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Il triangolo dell'obbedienza
1.
I parenti manifestano l'intenzione di vedermi. Un tempo credevo facessero sul serio, e mi attivavo, oppure mi mettevo in attesa, a seconda dell'umore. Entrambe le cose, se il mio spirito era altalenante.
Ero il solo ad attivarmi, però. Così, dopo qualche ora, o giorno d’attesa, mi spegnevo da solo (autoestinzione, si dice). E loro di tanto in tanto continuavano a manifestare, ma in ultima analisi a non vedermi. Benissimo.
Questo aveva un paio di conseguenze: la prima è che restavo solo (relativamente, s'intende, non si è mai soli come in mezzo alla folla, oppure, come capita per esempio ai morti viventi si muore da soli, ma si ritorna insieme per esigenze cinematografiche) e la seconda che dovevo trovare qualcosa da fare.
Dal cinema a me stesso, il passo è breve: io colleziono foto. Cioè: non foto a stampa, non su carta Kodak, che le potete guardare, appendere, ed anche strappare e accartocciare, se volete (anche se non credo ve lo permetterei: ognuno si accartocci le proprie, di foto). Archivi elettronici di foto, insomma…fail (ve lo scrivo così perché sto cercando di dimenticare il mio inglese, ma insomma un fail è un archivio, un documento, oppure una lima, specie se siete archeometallurgisti). E comunque vorrebbe essere l'ultima parola inglese, anche scritta in italiano, che affido a questo mio diario.
Le foto mi piacciono, il cinema no: al cinema mi addormento dopo meno di un quarto d'ora (in ogni modo non ci vado più da anni). Le foto mi piacciono talmente, che tengo anche delle foto di scena, di quelle prese al cinema, quando le scattavano ancora. Ora mi sembra si vendano solo calendari, ed a me i calendari ricordano il tempo che passa, e ci sia su una montagna del Cadore, una donna nuda, un fiore, o magari una donna nuda con un fiore su una montagna del Cadore, il tempo non si ferma (neanche per la modella), e io mi intristisco. Ma le foto di scena no: quando c'erano, le foto di scena erano patinate, bellissime, ti aprivano un mondo di sentimenti, di azioni, di meschini eroismi e di grandiose viltà.
Solo foto in bianconero: se mi arriva qualche archivio a colori, lo trasformo in bianconero, ed il calcolatore mi spara delle frasacce orribili: "Sei sicuro di voler cambiare la foto da colori a bianconero?", ed io lo guardo rassegnato, a volte gli faccio la linguaccia, povero cretino.
Quante ne avrò? Sicuramente più delle donnine del catalogo di Don Giovanni, e sì che lui non andava tanto per il sottile, mentre io scelgo, valuto, scarto, e anche taglio, se del caso. Una mezza foto affatto potente può venir fuori da una foto intera del tutto anodina. E' anche vero, poi, che le foto digitali non valgono quelle belle foto sviluppate al buio e appese ad asciugare con le mollette sopra la vasca da bagno: le foto digitali sono un insieme di punti elettronici, quelle sopra la vasca un miscuglio di mezzi punti, di barlumi di punti luminosi, insomma di sfumature. E a me piacciono le sfumature, nelle foto, m’incuriosisce se per esempio si vede se l'attrice ha l'orologio Omega, il Rolex o lo Zenith, o uno di quelli senza marca che vendono in spiaggia e che fanno più figura di tutti. Se sia bella o brutta, non lo so, e non mi interessa. Sono anni che ho la libido di un nasello al forno (dev'essere che non vado più al cinema).
Ma dicevo dei miei parenti. Vi risparmio la vexata quaestio, o se volete la logora considerazione, che i parenti uno non se li sceglie: li trova già confezionati, e pronti per l'uso. Spesso non bisogna neanche sciacquarli, un po' come le insalate delle bustone, anche se magari è meglio dar loro una ripassata sotto il rubinetto, perché possono mandare un sentore di varechina industriale né più né meno come il soncino dell'ipermercato. A me i parenti stanno un po' sullo stomaco, ma solo poco poco: ho uno stomachino piccolo, da scriccioletto, e loro sono tanti, per cui la mia antipatia è soltanto lieve, blesa, e sottile come un'ostia.
***
"Sono convenuti alla mia presenza i signori Berardinelli Lanfranco e Della Robbia Luciana, coniugi e residenti in via delle Mortelle 27, in questa città, e della cui identità sono certo, allo scopo di sporgere denuncia per i fatti verificatisi domenica 18.12.2005, in località Belpiano, dove i suddetti Berardinelli e Della Robbia, si erano recati in gita di piacere. Berardinelli (A.D.R.) afferma aver incontrato un individuo che, senza alcuna ragione né apparente motivo, li ha aggrediti, minacciandoli con un oggetto contundente, poi lasciato sul luogo, e risultato un cucchiaio di legno da polenta. Della Robbia (A.D.R.) conferma trattarsi, come già individuato da indagini condotte da questa stazione C.C., di suo lontano parente, tale Magnozzi Domenico, che la suddetta afferma non aver incontrato almeno negli ultimi dieci anni, benché ella ed i suoi familiari non avessero in alcun modo interrotto i contatti col Magnozzi né alcun motivo di malumore (A.D.R.) potesse esservi col suddetto"
"Tanto è vero che lo invitavamo a tutte le nostre riunioni di famiglia, ma lui non veniva mai. Dico mai"
"D'altro canto, signora, mi permetta: se l'incontro è risultato in un'aggressione non premeditata, un qualche dissapore doveva pur esserci"
"Non che io sappia: se Mimmo è rimasto da solo, è perché lo ha voluto per una vita"
"Ti pare che puoi chiamare Mimmo uno che ti stava prendendo a legnate"
"Domenico, Mimmo, che ti devo dire, si chiama così, come vuoi che lo chiami"
"Con te non si ragiona"
"Ora vi pregherei di leggere la denuncia completa, e di firmarla, se ritenete che null'altro vada aggiunto"
"Cose da aggiungere ne avrei una vagonata, a cominciare dal suo strano modo di vivere, ma è meglio piantarla lì. Tempo perso"
Le penne corsero sulla carta protocollo, e tutta quella storia imboccò una discesa ripida e sfrenata.
***
Angelica era una che aveva un bloc notes elettronico in rete, ed era divorziata. Era stata anche attrice, ed aveva fatto i conti col proprio passato. I conti erano inutili e sbagliati, ma facendoli per la millesima volta si era incontrata con me.
Che era stata un’attrice si vedeva, non perché fosse ancora bella, e poi non è questo il punto della questione. Per me, di lei restava soltanto una specie di ologramma sfocato, e le gambe da ragazza, come ad incorniciare una locandina. E naturalmente le foto di scena, che poi furono il motivo per cui la contattai: il numero lo trovai sulla rete, facendo strani giri (tanto non avevo nulla da fare, tutto il santo giorno, o se non altro niente che interessasse loro).
Prima di lei, conobbi la sua foto, la trovai in una pagina anonima "senza titolo" come si dice in rete, ma ne rimasi colpito. Di più: folgorato.
Era una ragazza con una specie di prendisole, o camicione, bianco, e con degli occhi chiarissimi, tesa come una lepre prossima ad esser catturata, sospesa, come aggrappata, su acque probabilmente limacciose e venefiche, nella cesura bluastra tra due scogli. Il corpo non era del tutto sdraiato, sembrava colto nel momento di scattare per un'ultima corsa disperata, ma stanca e senza dubbio inutile. Anche perché i capelli erano fradici, davano la sensazione di gocciolare, noncuranti, erano fermi e mossi nello stesso tempo, ed anche lei c'era e non c'era, si voltava a guardare qualcuno che l'aveva già afferrata, e non con intenzioni benevole, ma il pensiero era già lontano, nel fondo di quegli occhi distanti.
Una grande attrice, pensai. Non la trovai bella, per farlo avrei dovuta rapportarla a qualcosa, a qualcuno, e secondo me la ragazza dello scoglio era assoluta, o almeno così la percepii. Misura del tutto.
Ma non avevo idea di chi fosse.
***
"Interdire, interdire, che parole grosse! Prima di tutto, va considerato che scopo legale dell'interdizione è quello di impedire la dissipazione del patrimonio, nell'interesse quindi precipuo, se non esclusivo, dell'interdetto stesso"
"Lanfranco, non partire per la tangente: l'interesse deve essere il nostro, altrimenti che lo facciamo a fare?"
"Già, già: lo so che tu non sei tecnica, non sei pratica…Poi, figurati, la sera a letto…"
"Quanto al letto, non è che neanche tu sia eccessivamente pratico ed efficiente…"
"Luciana, ti prego, cerchiamo di restare al quia"
"Adesso fai pure il manzoniano…"
"O meglio al de cuius, magari. E comunque, il tipo in questione è un tuo parente, come ci tengo a sottolineare con ogni forza"
"E quindi?"
"E poi un figlio l'avrei…prodotto, diciamo, se tu avessi voluto"
"Ma guarda se uno con un paio di lauree deve arrossire dicendo che si è chiavata la moglie"
"Beh, io arrossisco, ma tu non brilli per eleganza"
"Chiavata la consorte va bene?"
"E poi chiavare viene da chiave, quindi dai tempi della cintura di castità"
"Io non ho bisogno di cinture, lo sai: pratico da sempre, con te"
"Torniamo al quia? E ti prego di non urlare"
"A quello che ti pare…anche al decubito"
"Dai, amore, spegni l'abat jour, che mi concentro"
"Sì, bravo, nel sonno. Ma guarda se dovevo sposare un avvocato pigro"
Quella notte Luciana sognò di uscire dalla chiesa sottobraccio a qualcuno, che poteva essere ancora una volta Lanfranco, ma non ne era sicura. La folla le tirava bulloni, come per protesta, che cadendo si sfarinavano e friggevano come granelli di citrato sul porfido bagnato. O forse era il nevischio.
***
Quando l'ho incontrata, non era più una ragazza, solo un infelice sorriso affacciato su una bottiglia di vodka azzurrognola. Alcolizzata evidentemente.
"Angelica?" chiesi inutilmente. Non si sforzò di rispondermi: mi schiaffeggiò e prese a ridere, poi si piegò in due e la vodka cominciò a colare insensibilmente dalla bottiglia sul marciapiede, e dal marciapiede sulla strada. Persi di vista il sottile rigo bagnato solo passata la linea bianca: Angelica era in ginocchio, ma non mi supplicava.
"Andiamo a casa" dissi.
"Casa tua?"
"Non mi sembra molto produttivo, conciata come sei inciamperesti anche in un quadro"
"Io casa non ce l'ho"
"Credo di sì, invece, ed ora mi ci porterai. Ho la macchina qua dietro"
"Non serve, è qui di fronte"
Sulla macchina avevo barato, e anche sulla mia sicumera: in realtà poteva essere benissimo senza fissa dimora, questa città è piena di donne senza cognome, cacciate di casa dalla nuora, dallo sciame sismico o forse soltanto dalla noia. Beh, piena: diciamo che ne ho conosciuta qualcuna, così non mi sarei stupito. Ma la ragazza dello scoglio una casa doveva averla, se ce l'ho anch'io che sono matto.
