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- L’ODORE -
A svegliarlo fu l’odore. Era appiccicoso e dolciastro, lo sentiva addosso e intorno. Il buio non era cambiato. Non un buio totale: una lama di luce spuntava sottile da un cardine mal messo della porta di ferro. Non che potesse proprio vederlo, il cardine. Se lo ricordava. Non era del tutto svenuto, evidentemente, quando l’avevano portato dentro. Qualcosa aveva intravisto. Fece un riepilogo mentale di ciò che aveva visto lampeggiare, nell’aprirsi concitato della porta verde, nello sciabolare della torcia. Un elenco molto breve: la mano che lo spingeva, coperta di peli nella parte superiore, le unghie curate, al polso un orologio di plastica da poco prezzo. Pantaloni di tela, che finivano in un paio di zoccoli chiari. Quelli che aveva sentito duri sul fianco, un calcio che gli aveva tolto il respiro. E un attimo prima che chiudessero, la coperta nell’angolo. Gli era venuto da piangere, forse qualche gemito gli era anche sfuggito, e un po’ si vergognava. Ma era ancora piccolo, in fondo.
Strano, non l’aveva notato subito, l’odore. Come se il suo cervello fosse troppo concentrato su altro, per poterlo rilevare. La paura, il buio. Ma ora lo circondava, lo sovrastava. Era come una nuvola nella stanza buia, una nuvola cattiva che gli entrava dentro. Si accorse di trattenere il respiro. Come se fosse possibile, come se servisse a tenerlo lontano, a non fargli invadere il suo corpo. Non l’aveva mai sentito prima, ma lo terrorizzava, quell’odore, e non sapeva perché. Andò ad accovacciarsi nell’ angolo, rannicchiato contro la parete umida, la vecchia coperta addosso alla bell’e meglio, il naso contro la stoffa ruvida, ma l’odore passava ugualmente. Tremava. Aveva voglia di fare pipì, ma non sapeva come fare. Chiuse gli occhi, cercando di non pensare.
Quando si svegliò la seconda volta sentì le voci. Forse venivano a dargli da mangiare. Mica l’avrebbero fatto morire di fame, no? Anche se al momento, fame non ne aveva. Sete, piuttosto. Ma da bere non ce n’era. Aveva fatto il giro della stanza più volte, tastando lungo i muri, ma niente da fare. Soltanto polvere e umidità.
Chissà che ora era. L’avevano preso di notte, quindi poteva essere mattina. Anche tarda mattina, magari. Ricordò le mani pesanti, il sacco sulla testa. Il gemito subito soffocato dalla paura. Le voci dure nel buio. Poi l’urto contro il metallo freddo, il ballonzolare del furgone.
Le voci continuavano, sembravano avvicinarsi. Non riusciva a distinguere le parole, ma il tono sembrava disteso, forse anche allegro. Gli parve di sentire lo scroscio di una risata. Buon segno, no? si disse. Chissà se era davvero un buon segno. Aveva sentito storie… Non era poi una cosa così insolita, quello che gli stava capitando, aveva sentito di altri. Tanti altri. E quasi sempre piccoli come lui. Si dicevano cose terribili. Si diceva…
Cercò di scacciare il pensiero e l’immagine atroce che l’accompagnava, e di colpo riprese coscienza dell’odore. Non che fosse proprio cambiato, solo era più sottile, meno… grasso, ecco. Come più lontano, anche. Ma forse si stava abituando, semplicemente. Proprio vero che ci si abitua a tutto, come dicono. Comunque gli sembrava meno spaventoso, ora. Forse erano proprio le voci, che lo distraevano. Ora erano molto vicine, abbastanza da distinguere qualche parola, ma non scherzavano più. Sembrava che parlassero di lavoro, di orari. Sentì dei numeri, un nome. Era il suo. Il cuore gli balzò in gola. Si spinse sotto la coperta, mentre la porta si apriva e la luce frugava il pavimento e gli si fermava addosso.
- Eccoti qua. Vieni, che andiamo a fare un giro.
La voce dell’uomo aveva un suono strano. Era come se non fosse vera, come le voci della televisione.
- Andiamo a bere, non vuoi bere? E magari anche a mangiare qualcosa, che ne dici?
Le parole erano buone, ma la faccia dell’uomo non era buona, e neanche le sue mani. Erano grosse, le sue mani, e si avvicinavano troppo.
Si strinse ancora di più nell’angolo. Tremava di nuovo, e non riusciva a smettere. Fissava le mani come ipnotizzato, le dita sgraziate che si tendevano verso di lui, i peli scuri sul dorso.
