dall’appoggio del piede, così che la sua cera è rimasta quasi intatta.
Ma per un atto di ribellione, nel desiderio di sbarcare su qualcosa di ancora meno noto, avviene l’ ammutinamento dal basso, è il desiderio del corpo di contare ancora qualcosa.
Decidi di fissare lo sguardo sul portaombrelli in ferro battuto ed inquadrare, fin nel profondo, i suoi tratti stinti di ruggine. Lo specchio, che fingi di non ricordare e che osservi con una certa ansia per il suo riflesso inatteso, si nasconde a forma di mezzaluna capovolta, dietro la porta- poetico sarebbe stato dire dietro una nube, ma si tratta in tutta onestà di solo legno truciolato- e finisce con il salutarti con l’unico rientro d’immagine che può restituirti, la tua. Ecco, l’immagine dello straniero che entra in casa sua, ombra divelta e corpo in rivolta, è quasi delineata del tutto, silente e composta, ma in fondo, molto meno nemica di come te l’aspettavi; forse meno compatta di come credi che sia, la tua faccia, quasi sfilacciata, è soggetta ad un dissolvimento improvviso. Strano poi il pallore della pelle- sarà per il vetro fumè che per anni non hai provveduto a cambiare- logorroica la capigliatura che parla troppo, dietro i ricci, mai saputi tenere a bada i tuoi capelli, senza arresti di punti, senza direzioni imposte, collocati sempre su angolature diverse; ed ancora, quello sbafo di rossetto appena lieve sul labbro superiore: accidenti, una cosa che dà sdegno, soprattutto perché hai incontrato almeno venti persone dall’ultima volta che lo hai controllato, compreso il portinaio nella sua porziuncola.
E così, anziché tradirsi di nuovo, meglio dichiararsi assolutamente e perentoriamente in ritardo, preferendo sostare sul ferro del portaombrelli che nel tempo s’è arrugginito. Almeno così, si è scusati parzialmente dalle proprie assenze e nello stesso tempo si può provare a rimodulare tutti quei ruoli che ci stanno stretti. All’ingresso di questa casa, stazionano le cose che per abuso di fantasia, quella che nel tempo è divenuta legge, si vogliono per forza vedere: ad esempio il solito gatto, quello che ci si aspetta di ritrovare ritto sopra la sedia, con la coda perpendicolare al viso. Ma la realtà è un’altra ed ulteriori sono le assenze da scontare per chi nemmeno si riconosce allo specchio. Non ce l’hai il gatto, inutile cercarlo con lo sguardo, povera donna con la lingua di rossetto inarcata sopra il labbro. E la fame che senti è il borbottio che fa il pensiero quando gira a vuoto, come un ingranaggio che non si incastra nella sua base. La situazione è quasi drammatica: le chiavi ancora nella toppa, ora obbligate da un’assenza di gravità, sono sospese in un tintinnio fiabesco, la porta è semiaperta a consentire forse l’ultima fuga ma, intanto, permette alla luce del pianerottolo di intrufolarsi di soppiatto ed inquadrare la prima cosa che capita: la tua valigia. Atto prima, scena prima, a dirlo è sempre quel mignolo maligno che si erge con tensione massima nell’aria.
Si, la tua valigia. Pronta per andarsene, quasi roboanti le sue rotelle come pneumatici fumanti sopra l’asfalto di una pista da corsa.
Essa è pronta per la sua corsa; tu sei ancora sulla soglia.
Essa, semi illuminata come l’eroina co-protagonista nel buio delle quinte, pronta a dire la sua battuta; tu vestita con poca grazia e troppa fretta resti dietro le tende a suggerire in ritardo le battute. Essa, sofisticata nel suo rivestimento di tela Blu di Prussia e cerniera indorata, vestita come per l’Aida, quasi in un alone di magnificenza, scalpita per fare la sua entrata; tu, con l’unica loquacità ingombrante che ti investe, quella dei tuoi capelli ingestibili, resti quasi timorosa di annunciarti, come farebbe un’inesperta controfigura.