***
"Perché sa, signora, se il tipo non viene, non collabora, noi non possiamo farci nulla, proprio niente signora. Se fosse un extracomunitario, magari che ha alzato un po' il gomito, o, che so, un violento, un noglobal, un dimostrante, ci sarebbe il modo di convincerlo con le buone maniere, rompendo qualche manganello, sparando qualche colpo in aria, nel senso di non in terra, e fingendo qualche incidente. Ma mi spiace, matti e tifosi...non c'è niente da fare. Anzi, matti è peggio, perché bisogna chiamare lo psicologo, che per prima cosa dice che matti siamo noi, cioè noi e voi, a meno che…"
"A meno che…"
"Voi non abbiate la prova provata, insomma con le carte ed i bolli, di non essere matti"
"C'è qualcuno che ce l'ha?"
"Qui non so…"
"Voglio dire: al mondo"
"Al mondo esiste tutto: basta pagare"
Luciana si era cacciata in un angolo cieco del discorso: non che non avesse soldi, ma aveva sempre risolto le cose altrimenti. I soldi le erano sempre sembrati poco più che dei segni d’interpunzione, dei punti e virgola tesi sulla frase come falene estive intorno ad un riflettore. Si potevano togliere e mettere a piacimento, ed il discorso sarebbe cambiato poco. Purtroppo il capitano sembrava non condividere alcuni aspetti essenziali della sua visione delle cose, che era l'unica autorizzata da lei, ed incidentalmente quella giusta, primo tra tutti la necessità dell'uso della forza per ridurre al silenzio ed all'impotenza Mimmo. Se poi malauguratamente ci avesse rimesso le penne, pazienza: non mancavano squilibrati al mondo, e poi quella slavina di suo cugino aveva una funzione sociale ridotta, all'incirca come quella di un cerbiatto sotto al traforo del Tritone all'ora di punta. Anzi meno, magari si faceva il tempo a fotografare il cerbiatto col telefonino, prima che fosse travolto. Ma Mimmo che lo fotografavi a fare?
***
Mi sono comprato un auricolare per parlare da solo. Lo infilo nella tasca del cappotto o dei calzoni e poi parlo a bassa voce a me stesso. Non c’è bisogno di forzare i toni, io sono un ottimo ascoltatore, specie se so di cosa sto parlando. Così tutti pensano che stia lavorando a qualcosa di serio ed importante, a preparare una conferenza a distanza, per dire. Cosa strana, in ogni caso, perché in Italia non si fa mai niente a distanza: vogliamo il contatto, anche se il contatto fa schifo (perché a volte, cari voi, è innegabile che lo faccia: per dirne una, sono sicuro che non vi siete lavati da parecchio; anch'io mi lavo poco, ma almeno strategicamente).
Non sono misantropo: è un lusso che non posso permettermi. Misogino poi, figuriamoci: poverine le donne a dover sopportare quelli come me (e non sono l'esemplare peggiore della specie, ad ogni modo).
Quanto mi piace stare all'estero, voglio dire un estero serio, non la Francia o la Spagna, quell'estero dove non vi capiscono per davvero. Lì posso parlar solo, anche senza telefonino, posso insultare mezzo mondo, e nessuno capisce quel che dico. Ma io non insulto per cattiveria, sibbene per comprensione. Se non li insultassi, dovrei girare con la mazza ferrata, che pesa un accidente, e poi qui siamo tutti gente per bene, e queste cose non si fanno.
Tanto per dire che quando entrammo in casa, io non mi curai nemmeno di rimuovere i giornali e le tazze ancora umide di zucchero rappreso e le ciotoline dei cereali della colazione della mattina: pesantuccia quella, perché sentivo che sarebbe stata una giornata di quelle; lei non obiettò nulla, aveva principalmente bisogno del Peppe per vomitarci in stile. Io lasciai fare, e mentre laggiù qualcosa tuonava, presi il Cif, la papera ed il mocio col secchio e con quel piccolo esercito di sbandati mi appostai dietro la porta; a tre metri, tre metri e mezzo, perché non si dica che volevo imbarazzarla: sono sensibile io, e poi la porta era semiaperta (capisco che per lei questo avesse un'importanza relativa).
Era stata educata invece, e questo mi sorprese: i soldatini del mio esercito mi guardavano non so bene se contrariati o sollevati. Io ruppi le righe e venni ad ascoltarla, immaginando che avesse qualcosa da dire.
***
Luciana non pensava che potesse finire così. Bisognava far qualcosa, qualunque cosa, anche sbagliata se necessario.
Si riunivano, quando si riunivano, in chiesa, per delle messe in suffragio di qualcuno, qualcuno che nessuno si ricordava più, e che sicuramente il suo purgatorio l'aveva già trascorso. Comunque il suffragio non basta mai, un po' come l'orzata su una terrazza a ferragosto. Luciana sedeva al primo banco, e guardava col terzo occhio che tutti si schierassero a falange, riempiendo la croce greca di scalpiccii e colpetti di tosse da concerto da camera. Lanfranco era impeccabile, lustro ed azzimato. Luciana si sentiva bella, più che esserlo; esserlo non serve, basta che gli altri ci credano, è una pura questione di autostima. Aveva anche speso cento euro di parrucchiere per ribadire il concetto.
Poi era successa quella storia abbastanza odiosa di sua cugina: Giulia aveva scritto un romanzo, uno di quegli scritti claustrofobici e granulari che piacciono a molti giovani perché ritraggono la vita che pensano di aver fatto, quando erano ancora studenti. E l'aveva portato, sicché pure Don Cosmo aveva potuto sbirciarlo dal fondo degli occhietti malati, ma non tristi.
Luciana avrebbe tollerato anche un discorsetto teologicamente traballante, qualcosa che avesse piazzato i Gàlati dove ci stavano gli Ebrei e messo il ragno al posto della cavalletta, biblicamente parlando. Ne aveva sentiti tanti, accompagnando Lanfranco in periferia, quando si era messo in politica con una delle ramificazioni del partito disceso dal fiume regale, secondo quel papa concreto. A spartirsi come poiane gli ultimi palazzi e le indecenti prebende della loro storia cinquantennale, il regale aveva ceduto al regalo, ma pazienza! L'unica parte del parto di Giulia che Luciana era riuscita vagamente ad occhieggiare era la quarta di copertina. Ma se l'inizio si vede dalla fine, com'è giusto che sia, quel libro doveva essere una porcheria. In stile con Giulia, in ogni modo, e con le sue improbabili giacche a vento bluastre e sudaticce.
Era il momento di riaprire il discorso su Mimmo: Luciana non faceva mistero di voler essere misteriosa, criptica, alchemica. Non ci si mette un tailleur verde di Frette ad una messa feriale per gioco, tantomeno per un marito: Lanfranco aveva sempre dimostrato di gradirla altrimenti. Poco, ma altrimenti. E senza chiavi.
***
Hertzsprung è il mio tipo: uno che mette le stelle al loro posto, ma pensa di non aver fatto che il suo dovere, e pubblica i risultati in una rivista fotografica, senza un disegno, uno schizzo, forse pensando che basta nome ed indirizzo dell'autore nell'en-tête per esser contattati. Credo avesse anche qualche pinta di birra sotto ghiaccio per una notte di discussioni cosmologiche. Mi seduceva l'idea della relazione tra l'astronomia e la fotografia, così mi sono provato a spiegarlo ad Angelica, e le ho tracciato pure un diagramma sulla carta unta della rosticceria, proprio tutto tutto fino alle nane bianche e ci ho messo anche Rigel (R) e Betelgeuse (B), oltre che il sole (S), ovviamente. Perché dopo la faccenda di Peppe e del mocio, ci siamo presi dei tranci di pizza e delle olive ascolane, tanto ormai aveva rimesso quel che doveva, e quindi poteva riprendere l'assunzione di cibarie. E lei non mi ha preso per matto (sbagliava); mi guardava, un po' barcollante, come se fosse malata, e d'un tratto avevo capito che era una delle mie foto di scena, quella della ragazza sullo scoglio. L'ho capito dagli occhi, che erano sempre quelli, ma per allora ho taciuto. Anzi, ho insistito dicendo che Hertzsprung, il danese, aveva avuto la sua scoperta contesa da un americano. C'è sempre un americano che ti frega l'idea: era successo a Meucci, è successo al tipo del cembalo scrivano, che al momento mi sfugge, come al danese fotografo. Questo nell'Ottocento. Più avanti, nella storia, gli americani hanno fatto in modo che le idee buone le avessero soltanto loro, e che gli altri si arrangiassero con quelle cattive.
Intanto le guardavo le iridi, forse dovevo sembrarle uno di quelli che ti fissano con intenzione, ma è logico che quando uno ha cinquemila foto, e ti capita in casa una delle più belle, non si può restare indifferenti. Anche perché volevo riflettere se ne avessi un'altra, di lei. Mi sembrava di no, ma me ne restano ancora quattrocento da classificare.
2.
Giulia dapprincipio non aveva nessuna intenzione di collaborare sulla faccenda che stava tanto a cuore a Luciana, anzi chiarì che le sarebbe piaciuto se tutta quella storia di Mimmo non fosse stata vera, come le aveva già spiegato al telefono. Aprì il libro a pagina 57, dove c'era una storia abbastanza squallida di un lui e di una lei che se la tirano a letto, perché in fondo bisogna arrivare oltre pagina 200, ben oltre se si vuole avere un mercato all'estero, tipo nel Canton Ticino, dove piacciono i termini desueti ed andar un po' lunghi, anche col caffè.
Don Cosmo le aveva sussurrato con quella voce scarrucolante da tre pacchetti al giorno: "Tu sei un'artista, si vede".
Sì, un'artista, trasgressiva: e le faceva perdere tempo. Non voleva che il resto della truppa si allontanasse, così Luciana prese una decisione coraggiosa. Si mise sbieca, insomma frisa, a cavallo del sagrato, tenendosi il cappello da torero, però verde, come per salvarlo da un vento immaginario che la risucchiava sull'orlo di un crepaccio (ma nemmeno il crepaccio c'era). E disse, a tutti ed a nessuno: "Se ci prendessimo qualcosa?"
La domanda cadde nel silenzio: Luciana non aveva mai offerto altro che un sorso di compassione, qualche goccia di commozione e, nei casi peggiori, una cascatella di rimmel giù per le gote, generi non commestibili e ad ogni buon conto gratuiti (anche il rimmel glielo aveva regalato Lanfranco. Senza saperlo, ovviamente. Una firma falsa alla volta, con metodo; comodo avere la stessa iniziale del nome, poi doveva trovarlo ancora uno che le rifiutasse una carta di credito: anche lì, questione d'autostima). Ad ogni buon conto, un po' di stupore era giustificato. Era disposta ad accettarlo, e forse per vincere ci sarebbe stato da sparare il colpo di grazia. Era pronta.