- Su, muoviti, che ti aspettano. Non vogliamo farci aspettare, vero? Non avrai mica paura, no? Non c’è niente da aver paura.
Mentre parlava, l’uomo si avvicinava sempre di più. Quando gli strappò la coperta di dosso, successe. L’aveva trattenuta troppo, la pipì, e adesso gli era proprio scappata. Lo sapeva che non lo doveva fare, e infatti di solito si comportava benissimo. Anche se era ancora piccolo aveva già imparato. Ma la luce della torcia, lo strappo alla coperta, forse anche il freddo, chissà. Si vergognava tanto. Dove prima c’era la coperta era tutto bagnato. Si spostò un po’ in avanti, ma l’uomo se ne accorse lo stesso.
- Che cos’hai fatto, schifoso, che cos’hai fatto, eh? Ha pisciato per tutta la stanza, e adesso lo sai a chi toccherà pulire, eh? Maiale! A me, toccherà, a me! Pulire il tuo piscio schifoso!
Teneva gli occhi bassi e così non lo vide arrivare, il calcio. Ma lo sentì, altroché. Un altro calcio duro dello zoccolo nei fianchi, come quello di prima, che gli faceva ancora male. Il primo insieme alle parolacce, tante che non aveva mai sentito. Poi altri. Due, tre, quattro. Lui cercò di rannicchiarsi, di offrire meno spazio ai colpi. Finché l’altro uomo intervenne.
- Basta, lo sai che lo vogliono in buone condizioni. Se no non gli serve, e non ce lo pagano. Vuoi buttare via tutto il lavoro di stanotte e i soldi?
- Ringrazia, guarda, ringrazia! - disse l’altro. Non fosse che i soldi mi servono, mi levavo una soddisfazione, mi levavo. Gli facevo sputare l’anima a calci, io. Così imparava, a sporcarmi tutto in giro, il maiale.
I calci finirono. Ora si avvicinavano in due. Lui non sapeva dove guardare. Quando guardava da un lato, un uomo si avvicinava dall’altro. Ora li aveva addosso tutti e due. Uno lo prendeva per il collo mentre l’altro lo tirava su. Riuscì a divincolarsi e reagì d’istinto. Non è che volesse proprio farlo, gli venne così, senza pensarci. Non l’aveva mai fatto, prima, con nessuno. L’uomo urlava.
- Mi ha morsicato! 'Sto bastardo mi ha morsicato, guarda! Ma io…
L’altro uomo lo teneva stretto, cercando di calmare il suo compagno e di evitare che ricominciasse con i calci, o magari con i pugni.
- Basta, piantala. Avevi solo da non prenderlo a calci. Piccolo com’è, che cosa vuoi che ti abbia fatto. Portiamolo su e facciamola finita.
Su per la scala stretta smise di agitarsi, ma tremava ancora. Cercava di tenersi lontano dall’uomo dei calci, lasciava che le braccia dell’altro lo tenessero forte, schiacciato contro il vestito chiaro. Aveva paura che se gli fosse sfuggito di mano l’avrebbero picchiato di nuovo. Vedeva la fusione grottesca della sua ombra con quella dell’uomo ondeggiare alla luce fioca, spezzarsi in angoli grigi tra la parete e i gradini.
Alla fine della scala c’era una porta di metallo. La stanza era tutta bianca, con le piastrelle pulite e il neon che accecava, dopo il buio di sotto e la luce smorta delle scale.
Appena entrato lo sentì di nuovo. Ora l’odore era fortissimo, gli scendeva nella gola come una pasta viscosa. Si sentiva soffocare. Non voleva farlo, ma prese ad agitarsi. Non riusciva a stare fermo. Era terrorizzato, anche se non sapeva perché. Voleva andarsene, fuggire via dal bianco delle pareti e della luce. Scivolò tra le mani dell’uomo che lo teneva. Stava per cadere. Bestemmiando l’uomo lo riprese al volo, lo strinse più stretto e lo mise su una specie di letto alto rivestito di plastica scura, e lo teneva fermo schiacciandolo con il suo peso, mentre l’altro gli faceva passare addosso le cinghie che lo premevano contro la plastica fredda. Quando sentì il peso dell’uomo sollevarsi, provò a muoversi, ma riusciva appena a girare un poco la testa di lato. Nient’altro. Era completamente immobilizzato, soltanto il tremito continuava, inarrestabile. Si sentì gemere di nuovo, ma piano. Non voleva farsi sentire, non voleva che lo picchiassero di nuovo.