No, qui urge cambiar storia.
Al buio, il trolley che ti ha regalato tuo marito Marco, solo otto mesi prima, per un last minute in due per Praga, esordisce con un solo copione che dice fine- il sipario cala- inutile ripetere le scene. Proprio Marco ha provveduto, forse solo qualche ora prima, a riempirla come un tacchino farcito, senza alcun rispetto per le cerniere dorate che si sono inerpicate, con audacia, lungo i binari roventi della zip; senza alcuna forma di reverenza nei confronti del tessuto elastico (ma fin quando?) in Blu di Prussia.
Eppure Marco, per quanto l’abbia imbottita – ora perciò sembra un divano- avrà dimenticato l’indispensabile. Preparare una valigia per lei, da parte di lui, soprattutto quando non si parte insieme, e tanto meno si ritorna insieme, quando il last minute mantiene del suo valore solo l’etimologia, ultima occasione, vuol dire innanzitutto che dentro vi è solo l’inutile, spiegazzato, arruffato e pieno di rabbia. Una valigia gonfia di rabbia. Perché tuo marito ti ha cacciato di casa, ma forse ti sei cacciata da sola, estratta da dentro la cornice in cui a stento ti si vedeva, perché metà di te era già fuori, fuori dal tempio delle scene dipinte.
Ormai sono quasi due mesi che vivi in albergo, e queste tue cose dentro l’Aida con rotelle, son quelle che ancora non eri venuta a prendere, quelle indispensabili che si lasciano apposta, con la sola scusa di un ritorno motivato e perciò meno riprovevole.


Marco è in casa, perché la serratura della chiave era chiusa con una sola mandata.
Sei in disordine, una serie di cose messe l’una sull’altra, come indumenti addosso ad una sedia. Cappello a falde sottili, cappotto a scacchi e calze color daino che una pozzanghera di strada ha impregnato di umido e bestemmie. Questo autunno non si decide a diventare inverno, forse teme gli eccessi, le soluzioni irreversibili, conosce bene quanto è lunga una stagione di neve e prova almeno a causarle un po’ di ritardo sulla partenza. Ma la valigia è pronta, da etoille del teatro a tacchino farcito, il passo è stato breve. Il tempo di recuperare quello che lui ha dimenticato o che, tu speri, non voglia aver messo, magari per rivederti ancora, in un ennesimo rientro se pur da straniero.
Fingi di non conoscere le vie dell’appartamento- come lo straniero in effetti non le conosce- in questa finzione cercata ardentemente- perchè essere straniero ti dà meno dolore che il non sentirti più proprietaria della tua abitazione- rifletti che sarebbe meglio chiedere permesso.
“Permesso”. La tua voce miagola, nell’assenza del gatto delle fiabe, provi a rimodulare il valore delle mancanze e dei nuovi ruoli da rinegoziare.
Chiudi la porta alle tue spalle, un tonfo irragionevole, non pensavi di avere tanta forza, le chiavi ora nel pugno della mano s’assestano quiete, la mezzaluna dello specchio inclemente trema un attimo. Bene, almeno sei nell’atrio, anche se per farlo hai dovuto strozzare l’ultima luce del pianerottolo sotto la fessura del legno truciolato. Senza pietà, ti senti un po’ cinica, ma forse è solo il tentativo di essere audaci in mezzo a tanta ostilità. Ora e di nuovo, sei al buio.
“Permesso” ripeti, perché tanto non sai ancora che fare né quale direzione prendere ed in circostanze come queste il rinvio è una poltrona molto comoda nella quale sprofondare.
“Sei ancora lì? Vuoi che ti stenda il tappeto rosso? Entra!” La voce di Marco, tuo marito, perentoria, acuta, giunge dal fondo della casa.
Il tuo chieder permesso ha avuto un riscontro inaspettato. Lui vuole che entri, lo vuole tanto e con foga.