Invece, quella gatta in calore di suo fratello Ernesto intervenne con brio perfino esagerato, date le circostanze (che diamine, era una messa in cordoglio, un cordoglio antico, ma ancora sentito, almeno formalmente): "Ragazzi, dato che è il mio compleanno, offro io".
Spostarono tre tavolini, accomodarono undici sedie, cacciarono un paio di piccioni che non avevano un posto migliore per tubare ed accartocciarono un po' di tovagliolini di carta, con sottile ma persistente reprimenda al cameriere che non era accorso a passo di carica, come velatamente richiesto. Infine presero posto, Luciana al centro della falange, ora disposta a ventaglio. Manovra avvolgente.
Ora si trattava di trovare qualcosa da dire, ma Giacomino, l'altro suo fratello, quello che aveva l'espressione di Topo Gigio tra le gambe delle Kessler, li tirò d'impaccio. Aveva letto quella roba del loose change, del fatto insomma che le torri gemelle le ha fatte tirare giù il governo (si sa che da quelle parti non badano a spese neanche al cinema, pensa un po' nella realtà).
A Luciana degli americani non importava nulla, e gli unici complotti che destavano il suo interesse passavano per un'alcova, però l'idea che qualcuno potesse aver concepito una storia del genere la mise di un buonumore finto, perciò irrefrenabile. Tirò fuori uno pseudo-cachinno in do sopracuto da far stramazzare anche un turista bavarese.
"Perché capite" disse Giacomino con voce stridula, innalzandosi al di sopra del proprio colorito grigio topesco, attualmente tutto istoriato di venature rossastre da politico sotto elezioni "le torri erano state assicurate per una cifra e poi, giorni dopo, per il doppio. E negli aerei bruciati hanno trovato i passaporti dei dirottatori. Intatti"
"Ma non erano nel cruscotto della macchina?" chiese Lanfranco, che si era perso. Lanfranco era capace di perdersi anche tra le lenzuola, il che era utile quando Luciana non ne aveva voglia.
"Quelli erano i passaporti del Pentagono. Sto parlando di quelli che sono caduti accanto alle torri. E poi, scherzi, le strutture di acciaio inox, quelle resistono a 1000-1500 gradi"
"Già" intervenne Felice "nemmeno Giulia è mai riuscita a fondere una padella. Vero, amore?" Ma il suo amore era ormai imballato a norma di legge nella giacca a vento modello nouveaux philosophes, e non ascoltava più nessuno (figuriamoci un marito qualunque, anche lievemente giù di voce).
Le torri avrebbero continuato a bruciare a lungo per le esplosioni che Giacomino stava loro infliggendo, piano per piano, quasi con gioia sadica, se Luciana non avesse intuito che il momento era giusto per piazzare il fendente decisivo. Spianò con voluta noncuranza le incredibili gambe all'interesse generale, per quanto parentale, e disse, aprendo una cartellina che finora era stata in ombra: "Non ci sono derelitti soltanto da quelle parti, ed a volte, sapete, non servono esplosioni. La follia è in fondo, specie quella inconsapevole, la vera malattia del secolo" Sbirciò Giulia ancora una volta, ma le sembrava quasi che dormisse: Luciana andò dritta per la strada lastricata di buone intenzioni, quella che va all'inferno, è vero, ma vuoi mettere con quei sentieri infossati di borgata che portano in Paradiso? E poi, per dirla tutta, se in Paradiso ci vanno i nostri parenti in fila indiana (e Luciana non osava supporre il contrario) dev'essere, con tutto il rispetto, un posto ben noioso…
***
Negli ultimi ottanta o cent'anni l'universo non ha fatto che allargarsi: dalla Galassia ai gruppi di galassie fino ai bordi di questa specie di specchio piatto ed uniforme. Ed io pensavo, dato che di pianeti come il nostro ce ne saranno un milione, forse un miliardo, e noi abbiamo avuto una Rivelazione, sarà mica che ci sia una rivelazione per ogni pianeta extrasolare. E mi sono allontanato un po', per motivi puramente cosmologici: peccato perché Gesù mi piaceva. Dio, devo ammettere, non lo capisco granché, ma l'idea di Uno che ti venga a salvare, che ti liberi dall'ansia e dall'angoscia, faccia promesse precise e chiare e le mantenga, mi entusiasmava. Se tornasse, avrebbe il mio voto.
Però sulla faccenda delle migliaia di mondi mi ero perso, e non riuscivo a pensare che in ognuno vi fosse un Gesù. Sono arrivato alla fine della storia, ancora perplesso, ed ho trovato la teoria antropica, il fatto cioè che nessuno (né tantomeno io) possa spiegare perché l'universo sia così. Ci potrebbero essere tanti universi incompatibili con la vita di noi poveri mucchietti di carbonio risonante, ma invece c'è questo, ed è fatto a puntino per noi, come l'uomo per me di cui urlava Mina, se mi passate il paragone (che non è irriverente, perché avrò problemi ai denti, ma rispetto anche gli scarafaggi, figuriamoci l'universo). E se è fatto per noi, qualcuno l'avrà fatto per noi, Qualcuno che io non capisco bene, però ha mandato un Altro, che ha chiamato Figlio: e del Figlio posso fidarmi. So cosa voleva dire, in riva al lago, sulla montagna o nel giardino di sera che fosse. E poi, quando c'era Angelica mi rendevo conto che magari di mondo me ne bastava uno solo, o che le migliaia di Terre erano tutti abitate dalla stessa gente, un po' come entrare al bar degli Specchi e passare da una sala all'altra per un'eternità, come se fossero tre milioni e non soltanto tre.
"Dì, di dove sei? Dico davvero"
"In origine, di Milano"
"Milano mi piace, in fondo"
"Beato te. A me fa vomitare"
"D'accordo, ma non adesso. Aspetta che prenda il mocio"
Lei scoppiò a ridere: "Scemo, per vomitare dovrei bere"
"E tu non lo farai più, nevvero?"
"Se mi dai un buon motivo"
"Io sono un buon motivo. Forse scaduto, ma non scadente"
"Però mi sei simpatico"
Non dialogavamo sempre come verso la fine del primo tempo di un filmone sentimentale da quattro pizze. A volte dicevamo cose un po' più serie, od almeno più realistiche: non eravamo i tipi degli innamorati, non associavamo i fiori alle panchine ed a prenotare la chiesa, semmai le panchine ai cartoni ed alla bottiglia, il che dava un colorito sconsolato, diciamo terra di Siena, a tutta la questione. Ma anche le piccole schermaglie da sconosciuti che vanno incontro al proprio destino finivano nel medesimo calderone, evidentemente.
"Ti ho detto di quando ho recitato con Gassman?"
In realtà era stata più incerta, vagotonica, ma credo che alla fine la frase che voleva metter da parte per me fosse questa. Oh, va da sé che Gassman, il mattatore, non l'aveva proprio incontrato: lei aveva fatto la comparsa, discretamente svestita, al gusto dell'epoca, in un'improbabile giallo-rosa, che si sbracava un poco dopo una prima mezz'ora dignitosa, e correva senza requie verso l'immemorabile finale. E poi, era Gassman o Rossano Brazzi?
Insomma, questa era Angelica, quella del prendisole e dello scoglio.
***
Il capitano era in vena di cortesie, forse di confidenze (a volte càpita anche a loro): "Mio padre, quando abbandonò il nostro paese per servire la Patria, per entrare nell'Arma" disse, maiuscolando il timbro di voce "aveva un'idea solida, concreta, direi quasi aspra. Insomma diretta. Sapeva quel che avrebbe avuto, al di là ed oltre alla posizione, al prestigio, all'onore. E non che non lo desiderasse: lo voleva con una tenacia, che in questi tempi frolli di oggi non conosciamo"
Proprio così disse: frolli, come la fesa tagliata sottilissima. Era chiaro che il capitano non era frollo: si limitò ad una sbirciatina asettica e professionale alle celebri gambe e per il resto mirò diretto all'obiettivo.
Lamberto alle sbirciatine era rassegnato: non gli piaceva avere una moglie totem o monile, ma non trovava nulla di indecoroso in una compagna carismatica e apodittica come Luciana. D'altronde, va ammesso che il capitano guardava molto meno di quanto lei mostrasse. Perché non era frollo, certo, ed aveva anche una coscienza del dovere, anche per via di tutta la storia di suo padre e della sua fuga, su suole presumibilmente di cartone, dal paese natio, verso l'Accademia. Era evidente che, nell'ansia di raggiungere il finale icastico e strepitoso, il capitano poteva aver saltato, anche in considerazione del penoso stato delle paterne calzature, qualche passaggio inessenziale della familistica ascesa verso l'Olimpo carabinieristico. Tuttavia, va menzionato il fatto che egli si concedesse uno spirito vagamente operettistico, anche nel raccontare le peggiori sciagure della storia nazionale. Perché suo padre era andato in Africa Orientale nel '40: ma ne era tornato, ed egli stesso ne era la prova vivente. E, da come esponeva la cosa, dava ad intendere che non dovesse poi in fondo essere una cosa così terribile, la guerra. Solo una continuazione dell'avanspettacolo con altri mezzi. Ma era forse soltanto che il capitano non aveva predisposizione al tragico: solo all'incidente automobilistico, ma l'Arma si premurava sempre di acclararlo da ogni addebito, con concorsi di colpa che erano più affollati di quelli per un posto di giardiniere al Comune. E fu in quel momento che Lamberto si assentò verso la toletta, e Luciana decise di giocare il tutto per tutto.
Saper sembrare seducente, non è qualcosa che si improvvisa: è come fare un minestrone con molta verza e pochissimo olio. Luciana eccelleva nel tre quarti con tailleur e gambe a squadra: sapeva di avere gambe non belle, ma pazzesche, come le aveva il suo modello esatto e spiccicato di donna. Per il resto, la sua arte di seduzione, quando riusciva a svicolare dall'innato nervosismo e da una certa atavica cafoneria, portava a risultati sicuri. E il capitano smicciava, secondo le sue origini, e Luciana poteva dare persino le coordinate del suo sguardo gassoso, ma profondo, anzi incarnito.
"Ora, parlando seriamente, io avrei bisogno di aiuto"
"Sono qui per questo, cioè… anche per questo"
"Lei, capitano, è un uomo di legge" disse Luciana, come se si trattasse di non più legger innante, amorazzo da finestra con trifora ed accompagnamento di tiorbe, insomma. Al suo mutar di tono il capitano fu manifestamente sensibile, sicché Luciana, sorridendo superficialmente, proseguì: "E quando le avrò spiegato la faccenda, non potrà dire che non sia una cosa di estremo interesse. Anche per l'Arma e l'ordine pubblico, voglio dire"
***
Così me li sono trovati in casa, con intenzioni non benevole. Furono sorpresi che avessi un portatile, e ancor di più che lo sapessi usare. Io per il fatto delle foto e della classificazione, ma loro, come di tutti quelli che hanno la barba e i capelli vagamente lunghi, pensavano fossi un perverso, probabilmente un pedofilo. Ma poi videro che molte foto erano in bianconero, e vecchie: ed uno, forse il più ingenuo di loro, commentò che era roba che girava su Diabolik. Gli altri due lo zittirono. Quindi ero logicamente matto. Questo non era nulla di strano, conoscendomi, ma complicava un po’ le cose, specialmente perché, per riempirmi di botte, come sarebbe stato giusto ed anche doveroso (sempre per il discorso della Patria e della Bandiera, non dimenticando il capitano), avrebbero dovuto prima farmi visitare da uno psichiatra (lo psicologo, come il loro collega aveva precedentemente supposto, poteva non bastare), che avrebbe potuto arguire che le botte non fanno bene alla salute.