L’uomo che si avvicinava era vestito di bianco e aveva i guanti e una siringa in mano. Sopra la mascherina chiara gli occhi erano calmi e freddi. Una ciocca di capelli scuri con qualche filo grigio gli ricadeva sulla fronte uscendo da una specie di cuffia dello stesso colore del vestito. Quando si fermò accanto al lettino vide l’ago penetrare nella fialetta e la siringa diventare scura.
Spinse con tutte le sue forze, ma le cinghie erano strette. Allora iniziò a muovere convulsamente la testa, di qua e di là, sbattendola contro la plastica fredda del lettino, gli occhi spalancati nella luce bianca, mentre il tremito continuava a scuoterlo. Un gemito lungo e acuto gli uscì dalla gola quando l’ago gli entrò nella carne, ma l’uomo non ci fece caso.
Poi fu come se un peso enorme lo tenesse schiacciato. Non si sentiva più tremare, non sentiva più il premere indifferente delle cinghie. Non poteva nemmeno più muovere la testa, bloccata di traverso all’estremità del lettino, voltata di lato. Si sentiva allo stesso tempo leggero e pesante. Gli occhi gli bruciavano, ma non voleva chiuderli. Riusciva a vedere soltanto un angolo della stanza, la parete con le piastrelle bianche, un mobile basso con una bilancia, uno specchio.
E l’odore che continuava.
Gli sembrava addirittura di vederlo, ora, stretto in spirali ondeggianti nel chiaro del neon, come un fumo tra il nero e il rosso scuro che si muoveva indolente, deviato dagli spostamenti dell’uomo, dal fiato che usciva dalla sua bocca sotto la stoffa chiara. Sembrava venire da un punto preciso della stanza: la parete, l’angolo, lo specchio sopra il mobile. Ecco, sì, lo specchio. Rifletteva le volute grasse, i movimenti pigri dell’odore-fumo nell’aria. Il punto esatto da cui proveniva non poteva vederlo, era sul lato dietro il lettino, riflesso di sbieco dallo specchio, ma vedeva la nuvola rossastra alzarsi nel vetro, spandersi lentamente verso l’alto. Era insopportabile. Gli venne da tossire, credette che avrebbe vomitato. Un gusto acido sgradevole gli riempì la gola, ma non successe nulla.
Sentì il lettino muoversi sotto di lui. Il neon ora era proprio sopra, accecante, ma la prospettiva era cambiata. La tosse gli aveva fatto muovere la testa di un poco, qualche centimetro soltanto, ma abbastanza da poter respirare meglio. E da vedere più in là. Ora poteva vedere bene la parete prima riflessa nello specchio. L’angolo, il mobile con la bilancia.
E il sacco nero. Si rese conto che l’odore veniva di là. Poteva vedere i gonfi anelli rossoscuri striati di nero che si allargavano verso il soffitto, che ricadevano strisciando lungo le pareti, insinuandosi tra la porta e il mobile, tra lo specchio e il suo corpo immobilizzato sul lettino. Era terrorizzato. Cercò di premere il naso contro la plastica nell’illusione di fermarlo. Si accorse che gemeva di nuovo. Ma forse non aveva mai smesso. Non riusciva a distogliere lo sguardo dall’imboccatura mal chiusa del sacco nero sul mobile. Con uno sforzo tremendo riuscì a spostare ancora un poco la testa di lato.
Tra i riflessi bluastri del neon, sulla plastica spuntava qualcosa di chiaro. Macchie dense scure su una massa inerte. Era sicuro di non averla mai vista, non la conosceva, però aveva qualcosa di familiare.
Di colpo, capì.
Una scarica gli attraversò il cuore, sentì la gola secca, lo stomaco contrarsi in un crampo atroce. Folate acide dell’odore lo assalirono, ancora più forti. Il buio del sacco sembrò entrargli negli occhi.
Non vide l’uomo che si avvicinava con qualcosa in mano.
Quando tutto fu finito, l’uomo in bianco si tolse i guanti sporchi e la mascherina e li gettò nel secchio. La cosa sul lettino non si muoveva. Le gettò uno sguardo distratto e si rivolse all’altro che aspettava in piedi sulla porta.
- Beh, anche per oggi è andata.
L’altro sembrava imbarazzato. Parlò senza alzare lo sguardo, spostando gli occhi dal pavimento alle pareti, al lettino dove il suo compagno stava slacciando le cinghie ormai inutili.
- Senta, dottore: mi spiace, ma… potrebbe farmi un’antirabbica? Sa, non era mai successo prima, ci sono sempre stato attento, ma questo bastardino sembrava così piccolo e… insomma, mi ha morso.
©
Euro Carello
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