Già, i tappeti che ti piacciono tanto, i tappeti orientali, estremi nel gusto, le espressive caricature dei giochi di colori, le cascate che si flettono a precipizio dentro la vegetazione acquatica, gli intrecci di filo di lana che sanno di mondi freschi e all’ombra, anche quando a rivestirli è solo la polvere e l’usura delle case.
Ad una fiera dell’usato, incorniciato da volumi di fiocchi rossi e palloncini semiasfissiati, ti fece l’occhiolino, proprio lui, che ora è adagiato nel corridoio di casa, un tappeto eccezionale, raffigurante un tempio d’acqua, cucito a mano dalle donne dell’India, come diceva la targhetta espositiva. Il prezzo era vantaggiosissimo ma Marco era scettico.
“Andatelo a dire ai poveri cretini.” ma per rispetto non si rivolse a te.
“Questo è passato sotto le macchine da cucito dell’azienda Castaldi & Fratelli di Forcella.”
Da allora, questa storia del tappeto taroccato era diventata una cosa su cui sorridere, quando si era di buon umore, quando si aveva voglia di riesumare ricordi di una certa piacevolezza, in quei momenti delle giornate coniugali sorrette dalla banale condivisione di un ricordo.
Fatto sta che, stasera, il tempio delle acque ti sembra una cosa sulla quale non poter più sorridere. A mò di pelle di leone, come un trofeo conquistato, negli ultimi tempi avrebbe avuto bisogno di una pulitura del tessuto ed ormai, più che cascate orientali sembravano semplici fogne nostrane.
“Scusa, è che pensavo dormissi, volevo far piano.”
“No, ti sto aspettando. Non è necessaria tanta cortesia.”
“Figurati...”
“Mi devi dare le chiavi.”
“Ah.”
“Ah.”
Si accende una luce dal fondo della casa, un lume giallino che s’inonda a ridosso della porta a vetri,
tenue, come un fiammifero nella cava della mano.
La voce di Marco giunge da quella luce, adesso, ma s’è fatta greve, ossidata come una moneta nello spumante, opaca. C’è un po’ di visibilità per procedere, almeno dritto a sé.
“Aspetta” ti rivolgi con un cenno del capo alla valigia reietta in attesa di redenzione, lei, zitta e sconsolata, sembra non aver alcuna intenzione di non aspettarti, visto che ormai, spento il fumo delle rotaie, spera solo di sgonfiarsi un pochettino, almeno quel che le basta per non sentire la zip che le brucia sopra la pelle.
“Aspetta” ripeti una seconda volta perché ti sei ricordata anche del gatto appollaiato sulla sedia che ti piace immaginare a tutti i costi.
“Credo di averti preso tutto, ma controlla tu se in giro c’è ancora qualcosa di tuo.”
“Oggi è mercoledì.” Ti piace prender tempo, ti piace sentire soltanto la sua voce e che lui senta solo la tua.
“E allora?”
“C’è la Champions. Non guardi le partite alla televisione?”
“Lo farei, se fosse un altro mercoledì. Ma è questo mercoledì e preferisco assicurarmi che tu te ne vada per sempre.”
“E che ti cambia se me ne vado mentre guardi la partita?”
“Devo concentrarmi.”
Il braccio del corridoio, nel quale sei ferma con un piede davanti all’altro, emana un profumo di detersivo per pavimenti che non riconosci. E’ la solita vaniglia scontata.
“Chi è venuto in questi giorni, Marco?”
E lui:“Chi è venuto?”
E tu:“Chi ha lavato i pavimenti?”
E lui: “Chi ha lavato i pavimenti?”
“Te lo sto chiedendo io, puoi rispondermi?”
“No.”
“Perché?”
“Perché me lo stai chiedendo tu.”
Accendi la luce, d’improvviso. La luce del corridoio. L’interruttore è accanto a te, all’altezza del tuo collo. Ma per un po’ ti sei ostinata a fingere di non saperlo, per la solita maggiore amabilità del tuo stare al mondo, in questo modo, dentro casa tua, per l’ultima volta.
“Sei arrabbiato con me al punto tale da non riuscire ad avere una conversazione civile.”