Bailamme, comunque, ne crearono: era un po’ come quando trasferirono la ASL vicino casa mia: camion sotto il balcone, e lancio di oggetti vari, specie cartacei, sfarinantesi sul duro ferro da tutte le finestre sulla strada. Molto Casa del Fascio il 25 luglio. Sicché, quando l’odore di cuoio bagnato e segatura finalmente disparve, io fui costretto a richiamare le truppe, voglio dire il mocio e compagnia: perché una cosa di cui sono veramente maniaco, è la pulizia. Al momento della mobilitazione generale, ritrovai anche Angelica in caserma, voglio dire nel ripostiglio delle scope, spaventata come una bambina, intendo come una piccola cosa tremante. La portai sul letto, abbracciata, e la guardai addormentarsi, sola. Poi tornai all’opera, fischiettando.
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Col tempo, poco tempo, ma sufficiente, il capitano era diventato un amante focoso. A convincerlo, non c’era voluto molto, anzi tutto aveva subito preso una piega naturale, come di quello che attendeva solo un cenno per manifestarsi. Un cenno, qualche scollatura ed un paio di gambe pazzesche, oltre che una certa conoscenza dei mezzi di cui disponeva, tutte cose che Luciana ambiva ad usare sulla strada, scoscesa ma imperterrita, che avrebbe portato all’annientamento definitivo di quel fetente di Mimmo.
Certo, era stata delusa dal sopralluogo dei tre militari, come le era stato descritto dal loro diretto superiore ed incidentale compagno d’alcova, tanto delusa che aveva pensato di recedere dai suoi vibranti propositi. Se alla fine aveva ammesso che forse il percorso più breve verso il coronamento dei suoi sogni poteva passare attraverso un tradimento, non il primo, di suo marito, era stato per motivi estranei allo scopo stesso (perché anche Luciana poteva, se necessario, avere un cuore: non le serviva spesso, ma all’occorrenza era utile).
Tuttavia, allo stringersi del dramma e deposto l’armamentario con la fascia rossa, il capitano si dimostrò efficiente, rapido e ragionevolmente asettico. Specie sulla faccenda del miele, che faceva impazzire Luciana (non è vero il contrario). Luciana pensava che la faccenda del miele derivasse da “Nove settimane e mezzo” (o forse era la Nutella). In ogni modo, la Nutella, oltre che ricordare quell’antipatico regista e pallanuotista con la barba, sporcava molto più del miele. E siccome il necessario complemento erotico ed igienico della divagazione sul miele era la doccia, che forse non sarebbe bastata con la Nutella, Luciana si limitò ad un certo generico, ma invasivo, appiccicaticcio, lasciando la crema cioccolatosa per tempi migliori, o per appartamenti più spaziosi e comprensivi di colf.
Riuscì, il che è degno di nota, oltre che ammirevole, anche a fingere un godimento quasi sessuale, che deliziò il capitano, il quale si concesse una smicciata fuori ordinanza e col botto. Poi, come nel più classico dei film di mafia finanziati da qualche ministero, accese una sigaretta.
A Luciana il fumo fece salire il sangue alla testa: le crebbe dentro il desiderio di insultarlo, forse di picchiarlo, ora che era, o pareva, tanto indifeso e un po’ babbeo, ma poi pensò che la cosa migliore sarebbe stato ferirlo al solito modo, quello che funziona sempre: con le parole.
“Credo” esordì “di trovarmi ora in una posizione, voglio dire in una situazione, insomma…”
Il babbeo fumatore le fece un gesto ecumenico, per farla proseguire fino in fondo, pur consapevole, malgrado le volute da cui il letto era ormai avvolto, che il fondo poteva essere molto oscuro e tetro, uterino magari.
“Volevo dirti di un certo sopralluogo, che è stato, devo confessartelo, sapendo che potrai perdonarmi” disse, fissandolo con intenzione sulla sua nuda realtà “molto al di sotto delle mie aspettative. Perché io ho, come tu saprai, delle aspettative”
“Succede” rispose quello “Ma sbagli” proseguì “Le aspettative sono cose inutili. Aspettare e non venire, come si dice”
Luciana non era arrivata a privarsi (molto momentaneamente, anzi incidentalmente, ma con estrema enfasi) della biancheria intima, fino al dettaglio non ininfluente del miele, per sentire dei proverbi. Nascose come poteva il suo disappunto, e con un sorrisetto appena appena sardonico riprese a mordere l’osso, con l’intenzione di farne cibo per criceti in via di svezzamento.
Poco meno di una settimana dopo ricevetti un’altra visita, questa volta di ben altro tenore. Non Casa del Fascio stavolta, ma rivoluzione d’ottobre. Ma anche da quella, seppur con qualche acciacco, mi ripresi. Tanto che mi permetto di passare ad altro.
***
Il bloc notes elettronico nacque come una conseguenza della teoria ekpirotica, insomma del fatto che l’universo si è allargato di botto e per un botto, anche senza considerare l’inflazione, in breve il rigonfiamento. Ho sempre pensato che il grande scoppio, sapete quello che ha dato origine al mondo (la Creazione, per come la vedo io) sia una delle prove che non ci siamo messi qui da soli, ma che Qualcuno, che io mi ostino a scrivere maiuscolo, malgrado le apparenze ed i guai che le chiese (minuscole) ci creano, ci ha pensato e ci ha mandato qui. E questo fa sì che non riusciamo a spiegare, voglio dire fisicamente, le cose accadute prima di un certo momento, dell’era di Planck, come si dice da quelle parti. Ma anche qualche frazione di secondo dopo, non è che le cose vadano meglio: l’universo si allarga, diventa forse piatto come i rombi su un pallone regolamentare visti da un moscerino, e noi non ci capiamo ancora nulla. La cosa singolare, e bellissima, è che questo Qualcuno potrebbe aver rimescolato le carte in tal modo che anche escludendo l’inflazione, il grande scoppio tenga. E questa voglia di giocare col mondo, questa necessità di confonderci le idee per invitarci ad una chiarezza più alta dimostra che è veramente Dio, non quello dei preti, che sembra un ragioniere e tiene conto del numero delle funzioni partecipate e del numero degli amici e parenti (e calco su quest’ultima parola) con cui abbiamo divergenze, ma un Dio universale, estremo, primo ed ultimo, quello del mio amico Gesù, per intenderci.
Più o meno queste cose dissi ad Angelica, per farle presente che forse avrebbe potuto metter su rete i suoi pensieri, che non erano nulla come pensava, se anche Dio può a volte farci pensare che il suo tutto è un nulla, per invitarci ad un’analisi un po’ più profonda. Lei era un po’ troppo convinta del fatto che tendiamo tutti ad annientarci, al pulvis es, insomma Mercoledì delle Ceneri, ma in verità il nulla non dev’essere che un inganno, come il mondo. Cosa riaffiorerà dal nulla? Soltanto le nostre parole, che abbiamo dato a qualcuno cui volevamo bene. Varrebbe la pena di lasciarle in un posto dove non si possano cancellare, perché Dio può anche fingere di essere assente, forse morto, per farci riflettere, ma la rete, lei, si crede eterna (il che è molto statunitense, se ci pensate), e quindi, forse, non è mai nata, come dalla teoria ekpirotica. La rete è caduta nell’inganno di Dio.
Ma all’inizio non scriveva nessuno.
Poi ebbi un’idea. Doveva chiarire chi era, prima di tutto a se stessa. Il resto sarebbe seguito, come tutto segue, in punta di piedi, e senza disturbare.
La cosa penosa della rete, se vi butti dentro un nome di donna, è che hai un esercito di beoti che ti assedia, che vuole uscire con te, che vuole conoscerti proprio in quel senso, e possibilmente sdraiarti. Senza acrimonia, ma letteralmente. Ed io dissi ad Angelica che bisognava farli sfogare, che a lei il blocco elettronico serviva come terapia, o forse come placebo (proprio così dissi, io che non so distinguere un chinotto da uno sciroppo per la tosse, a meno che l'uno e l'altro non siano alcoolici).
Arrivarono così le persone vere, quelle interessate ad ascoltarla. E questo per Angelica era una grande novità.
3.
Fu come poter ammettere di avere un attacco di panico (Angelica viveva di quelli, li aveva con una regolarità cronometrica in certi posti, e con certe persone) e finalmente non vergognarsi. Sapete, lo sguardo che non scurisce, la malattia, una malattia scema, ma che gli altri non capiscono, e cominciano a dar consigli, o peggio, ad osservarti con uno sguardo liquido e ischeletrito allo stesso tempo. “Poverino” dicono. Ti consigliano di prendere qualche pilloletta; le pillolette fanno bene, ma non a te: a loro. Perché tu diventi invisibile, e loro possono fregarsene. Ti avevano consigliato di farlo, di fregartene dico, ma tu duro, niente. Allora era venuta la paroletta allampanata e oblunga, quella che aveva etichettato Angelica, dopo che non aveva più l'età per il prendisole e lo scoglio, e prima che avesse quella per la vodka alla frutta, ed il vomito: ipersensibile. Ma io penso che fossero gli altri ad essere iposensibili. Dipende da dove metti la sbarra, ecco tutto.
L'aveva scritto lei stessa, un giorno che si era messa in testa di dar la prefazione alla pagina principale del bloc notes: “Dopo lungo tempo che eravamo stati invisibili, pian piano e con molti ripensamenti, cominciammo ad affacciarci per le nostre città. A frotte dapprima, come i passeri, poi ad ondate, come gli storni. Forse ci fu fastidio, magari un po' di nausea, ma la vita nel suo complesso procedette come sempre. Certo, ci fu qualche lucchetto in più, qua e là, e ci si blindò dentro, ove necessario, ma non c'era modo di farci tornar invisibili. E forse a qualcuno dispiacque”
In linea di principio, in un paese confuso come questo, una donna che ha un blocco elettronico e lo usa, senza essere precisamente una giornalista, non può che essere una poco di buono. Quindi c'è una massa di deficienti e semi-ebeti che bisogna schivare (senza offenderli, per carità) e pian piano ridurli alla consapevolezza che esistono donne che hanno altre idee che quello, non perché non potrebbero farlo, anzi a tempo opportuno l'hanno fatto eccome (oppure no, ed in ogni modo sono fatti privati). E sì, non sono necessariamente suore. Angelica stessa rispondeva a tutti, anche a gente che, giudicata col mio criterio mimmiano, avrebbe meritato un'escursione in costume da lattughino nello stagno delle lumache-squalo. E si impegnava, anche. Tirava fuori di quelle locuzioni poetiche che a me sembravano roba da vocabolario in otto volumi. Ed era talmente veloce, che a volte posava il sorcio, e quello continuava a muoversi da solo sul tappetino, come in una specie di seduta spiritica. Mai sottovalutare le donne (non che io mi sia permesso, lo dico come promemoria).
C'era una tipa che si chiamava Elena, e giocava a pallacanestro, anzi la insegnava nelle scuole al pomeriggio: come il lavoro le permetteva, volava alto, il che dal punto di vista di Angelica, era ispiratore di una serie di possibili tematiche, più o meno legate allo sport ed alla vita. Mi sono trascritto a copia e incolla alcune delle risposte che le dava: “Vedi, anch'io sto vivendo un attimo di volo, come quando tu sei lanciata a canestro. Certo, potrei urtare qualcuno, e rovinare a terra, ma non è questo l'essenziale. L'importante è essermi potuta alzare, per tanto tempo ho pensato di essere destinata ad un riposo forzato, ad un'immobilità non richiesta” Ecco, volevo chiarire che l'attimo di volo non sono io, io sono semmai una specie di maieuta, insomma quel tipo che vi tira fuori con le pinze le risposte alle domande, sperando di non farvi fuori le ultime otturazioni con su ancora un po' di spolvero dell'amalgama. Tutto quel che aveva, Angelica, ce l'aveva già, anche quando sottopose ad un seccatore un paio di frasi piuttosto glucosiche su perché mai non si stesse zitto (el tas mai credo che dicano dalle sue parti): “Arrivavo (ci crede?) ad invocare il silenzio, quando tutto trillava, dal campanello della porta alla cornetta del telefono, passando per il cicalino dell'ascensore. Poi, ad un certo punto, il silenzio arrivò, e certo potevo pensare, ma ormai avevo perso la nozione di come si pensa. Ero abituata a vivere nel presente, e se il presente taceva, mi mancava la forza di interrogarlo”.
Ecco, la cosa curiosa, era che la vaga ninfetta marina dei film con Gassman e forse Brazzi (incontrati per cinque minuti ciascuno ad un cambio scena, ammettiamolo) parlasse come un incrocio tra una creatura mistica ed una stella del variété fin de siècle. Era un po' la medium di se stessa, Angelica, nel suo bloc notes era capace di cantarvi il sestetto dell'”Adriana Lecouvreur” da sola e, benché di orchestra lì forzatamente ce ne sia poca, lei si piegherebbe altrettanto bene a mimarla, come finora aveva mimato la vita. La donna della vestaglietta bagnata mi stava rendendo spirituale come una particella carica antecedente all'era di Planck.
***
Anche un Lanfranco qualunque sapeva all'occorrenza essere perspicace, specie ad orecchiare la ripresa dei tradimenti di sua moglie. Perspicace significava che era certo che quel personaggio gallonato e vagamente scivoloso avesse avuto il suo daffare con Luciana. Ma non era questo che lo turbava: Luciana lo aveva abituato che, un po' nello stile di quelle mediocri commediole che Angelica si era trovata ad interpretare, o a subire, la leva del sesso può essere utilizzata per decine di altri scopi, senz'altro infinitamente più vasti, estesi, e, con licenza parlando, cosmici. E non valeva la pena di sudare sette camicie, e spendere di conseguenza una fortuna di lavanderia e di stiratrice, per tentare di convincere Luciana che aveva forse ecceduto nella difesa, certo per scopi nobilissimi. Lanfranco viveva i tentativi, invero piuttosto patetici, di Luciana per dimostrare che tendeva ad obiettivi universali ed infinitamente ragionevoli nello spazio e nel tempo, con dolorosa, ma stoica rassegnazione. Si limitava solo a drogarsi di caffè da tasca, sapete i cioccolatini che colano espresso dolciastro. Se ne impiastrava l'interno di giacche e cappotti con assoluta indifferenza, nel cui microclima il caffè da tasca tendeva indisturbato a formare arborescenze e vie di fuga certificate col marchio europeo. Tuttavia, siccome il dentro, anche se foderato, non si vede, quella era l'area di gioco libero ed infantile, lo Spielraum di Lanfranco, dove nemmeno i pensieri a forma di tacco a spillo sotto suole infinitamente svasate come quelli di Luciana potevano raggiungerlo.
Per farla breve, il dubbio di Lanfranco non era che il capitano si fosse appartato con sua moglie, era quello che gli avesse camminato nel letto con le scarpe, probabilmente sporche del fango di qualche missione altrettanto sudicia, anche se nobilitata dall'amor di patria. Coricarsi con le scarpe è roba da comica finale, e sperava non si fosse arrivati a tanto: anche l'amore andava fatto con le pattìne, nella sua mentalità.
E poi, aveva un certo sordo timore delle scarpe dell'Arma. Non semplicemente perché fossero nere, e non perché avessero duecento e passa anni di storia, quelli in fondo sono dettagli. Era l'odore del cuoio, che Lanfranco sentiva come un asmatico sente un fumatore a duecento metri di distanza. Come l'asmatico non avrebbe fatto, un giorno Lanfranco si presentò alla caserma della Radiodebole, e con sua grande sorpresa, lo fecero entrare al cospetto del capitano smicciatore.
Il cuoio imperversava nell'aria, Lanfranco aveva portato anche i sali, nel caso di improvviso deliquio. Gli urgeva però di avere quelle informazioni, quindi tenne botta.
“In cosa posso servirla, dottore?”
“Sono io vorrei servirla”
“In che cosa, se posso permettermi?”
“Vede, io soffro d'ipocondria. Mi vaccino contro l'influenza dai tempi del liceo, e le ho avute tutte, dalla Singapore alla Mortara...”
“Quest'ultima mi sfugge, temo”
“Sa quell'anno che ci si contagiava con le piume d'oca? Ecco, per farla breve, sono qui per un caso di coscienza, o meglio di promiscuità, e non voglio disturbarla più di tanto, perché lo so bene: lei, come tanti del suo calibro, cammina molto”
“Giriamo anche molto sulle volanti, come può sentire dai rumori qui intorno”
“Io sono più che altro interessato, e quasi curioso direi, del cammino, anche di quello percorso nei pressi della mia dimora”
Il capitano guardò da un lato, quasi per controllare se ci fosse un'arma disponibile, magari carica. Non l'avrebbe usata, ma sapeva che un uomo nelle condizioni di Lanfranco, che cercava pure di fare l'individuo superiore, ed invece era roso, quasi penetrato, da una gelosia divorante, poteva fare pazzie e poi, quel che è peggio, pentirsene, ed averne garantita la seminfermità mentale in appello. Ne sogguardava l'occhio infossato con le borse gonfie e rosacee: non lo temeva, perché non si può aver paura di godersi la moglie d'altrui (suo estremo e riassuntivo comandamento personale), ma lo studiava, e a fondo. Il riferimento al calibro (che si era premurato di interpretare altrimenti da come Lanfranco lo intendeva) lo aveva lusingato, volgarmente, ma efficacemente. Lo stava lasciando sfogare, come faceva il grande Torino: poi nel “quarto d'ora granata”, non ce ne sarebbe stato per nessuno. Aveva dinanzi un poveraccio che non valeva l'Alessandria dei Moccagatta: almeno dieci a zero, dunque!
“Io non cammino nelle scarpe di altri” disse abbastanza sibillinamente il capitano “Uso semplicemente gli spazi che mi vengono gentilmente concessi”
Lanfranco si sentì capito, ed ebbe un moto di traversa ed inspiegabile simpatia per l'ufficiale, tradendo la propria debolezza, sicché l'altro continuò su un tono più alto ed in certo senso più ispirato: “E li uso nel senso dell'adempimento del mio dovere”, non curando il tremore incerto che gli rispondeva dall'altra parte della scrivania: “Sa cos'è il dovere?”
“Sono qui per apprenderlo, credo”
“Già: il dovere porta al disinteresse, fino all'annientamento se necessario di se stesso e del proprio orgoglio. Il dovere è per esempio quello del grande Gabetti, che musicò la marcia reale. Ne scrisse due, ma il re ne scelse una soltanto. E Gabetti distrusse l'altra, senza fiatare. Così” disse il capitano, mimando con i listelli delle veneziane lo strappo della carta da musica. La fisionomia dei due uomini nella stanza ne vibrò, e si spense sul pavimento, dopo pochi secondi che Lanfranco, impressionato, trovò interminabili. Anche le ombre cinesi congiuravano a favore del capitano.
“Ed il triangolo dell'obbedienza, quello formato dal re, dalla patria e dalla bandiera, aveva accerchiato il grande musicista, l'ispirato maestro di banda”
Non si può pretendere che un milite dell'Arma sia forte in geometria, ma Lanfranco era all'improvviso talmente stordito e stupito che avrebbe anche piegato il triangolo in circonferenza. Questa era una strana trinità laica, in effetti molto binomiale, formata da un uomo in armi e da una donna ricoperta da un drappo (l'idea di patria di Lanfranco veniva direttamente dal Moulin Rouge, dove presumibilmente la Rivoluzione Francese era scoppiata, anche se la storia dice altrimenti, forse per problemi di censura). I suoi occhi lo dichiaravano vinto, limitandosi a fissare le scarpe sotto la scrivania senza più chiare intenzioni, ma il capitano, non pago, rincarò la dose: “E quando quel tale triangolo chiama, l'uomo di coraggio e di virtù risponde”. Doveva alzarsi in piedi, ora? Lanfranco si sentiva scollato dentro, un po' come una vecchia suola mal ribattuta. Si alzò quindi, afferrando una mano aperta ma scivolosa, ed infilò la porta, poi compulsivamente tutte le porte successive che trovò, fino a sbucare all'aperto tra gli sghignazzi ed i versi offensivi di un lungo ed angoscioso corridoio. Fu solo in strada che comprese di quale triangolo si era veramente parlato. E, come gli era stato velatamente richiesto, obbedì. Ma già sapeva che questo a Luciana non sarebbe bastato.
***
Era stato abbastanza sorprendente che Luciana ricontattasse Giulia, tuttavia dimostrava che, anche se non la sopportava, né politicamente né diciamo pure a pelle (benché si trattasse una pelle trattata, allisciata e più oleata della carta delle pizzerie al taglio), tuttavia per una certa contorta ed improbabile solidarietà femminile, non aveva intenzione di raderla al suolo. Soltanto di farla piangere, e nemmeno di questo era poi troppo sicura. Certo, la infastidivano quelle giacche a vento da barbona, accoppiate a quella bigiotteria vistosa e quasi esplosiva. Inoltre, Giulia era una che pubblicava libri liquescenti e vagamente sessantottini, dove c'era appena tanta storia da giustificare una chiacchiera infinita e senza direzione, ed in più lavorava ancora in un ministero, presumibilmente piegando il capo sotto ogni scrivania, pur che le pratiche inevase non la stanassero. Ma insomma, non arrivava al punto di fastidio che le dava Lanfranco, da quando aveva capito la sua mossa imprevista, anche se perdente, verso la Radiodebole: per umiliarlo definitivamente, lo costrinse a tirar fuori la BMW dal garage di domenica pomeriggio, ed a portarla dalla cugina, un itinerario breve, ma generosamente provvisto di semafori.