“A me sembra che tu stia insinuando qualcosa.” Marco adesso ringhia e cominci a pensare che forse all’ingresso, poco fa, hai scambiato quel mastino per un docile micio.
“Su cosa?”
“Sui pavimenti.”
“C’è profumo di vaniglia. Io sono allergica alla vaniglia, lo sai.”
“E quindi?”
“Quindi qui è venuta una donna. Che ti ha lavato i pavimenti con detergenti alla vaniglia?”
“Io.”
“Che bugiardo che sei.”
La questione delle bugie è delicata e sarebbe meglio non affrontarla. Non tanto perché ne usciresti perdente, ma perché in questo preciso istante, con tutto questo odore fastidioso di vaniglia, a metà di un corridoio che è diventato il tuo molo di ancoraggio, sei in leggero svantaggio. Poi, una certa vulnerabilità inonda la tua figura, tutta avvolta ancora nel cappotto a scacchi e le calze umide. Non sei nella posizione di attaccare, vista così all’improvviso, sembri piuttosto qualcuno che, indeciso se andar via o il non esserci mai stato, prende tempo a barattare un po’ di spazio con i chiaroscuri della penombra.
Il fatto è che ti sei appena accorta che sei sopra il tappeto indiano, il taroccato che adori, con il piede destro sei sopra la chioma del baobab gigante e con il sinistro hai interrotto il flusso ingrigito delle acque.
“Andatelo a dire ai poveri cretini. Questo è passato sotto le macchine da cucito dell’azienda Castaldi & Fratelli di Forcella, altro che intrecciato a mano dalle donne asiatiche!”
E tu, con negli occhi il riflesso delle luci della fiera, hai sorriso a Marco come se avessi appena visto un pacchetto di caramelle che fanno venire il tartaro, ma irresistibili. Era una specie di segnale quel tuo sorriso, appena angolato, scattante come un occhiolino ridente.
“Proviamo a parlarne?”
“Ma sei impazzita? Allora che ne dici di entrare, prendere le tue cose e finire questa storia?”
“Marco ti và di parlare con me?”
Marco risponde di no e risponde a modo suo, frantumando la lampada contro la parete, facendo sparire l’ultima luce che restava ad illuminarti timidamente il corridoio. Di nuovo al buio.
“Aspetta, adesso arrivo ed accendo la luce.”
“Lascia stare. Meglio stare cosi. Entra e posa le chiavi sul comò, voglio sentirne il rumore.”
Lasciare il tappeto indiano, taroccato o meno, è di un peso enorme e coinvolge sensazioni che non sei in grado di sostenere: i tacchi che ricominciano a calpestare suoli meno morbidi e che denunciano un passaggio, anche quando non vorresti esser passata affatto di lì, sono infedeli e capricciosi. Sentire il rumore delle chiavi, quel tintinnio in situazione gravitazionale forzata, lo scintillio metallico nel buio, incalzante nell’intensità, sembra annunciare l’ingresso in scena degli attori in catene.


Ed è così che ti viene in mente quella sera, non è stato difficile ripensarci visto che tutto è partito da lì. Un rumore di chiavi che scintillano d’improvviso nel buio e da allora è successo che anche la luce del metallo ti sembra produca un suono. Uno qualunque, greve o alto, ma un suono che fende l’aria e quasi la ingoia. Marco è entrato, ha acceso la luce e tu ti sei vista dentro le sue ampie pupille, nuda, abbarbicata a quel tipo pieno di anelli e catene al collo da prigioniero o da carnefice –a quel punto era uguale- e con i tuoi capelli di sempre che parlano troppo, che anzi, quella sera, s’erano messi persino ad urlare.
Lo avevi conosciuto qualche giorno prima e ciò che ti aveva colpito di Manlio era la sua agilità, quel suo modo di commettere ogni atto con estrema velocità, come se non avesse voglia di perder tempo, come se lui volesse dare il tempo. Lo percuoteva una rapidità nel muovere i suoi riccioli inumiditi dal gel, e nel ruotare i suoi occhi come se non gli bastasse un solo raggio di visione per guardarti tutta. Cercava spazi con le mani, con tutto l’ampio busto, con il rumore del suo metallo che ti buttava addosso, con le sue parole imbevute da un sapore alcolico.
Pioveva, era una sera viola.
Manlio ti aveva aperto la portiera per farti entrare nel suo taxi.
“Prego signora, dove la porto?”
“A casa”.
Certo, quando ancora aveva un senso rientrare a casa come qualcuno che ci vi abita, quando non avevi dubbi ove poggiare il primo sguardo- ovvio sulla prima mattonella, che s’importa se si consuma prima delle altre- e non c’erano valigie né gatti fantasma a cui dire d’aspettare.
Il fatto è che Manlio aveva un modo di guardarti, conficcato nello specchietto retrovisore, che già ti pareva di conoscere. Dentro il piccolo rettangolo luminoso, a dispetto di tutte le dispersioni ed i luoghi troppo affollati, avevi riconosiuto lo spazio del desiderio. Bastava cosi poco, mentre sorseggiavate parole consuete, rifugiarsi l’uno negli occhi dell’altro, aggrapparsi alle ciglia come funi solide, inventarsi il colore delle iridi solo per dare nuovi nomi alle cose. Per tutto il tempo, il viaggio verso casa fu una specie di veglia consumata nella rapidità del visivo. Non erano occhi particolarmente interessanti ma erano percorsi dal valore di un’accelerazione improvvisa: rapidamente apparivano per catturarti nel vetro e poi per un po’ ti abbandonavano per inseguire le luci della strada, e tu avevi promesso di aspettare, fedeli i tuoi occhi, per un nuovo inebriante incontro. Sempre nello specchietto gli dicesti che sì, certo, poteva salire a casa tua.
Il tappeto tarocco gli piacque molto e lui sì, che ci credette alla storia della donne asiatiche. Avevi raccontato questa storia con dovizia di particolari e compiaciuta del suo interessamento- ti piacque per una volta approcciare con serietà quasi professionale con un interlocutore più ingenuo di te- prendesti a stringerti sempre di più su di lui.
Ma quando provasti a sorridergli da bambina, uno di quei sorrisi che eri conscia ti concedessero ogni cosa, ti sembrò che Manlio, in tutta la sua rapidità di gesti e sguardi, non se ne fosse nemmeno accorto. Hai provato un’altra volta, giusto per essere sicura che ti avesse visto, impossibile, pensavi, non godere di quel sorriso angolato, mezza punta in alto con leggera esposizione di un quarto di canino. Una leggera delusione di nuovo e sempre di nuovo il lieve senso di una mancanza che s’erge a definire la diversità delle nuove visioni. E’ bastato questo mancato riconoscimento a farti balenare per la testa l’idea che Manlio fosse un tipo rozzo, troppo accentato nel linguaggio, troppo pieno di monili, come una qualunque donna volgare. Il sospetto di aver sbagliato anche in questo, nell’aver scelto il soggetto sbagliato per sentire l’odore della trasgressione, ti attraversò come un pensiero ossessivo. Manlio aveva una sola faccia, anzi un faccione, e quando raccontò della sua passione per il calcio a cinque, ti parve tragicamente ordinario.
La storia delle regole del giuoco, confusa e per niente interessante- se raccontata con tutta la rapidità di cui poteva essere capace Manlio- ti annoiò parecchio e pensasti che sarebbe stato meglio chiudere gli occhi, mentre prendeva a baciarti il collo, e ripensare all’effetto che ti aveva fatto il suo sguardo tagliato a squadro nello specchietto del suo taxi.