Lanfranco era un mollusco, ed era facile mandarlo in crisi: la tattica che di solito Luciana utilizzava era la giava dei finestrini. Mettiamo che ad ogni semaforo avesse freddo e ad ogni ripartenza avesse caldo: come una donna del suo lignaggio, o forse livello, la si distingueva dal tempo di tolleranza, un picosecondo. Dopo smaniava, il che poteva forse essere, non essendo molluschi, erotico, ma in buona sostanza si risolveva in una sensazione di freddo alle ossa, come di fastidio, di tedio, però non di noia. Troppo intellettuale la noia, Luciana usava un bovarismo da Confidenze, in pillole non effervescenti. E nascostamente affilava le unghie sulla plastica del cruscotto. Lanfranco impazziva, si trovava spento di qualunque forza. E lei lo affondava. Di sciabola, non di fioretto.
Messo fuori gioco Lanfranco, in doppia fila dalle parti di piazza Vescovio, Luciana poteva passare a spezzare sua cugina, con sottofondo di archi. Per questo, bisognava essere scivolosi, ma aspri, come un bolo di crescenza andato a male. Giulia pensava che la società dovesse provvedere ai suoi bisogni di artista ed umanista, Luciana credeva invece che fosse lei a dover provvedere al guasto della società e della famiglia con infinita e supponente arroganza. In entrambi i casi, visto che la società non soccorreva nessuna delle due con sufficiente pertinacia e solerzia, si rilevava chiaramente il marcio in profondità. Bisognava che il marcio funzionasse a dovere, e Luciana ci sarebbe riuscita.
Luciana non tollerava la svagatezza di Giulia, che le sembrava un Pinocchio travestito da fata, anche se non turchina, in quanto trasgressiva. Strinse le labbra, e simulò un'ammirazione, che era in effetti disgusto. Iniziò a girarle intorno un soffritto di parole, centrato sull'ellisse di cui la famiglia ed il patrimonio erano fuochi. Un patrimonio che sarebbe andato distrutto, se la zia Ermelinda avesse dato tutto in eredità a quel beone, beccamorto e bifolco (cioè a me).
“E siccome la povera zia ormai va più per i centoventi che per i cento, non c'è da far affidamento sulle sue doti diciamo mentali. Non che ai suoi tempi le donne avessero testa. Forse utero, ma non so”
Giulia si strinse nella giacca a vento (la temperatura, complice un perfido riscaldamento mal regolato, andava sui ventotto gradi, ma lei voleva sentirsi in Alasca, il che la rendeva avventurosa, e forse interessante), e non le replicò inizialmente, poi le disse: “Sono anni che si dice in giro, abbiamo sempre pensato che le cose non potessero aggiustarsi, anche perché la zia non ragiona. Volevamo farla interdire, ma poverina, sai...”
“Infatti, lì è l'errore, la zia suscita troppi ricordi. Anche a me” cosa un po' strana, in verità, perché Luciana non aveva memoria, solo orologi placcati oro.
“Buoni o cattivi?” disse Giulia con una smorfia collodiana un po' svampita.
“Ricordi... non so. In ogni modo, la democrazia è quel che conta, e dove c'è l'unanimità, là bisogna andare. Quindi contro Mimmo. Democrazia, ma unanime. Per la famiglia e...la patria” disse Luciana, col tono dello smicciatore rispetto alla Marcia del Gabetti (colpo di fulmine, evidentemente).
“Ma il giudizio, la perizia, non so, gli esperti...”
“Quelli si comprano. Tutti laureati tecnici, che fanno il secondo lavoro. Basta far loro suggerire una cifra, ed offrire il doppio. Sono onesti, e certo un po' scemi, o forse soltanto onesti, ma a noi basterà”
“Ecco, io direi, fai tu, io non ne capisco, però ti delego, e cercherò di farti avere altre deleghe”
“Non potete delegare, dovete esserci, ma basta che siamo d'accordo. Tutti”
Come poteva non essere così? Una massa di irretiti più o meno sessualmente, ed una finta barbona in giacca a vento...
Beh, mi rendo conto di diventar cattivo, così sono uscito allo scoperto. Ma è solo che dopo la vicenda dell'incontro alla Radiodebole, e l'ancora più fiacca risposta di Giulia, fui convocato, stavolta senza botte e 25 luglio, ma con assicurata A/R (andata e ritorno). Dall'inferno, penso. La prima udienza è tra un mese (e se qualcuno dice che la giustizia non funziona, se la deve vedere con me). Funziona, come tutto, a partire dal basso. Dal triangolo dell'obbedienza insomma.
4.
Quel che è sorprendente in tutta la mia storia è che io, malgrado sembri immutabile come una diatomea, non sono sempre stato così, voglio dire con il mio gergo de-americanizzato e le mie piccole manie igieniche, o almeno non ero così esasperato in tutto. C'è stato un evo antico, durante il quale sono stato sposato, come giustamente Luciana osservava (perché non può mica dire tutto sbagliato, povera mammoletta, e specialmente a letto) ed un'età di mezzo, molto alambiccata e certosina, come tutte le età di mezzo forse sono, cui appartiene la lettera che segue:
Roma 3 giugno 2004
Cara Michela,
sono felice che tu mi abbia risposto anche stavolta. E' sempre un pochino imbarazzante, specie per uno come me con una storia travagliata alle spalle, riprendere il filo del discorso, e specialmente con qualcuno che non si è ancora incontrato, voglio dire personalmente.
E' vero che la comunione di affetti si può stabilire, anche al di là della presenza fisica. E' una frase che trovo molto bella e molto vera (e perdonami l'accostamento abusato di questi due aggettivi), perché ci fa capire come esista qualcosa che potremmo più o meno definire come spirito, anima o quel che è.
Come molte belle frasi di cui ogni tanto infarcisco queste mie lettere, con la segreta, ma non tanto, intenzione di colpirti ed affascinarti profondamente, scopo che ovviamente una mia foto non potrebbe raggiungere (pure se tu con estrema gentilezza hai detto che dimostro meno degli anni che ho) anche questa non è mia. L'ho fatta mia, in ogni modo, perché è di mio nonno Pietro, e quindi, in virtù della parentela, mi appartiene almeno un po'.
Di mio nonno ho preso qualcosa, se non altro la capacità di combattere per le mie idee. Certo, oggi tutto è, o sembra almeno, più semplice, semplicemente perché i sogni ai quali le persone come mio nonno hanno dedicato la loro intera esistenza si sono in parte realizzati, mentre in altra parte sono caduti e si sono dissolti in qualcos'altro.
Sto complicando le cose, perché non vorrei che tu pensassi che ho tirato fuori la frase 'da rimorchio', per mostrarmi disinteressato, gentile, magari anche un pochetto fintamente triste, il che non guasta, come l'indistruttibile successo con le donne di certi cantanti con gli occhialetti quadrati ed il capello grigio dimostra. Va bene sì, era una frase da rimorchio, che vorrebbe farti credere che non abbia interesse ad incontrarti fisicamente, per poi sorprendentemente dimostrarti che è proprio a questo che aspiro (ma lo sapevi già)".
Mentalmente, quella lettera l'avevo già appallottolata una decina di volte. Quelle poche righe, con una citazione forzata e piagnucolosa del nonno, antifascista quando significava qualcosa, mi erano costate due ore di lavoro (e di sudore, perché era giugno, e c'erano gli operai che stavano ridipingendo la facciata del palazzo, per cui ero chiuso in casa, maledicendo il momento che Phyllis aveva voluto comprare quell'appartamento che affacciava solo da una parte, per giunta verso la strada). Andai in cucina, aprii il frigo, vidi una Guinness rimasta, poi ripiegai sullo sciroppo di tamarindo. Autarchico e dissetante, anche frizzante, con un po' di buona volontà. E poi, per dirla tutta (ora potevo finalmente) la Guinness mi faceva già un po' schifo (era almeno la decima volta che mi muovevo per aprirla, ed ancora là restava, con la sua lattina listata a lutto).
Avevo scritto come un diciottenne ad un'associazione di amici di penna, e tre mi avevano risposto: uno era un tipo strano, ma simpatico, due erano donne. E avevo ricominciato il gioco, che già mi era riuscito con Phyllis per quattro lunghi anni, e che ora mi sarei vergognato di fare con Angelica: non conoscendomi, mi fingevo ogni sera diverso, così, per divertimento, anche perché la ragazza, con quei grandi e un po' malinconici occhi blu, mi prendeva sul serio, fin troppo, e mi si confidava, cosa inattesa, ma in fondo piacevole.
Phyllis è in Namibia per un progetto sulla conservazione degli elefanti, la decisione più importante che avesse preso in vita sua: non l'avevo seguita, anzi avevo fatto dell'umorismo spicciolo sull'efebica e biondastra magrezza di lei, confrontata alla potenza ordinatamente amministrata del pachiderma grigio, un contrasto di colori, ma anche di mentalità, e mi ero giocato il viaggio quasi in fondo all'Africa (non che ci tenessi, ma se si fa lo sforzo di sposarsi, pur con due caratteri diversi come i nostri, qualche mossetta di riconciliazione vale forse la pena di tentarla: invece la Namibia si rivelò un fosso tra di noi).
Un paese poi mica facile, la Namibia, specialmente per una che, da quando aveva lasciato la campagna del Bedfordshire, non era riuscita ad acquietarsi neanche a Roma: Firenze forse sì, gli aveva concesso, ma Roma no, e faceva un gesto vago con le lunghe dita, che si spegneva in un'inerzia lunga ed anche un po' dolorosa. "Rome is inexplicable", inspiegabile: mi rendevo conto che per una che veniva da sette anni di comprehensive school e da una laurea breve in business, tirar fuori un aggettivo così pesante ed insolito doveva indicare un fastidio ricorrente, come il ronzio di un moscone in un orecchio, o forse in entrambi. Il fastidio potevo accettarlo, ma la Namibia era troppo.
Ora insomma stavo scrivendo a questa Michela, che sembrava, al contatto epistolare, antitetica a Phyllis quanto può ragionevolmente esserlo un'altra donna: già la grafia rotonda e ricciuta, fitta di quasi inconsapevoli occhielli e roselline, era lontanissima da quella diritta, ossuta e tesa verso l'alto di mia moglie, dove molte lettere ricordavano mollette da bucato appese al filo della riga.