Un rumore di chiavi che scintillano d’improvviso nel buio e da allora è successo che anche la luce del metallo ti sembra produca un suono. Uno qualunque, greve o alto ma un suono che fende l’aria e quasi la ingoia. Marco è entrato, ha acceso la luce e tu ti sei vista dentro le sue ampie pupille, nuda, abbarbicata a quel tipo pieno di anelli e catene al collo da prigioniero o da carnefice –a quel punto era uguale- e con i tuoi capelli di sempre che parlano troppo, che anzi, quella sera, s’erano messi persino ad urlare. Marco tornò dal Convegno Industriali, quella sera. E ti chiedesti, se tutto sommato, avrebbe avuto ancora senso sorridergli da bambina per provare a calmarlo quando cominciò a gridare, con il tuo sorriso a quarto di canino. Marco ti ha cacciato di casa, emettendo improperi e strilli mentre tu, ancora incredula e seminuda- Manlio era già vestito, perché come si è detto, lui era uno rapido- sei rimasta con quel gesto sul viso, a ripercorrere con la memoria quel giorno alla fiera e a pensare se in fondo, tutti quelli che comprano tappeti tarocchi, in realtà, cretini non lo siano davvero.
“Ti accompagno io, vuoi andare da un’amica?” ha detto Manlio e d’improvviso t’è sembrata la cosa naturale andare in albergo, la tua prossima meta, con il taxi. Strano destino. Ha suonato il clacson in maniera isterica più volte e questa volta nello specchietto non c’è stato nessun incontro. Era diventato opaco, appannato dai veli dei fiati agitati. Con la stessa rapidità con la quale ti aveva fatto salire in macchina, accompagnato a casa, e raccontato una banalissima storia di calcio, ti riaprì la portiera davanti all’albergo e ti salutò.
“Per la corsa non è un problema.”
“Grazie.” Hai pure risposto.


Stai per uscire da casa tua, come fossi un estraneo. Marco, in poltrona è rimasto a guardare la televisione, il mercoledi c’è la Champions, il giuoco del calcio, l’ ha accesa con il telecomando come se sparasse contro un obiettivo. Hai preso le poche cose rimaste in casa, hai detto a Marco di chiamare Nora, la proprietaria della lavanderia ecologica e portare il tappeto da lei per vedere di rigenerare il tessuto. Tuo marito ha modificato i suoi lineamenti per sbatterti contro una smorfia acida. Hai capito che non ha nessuna intenzione di rigenerare un tappeto falso.
Tutto il mondo s’era fatto a grumi ingestibili, un po’ prima che te ne rendessi conto. Quando accade qualcosa di troppo grande o forte, c’è sempre una stanza dal colore bruciato nel quale ammassare i resti di un impasto non amalgamato. Certe inconsistenze diventano insostenibili. Molti pensano che le separazioni siano frutto di incomprensioni o di tradimenti. Ma sono delle leggerezze, a volte, a porre macigni sulle convivenze, sono quelle piccole mancanze di senso che fanno crepe ovunque, sui bordi delle tazze della prima colazione, sulle setole degli spazzolini, sulle intenzioni di sempre che sono diventate, nel tempo, semplici indicazioni che non si ha voglia più di seguire. Certe leggerezze non sono delle noie, sono più rarefatte delle noie, possono sembrare a prima vista piacevoli o gustose come granelli di zucchero che scompaiono nella trasparenza dell’acqua. Ma prima o poi l’acqua diventa torbida. E si vede.
Giù in strada, con la valigia Blu di Prussia che s’è raffreddata nel suo istinto di correre su piste nobili, quest’autunno s’è deciso a diventare inverno. L’albergo è lontano ma non vuoi chiamare un taxi. Il gattino è lì, questa volta c’era veramente, dritto sotto il portone, a leccarsi una zampetta.
Non è abuso di fantasia, è realtà, quella che non ci vuole poi molto a capovolgere.
Prendi a camminare, il trolley inciampa nelle mattonelle, trema ogni volta che precipita da un marcipiede, a risalirci, poi, ogni volta è come un boato che ti esplode in faccia.
Le rotelle si infangano nelle pozzanghere e schizzi neri raggiungono anche il rivestimento in tela. Gonfia ed esasperata da questa pista plebea, la valigia si affloscia su se stessa. Ma la strada è lunga e ci vuole coraggio. Per reinventarsi daccapo.

© Valeria Francese





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