Non che scrivesse tanto, Phyllis, qualche biglietto di auguri, la card, per Natale, ad improbabili parenti ed amici di famiglia di cui non ricordava nemmeno più l'ortografia del cognome, gli unici ormai a richiedere quel gesto formale. Per il resto si districava tra mail e messaggini con una concisione che non era mai ermetica, ma sembrava rispondere a convenzioni che nessuno aveva mai enunciato, ma che pure tutti conoscevano. Non era solo questione di scrivere per esempio "c u l8r": alle volte immaginavo che, per qualche arcano sentiero, ella riuscisse a farsi intendere, comunicando mentalmente il suo pensiero all'interlocutore lontano, con una sorta di confidenza profonda, mentre io ottenevo solo parole di terracotta, che parevano sbriciolarsi leggère al primo tocco.
Anche quando avevo conosciuto Phyllis, era giugno, quattro anni prima. Fino ad allora, non avevo mai avuto una storia con una che non fosse italiana, anzi italiana e del mio ambiente (avevo un ambiente, allora). L'estero va bene per una vacanza, col possibile corollario di un'avventura, ma stabilircisi è troppo. Come tanti della mia generazione, mi ero trovato intruppato per tre settimane nel campus deserto di un'università britannica, a spiare timoroso il cielo, che prometteva faville e sole splendente all'alba tra le cortine rosse della sua stanzetta tre per due, ed ora a fine mattinata volgeva un'altra volta verso il coperto. Warwick, cioè Coventry, ma poteva essere anche un altro posto: il fatto essenziale per molti ragazzi, lamentosi come vecchiette bisbetiche, era che era all'interno, e non sul mare…Ma chi se ne fregava del mare, in fondo: la cosa specificamente importante è che c'era Ada, e Ada si era messa con un altro, un biondino di Conegliano Veneto o giù di lì, prima della fine delle tre settimane. Ci avrei fatto i conti a Roma. Quali conti, non sapevo bene, ma ad occhio e croce Conegliano è dall'altra parte del mondo quando si hanno sedici anni e nemmeno il foglio rosa, mentre Ada abitava all'angolo di casa mia.
Mi era tornata in mente Warwick, quando già la Namibia e gli elefanti mi avevano sostituito nel dilatabile bagagliaio di Phyllis: a Warwick c'era una tipa di Cassino che mi andava appresso, una cosa talmente incredibile da essere vera. Non era male tra l'altro, ma avevo preso il punto di stare con Ada, o al massimo con una come lei o meglio, maggiore o uguale, come si dice. Ovviamente a Warwick maggiori o uguali ad Ada non ce n'erano: a posteriori (oggi che scrivo) ce ne dovevano essere almeno dieci su un totale di trenta, compresa la ragazza ciociara. E' che gli sbagli si fanno col cervello di oggi, mentre servirebbe almeno quello della generazione futura. Ma allora: perché Phyllis?
Tornando indietro di un migliaio d'anni, gli inglesi, cioè i sassoni, erano tutt'altro che prestanti come li pensiamo adesso. Erano molto più simili ai moderni contabili in completo nero e camicia bianca con polsini d'argento, pancetta, auricolare e basette incorporate, che a vigorosi individui barbuti e nerboruti. Questo, oltre a spiegare come normanni e danesi ne avessero fatto un boccone solo, chiariva anche più modestamente la mia iniziale diffidenza verso le donne britanniche: non che me le augurassi barbute e nerborute, ma mi pareva mancasse loro sempre qualcosa per imprimersi indelebilmente. La bocca, per dirne una, non rimava quasi mai con gli occhi, specialmente se chiari: il fermo distacco dello sguardo non si accordava che raramente con la gentilezza, a volte spinta fino al limite di una sommessa tenerezza, delle labbra dischiuse. Sapete il gatto di Alice, il cui sorriso aleggiava disarticolato, anche se il volto non era più. E poi, erano indirette come un contabile, filtrate dallo sparato della camicia, dall'argento dei polsini e più tangibilmente dallo stomaco imperioso. Se erano dirette, non erano più educate: eppure si potrebbe magari essere l'una e l'altra cosa. O no? Il fatto che Phyllis la spuntasse su questo coacervo di pregiudizi, il mio, dimostrava che si era verificato un caso eccezionale, inexplicable.
Certo, ci fu il momento sessuale, cioè quel breve periodo in cui la libido non batteva contro l'ago dello zero. Phyllis non era esattamente bella, cioè aveva un volto molto preraffaellita, ma che prescindendo dalla pittura comunicava delle ambasce incerte, ma profonde, forse inspiegabili (già, lo diceva anche lei stessa). Gli occhi vagavano, sembravano non riposare mai, anche se fisicamente erano fermi. Inoltre, era completamente disinibita, da sempre, da subito, il che mi bloccava completamente.
Credevo che gli inglesi si sciogliessero solo dopo aver bevuto, e tanto: ed in realtà era chiaro che con Phyllis l'alcool aiutava, ma era anche vero che c'era qualcosa di preesistente, una specie di sottofondo gelatinoso. Dopo due notti in macchina con lei, non molto appassionate forse, ma sicuramente produttive, feci il passo di portarmela in quella che anche allora chiamavo casa, in mancanza di una definizione più appropriata.
Quel che è diverso da oggi, e, se ci pensate bene, patologico, è che di quella casa, allora, mi vergognavo. Per tutto il percorso, nonostante la vicinanza di quegli occhi vaganti e immobili cui cercavo di non parere distratto, non feci che pensare alle briciole sul ripiano, ai fondi del caffè nel lavandino, al sacchetto della spazzatura in cucina, appeso alla maniglia della porta, allo strofinaccio che copriva il vuoto di una mezza mattonella in bagno, ed ai diecimila fogli e giornali e riviste e pubblicità che coprivano l'unico tavolo, come un parcheggio multipiano riservato alle termiti. Unico tavolo dove c'era anche un portatile, un paio di sorci elettronici e probabilmente, se non l'avevo tolta di mezzo, la cartella di pelle delle "faccende urgenti". Il letto però era a posto, avevo anche cambiato le lenzuola, dopo tempo immemorabile (dovevo stendere quelle lavate, che erano in lavatrice dal giorno prima, e si sarebbero presto macchiate di muffa, se non mi fossi sbrigato). Certo, dall'aspetto complessivo dell'appartamento, lei non si sarebbe potuta fare illusioni su dove la storia dovesse finire né tanto meno su teneri e romantici preamboli ed introduzioni (non ero neanche sicuro di aver versato un po' di papera nel gabinetto, prima di uscire, e questo mi creava un'indomita ansia).
Phyllis non si fece problemi, un fatto che (a posteriori) mi preoccupò, perché pur sempre di una donna si trattava, pensavo allora; ebbe una rapida occhiata, tanto per trovare la strada, poi si spogliò svelta, non molto diversamente da come avrebbe fatto ad una visita medica, e tentò di attirarmi nel luogo topico: ancora una volta, le cose funzionarono a dovere, anzi mi concesse di attardarsi su qualche dettaglio che in macchina mi sembrava di avere un po' trascurato per scarse abilità contorsionistiche. Fu quella sera che mi convinsi di essere innamorato di Phyllis: lei anche su questo mi lasciò fare, come a letto.
Ci addormentammo per qualche ora: nel dormiveglia sudavo freddo al pensiero che, finita la festa, Phyllis si desse all'esplorazione dell'appartamento. Giurai a me stesso, nell'assopirmi abbracciato a lei, che mi sarei svegliato subitissimo, avrei passato almeno la papera, fatto sparire i residui di cibo e di caffè, frullato la spazzatura nel cassonetto e disposto i giornali in un ordine cartesiano...
Mi svegliò invece la sua voce: veniva dalla cucina, e quindi era già passata in gabinetto (lù diceva lei). Ebbi un brivido e, ancora con gli occhi chiusi, toccando istintivamente il termosifone, balzai fuori.
Phyllis cercava il tè: ero convinto che ci fosse, lei diceva di no. Ci parlammo a lungo attraverso le porte come Romeo e Giulietta, lei in cucina, io in bagno. Lei voleva il tè verde, di cui allora non avevo idea, fuorché che era una roba cinese, e di conseguenza inadatta al mio ego autarchico. Phyllis mi concesse che una camomilla è quasi verde: pensavo che far colazione con quella specie di pipì bollente fosse da depravati, ma non lo dissi. Col tempo, avrei cominciato a tacere altre cose inutili, anche queste piccole, ma inevitabili.
Dovevo capirlo, da quando si era coricata, praticamente nuda, in un sacco a pelo, in un'inopinata notte trascorsa in campeggio in Corsica, per essere arrivati troppo tardi per tutto, alberghi, b&b, case private, quant'altro. Mi ero sentito Lando Buzzanca in Norvegia. Innanzitutto, avevo freddo; poi, eucalipti o no, avevo raccolto frotte di zanzare ansiose e astiose di limonarmi, e non solo in bocca. Seminudo per solidarietà non mi riusciva bene, inoltre il sacco a pelo sapeva di cantina, o forse di solaio (solo questione di metri sopra o sotto il livello del pavimento), e soltanto Phyllis, con il tipico sprezzo britannico per l'igiene immotivata, poteva adagiarvisi pelle contro pelo senza batter ciglio. Io mi sentivo incimurrito al solo pensiero, ed in più rimasticavo nel sonno una specie di verso da incubo, baritonale e fitto di u, mezzo Yoghi mezzo Lando. Tipica situazione vagamente erotica: adesso sarebbe bastato scostare un pochino il sacco a pelo, e…
Solo che, oltre ad averne voglia solo vagamente, perché il periodo dell'amore in auto mi sembrava morto e sepolto, ero anche bloccato dai messaggi in codice di Phyllis, codice che non ero stato fino ad allora in grado di decifrare. Se fosse stata brilla o decisamente ubriaca, sarebbe stata diretta, anzi, per dirla tutta, decisamente rozza, al punto da tirarmi una scarpa o una punizione di prima e ad effetto sugli zebedei, ed avrebbe riso senza freno, su quella tonalità alcoolica che detestavo. Se però non lo fosse stata (e non lo era, perché quella sera di fine maggio anche qualunque locale sembrava chiuso in quel paesotto dell'interno: perché ovviamente Phyllis non era andata in Corsica per il mare: ogni tanto lo incrociavamo, davamo uno sguardo fuggevole e via, verso l'ombra dei boschi) avrebbe reagito secondo la sua educazione, ed io avrei mal interpretato il tutto, misunderstood, si dice, ma non l'avrebbe detto, me l'avrebbe fatto capire, come tutto il resto. E come di tutto il resto, non avrei capito un accidente.
Uscito da una storia del genere, con l'aiuto insperato della Namibia, avevo bisogno di poesia, e quindi delle varie Michele, con cui mi impegnavo come un disperato a fingermi uomo (ora ci ho rinunciato). Quando ci rivedemmo con Phyllis fuori dal tribunale, riuscimmo ad essere gentili, lei mi sorrise quasi cordiale, e capii che non avrebbe disdegnato un fuori programma, che non avrebbe cambiato la sostanza delle cose, ma insomma sarebbe stato un addio colorato, come quei grandi biglietti con gli strass che si danno dalle sue parti alle segretarie, quando passano al piano di sotto, per una sterlina all'ora e/o un po' di flessibilità sulla pausa tè in più.
5.
Angelica continua oggi ad avere un bloc notes elettronico in rete, ma non ci vediamo più: ci sentiamo però spesso, ma solo per posta elettronica o per chiacchiera virtuale. Sono rimasto con le mie foto e la mia cosmologia nella mia simil-casa con la papera e il mocio, ed in fondo un po' di malinconia, mia compagna gentile. Era nella logica delle cose, e non c'è nessun rancore, lei ha trovato se stessa e le nostre strade si sono divise, come dicono gli allenatori quando i tifosi li inseguono fin sotto la doccia per chiedere educatamente spiegazioni sul rendimento della squadra.
So, e me ne addolora, che vi ho mentito sulla seconda ispezione, quella della rivoluzione di ottobre: non fu incruenta e non ci riprendemmo così subito, almeno, il nostro rapporto non si rimarginò più. Angelica mi aveva sempre visto sereno ed invincibile, ma sono solo anch'io un uomo, tutt'altro che ekpirotico. Ma non mi va di scherzare. Avrei dovuto dirvi invece che vennero, sfasciarono quegli oggetti che li infastidivano (ogni volta c'era qualcosa che dava loro sui nervi), si tirarono le sedie tra loro, scartabellarono tutti gli archivi, sputarono in terra, mi spensero una sigaretta sulla mano, mentre a lei avevano anche rubato (requisito, dicevano) il cellulare. Ed avrei dovuto lasciarvi con l'immagine, contraltare a quella della ninfetta e dello scoglio, di Angelica a terra, nella stanza a soqquadro, ed io che sono stato incapace non dico di difenderla, ma di lasciarle una speranza. Cadere non era stato indolore, come aveva pensato, e questi sono fatti che influiscono su un rapporto, per quanto illogico e particolare come il nostro, e, credetemi, sono anche dolorosi da raccontare.
Per questo, ed anche perché io stesso, con tutta la mia sicumera intellettualistica e cosmo-fotografica, ci faccio una figura penosa, da pirla, avrebbero detto dalle sue parti, vi lascio un'immagine più raffinata e soffice, quella di una locandina mezza strappata del mio archivio, peraltro rarissima ed introvabile. E' di un film non di quelli di Angelica, ma l'epoca è quella ed anche il genere non se ne discosta tanto. Parla di una ragazza bionda con grandi occhi, coinvolta in intrighi più grandi di lei, che lavora in una strada della vecchia Roma, dove anticamente passavano i tubi dell'acqua, e adesso è pieno di boutique, prestigio ed anche ovviamente porcherie e corruzione. Sono cose di questo mondo, mondo dal quale solo per un artificio avevo pensato di tirarmi fuori.
Insomma, qui c'è lo scambio, ed i binari divergono: ma la storia, quella vera, ha ancora qualcos'altro da dire. Intanto, Luciana ha proseguito il cammino sulla via della prima udienza, ed ha pensato bene che quell'unanimità democratica si sarebbe raggiunta senza sforzi. Cioè: quasi senza sforzi. Va detto che in quel mese di fiduciosa attesa del mio annichilamento, Lanfranco rimase ucciso in circostanze misteriose, ma non segrete (cadde dal balcone). La morte in certo senso lo riabilita, almeno ai miei occhi. Ho pensato spesso negli ultimi giorni che forse aveva cercato di opporsi al predominio delle scarpe dello smicciatore nella sua vita, dicendo finalmente a Luciana quel che pensava di lei, fuori dall'infatuazione vagamente sessuale, o più semplicemente aveva ricevuto finalmente il conto di una delle sue tante carte di credito, che Luciana intercettava di solito nel percorso dalla posta alla comunicazione dell'avvenuto bonifico automatico. Forse era andato in rosso, cosa che a me che ho qualche migliaio di creditori da acquietare a turno, come mi ha insegnato Paperino, non fa né caldo né freddo, tanto non sono nessuno (e poi l'arresto per debiti non esiste più), ma a lui poteva aver dato alla testa, e si sa che su un balcone, è meglio la testa non pesi. Non l'avevo conosciuto bene, Lanfranco, forse era una bestia come gli altri, in fondo era sempre mio parente, anche se acquisito, tuttavia mi dava l'idea di quel centurione che, pur sputando ed inveendo contro Gesù anche lui, sapeva almeno che stava sputando ed inveendo, non pensava come gli altri di gettargli dei fiori. E la coscienza di far male non è poco, è moltissimo in certi casi (ovviamente io non sono Gesù, ma pur nella mia miseria, accresciutasi dopo la partenza di Angelica, posso offrire al Cristo la mia solidarietà di uomo disprezzato, e forse vagamente immaginare come dovesse sentirsi Lui, quel Lui che, come vi dicevo, mi ostino a scrivere maiuscolo, da quando ho visto quanto siamo minuscoli noi). Luciana pianse molto, e sempre a proposito, poi si preparò per l'udienza, ed io finalmente, dopo dieci anni di odio, la vidi arrivare.
Molto scura ed oscura. Anche sicura come sempre, devo ammetterlo, e con degli occhiali fotosensibili, che mi sembrò cambiassero colore continuamente per i primi secondi che, suppongo, mi stava guardando (l'inclinazione della testa allungata biondo-cenere corrispondeva). Tutto il resto era nero, fino alle scarpe, appuntite, ma ragionevoli. Tranne che le dolevano.
“Sono venuta a piedi da Ponte Bianco” esordì. Avrei dovuto commentare che, se arrivava direttamente dal binario, fino a quella specie di salottino-studio che mi era rimasto dai fasti passati, erano circa duecento metri (che avesse parcheggiato la sua Elegante vetturetta sulla ferrovia mi sembrava piuttosto plausibile, in fondo) “E credo anche tu sappia perché sono qui. O no?”
Che mi importava perché era lì, ormai la giornata era persa, sfasciata, e potevo rimettermi a fischiettare, il che mi fa l'effetto che a molti neonati fa il dito in bocca. Di solito zufolavo cose sincopate, ed anche piuttosto intimiste, assoli di clarinetto e roba simile, ma al momento non mi venne altro in mente che “Il mondo” (quella canzone abbastanza fragorosa sull'alternarsi del giorno e della notte, che non ho mai capito cosa ci sia da essere così trionfalistici su tutta questa storia, pur se trovo anch'io che certe albe si facciano aspettare troppo a lungo). Sono quasi sicuro che dopo questa mia prestazione canora, Luciana mi guardasse davvero. Non credo volesse provare a blandirmi, anche perché avevo il mocio in mano, il resto delle truppe non era distante ed un uomo armato, mettiamo pure un Mimmo, è sempre temibile, ma pensava che fossi completamente rincitrullito (e fin qui, non andava molto lontano dal bersaglio). Il fatto fu che poi la mise sul folclorico; con l'espressione di una laureanda in storia della faida, mi chiese:
“Sai perché ti odio, no?”
Ecco, quello mi importava ancora meno, però non potevo fischiettarle “Il nostro concerto” nella versione orchestrale completa di dodici minuti e mezzo, mimando le strappate dei violini. Sento che l'avrei irritata e se da un lato poteva essere meglio, perché l'irritazione è meno dell'odio, certo non mi andava di diluire un sentimento così profondo. Era una donna coscienziosa (nelle cosce, non nella coscienza) ed io certe cose ancora le apprezzo, pur se strizzate in un tubino nero che definire improbabile era quasi un complimento. Poi, l'odio le donava: lo pensavo da dieci anni, da quando le si era manifestato per la prima volta (e quindi in un certo senso è merito mio: come dicevo, sono un maieuta).
Non attese una mia risposta, che d'altronde non venne: avrei potuto dirle di zia Ermelinda, di come si può vivere cent'anni, ed ancora non accettare di esser buttati via come un pitale. Ma era inutile, ovviamente, anche perché io non sono riuscito a salvare veramente né una zia, né una vecchia ragazza come Angelica né me stesso. La trama un po' scombinata di Luciana avrebbe certo avuto successo, e, vedendo le cose da un'altra angolazione, l'eredità era marginale. Non avevo scelto di essere il nipote prediletto: avevo solo continuato la mia solita vita, tra qualche sbandata e qualche brusco colpo di timone. E poi parlare con la zia mi divertiva davvero: avevo solo osato dire, all'epoca dello schiaffo (un buffetto in verità) che non si tira fuori un'anziana signora da una casa per relegarla a Santa Marinella in un posto dove raccolgono le tue spoglie col cucchiaino ogni mattina alle sette. Anch'io, che sono matto, ho una casa. Non un letto ed un armadio di serie con le stampelle troppo alte e niente spazio per mettere un ritratto e un lumino (o dieci o cento, che importa). E non importa nemmeno che sia Santa Marinella e non Frattocchie... è un dannato luogo comune di questa città di mummie incipriate che sia il posto dove stiamo a renderci felici. La felicità è dentro di noi, ed anche quaranta metri quadri al Pigneto sono abbastanza per contenere un'anima. Ma purtroppo ad un certo punto i quartieracci (detto con affetto) tornano di moda, e le zie passano.
“Chi è?” mi disse Luciana ad un tratto. “Bellina...” ammise poi a malincuore.
“Un'attrice”
“Un trucco antiquato però. L'ombretto, le sopracciglia ritoccate”
L'ombretto forse sì, almeno credo (era l'epoca d'altronde), ma le sopracciglia Angelica le aveva vere, vere e folte, di una bionda, ma autentiche.
“E poi ha una faccia indisponente”
“Può darsi. In ogni modo, ormai è il passato”
“Oh, mi spiace... Beh, vorrà dire” disse alzandosi (non mi ero notato si fosse mai seduta) “che ci vedremo il mese prossimo. Ti aspetto...cioè ti aspettiamo tutti, unanimi. Ad una sola voce” e sulle ultime parole mi parve sorridesse, ma forse era solo una trasparenza dei capelli sulle labbra strette a guscio.
Tutto questo mi sembrava già vecchio, e spento: io ero già di là. Non ho salvato nessuno, è vero, ma chissà, magari non possiamo salvarci che soli. Sapete, col tempo ho capito che i soldi sono un'idea. Sennò uno come me non sarebbe mai stato al mondo.
Di veramente nuovo, c'è che Phyllis è tornata dalla Namibia. Se abbia trovato gli elefanti, non sono riuscito a capirlo, ma dall'increspatura dell'ombra del suo sguardo ho creduto di dedurre che non le interessa più.
Si è seduta chetamente sul divano, ancora ebbro del dolciastro profumo dell'altra, ed ha finto di notare che avessi dato una rinfrescatina all'appartamento. “Fresh start” ha scandito piano, innervando le tempie di vene ancora giovani e sottili. Poi mi ha guardato (“eye contact” si dice). E' seguito qualcosa che non saprei definire. Mai così bello, però. Ho anche dimenticato che per amare bisognerebbe desiderare: le due cose si sono impercettibilmente fuse, e le ho lasciate al loro destino.
Chiudo il racconto seduto tra i grandi manifesti anteguerra della stazione di Falconara, mentre anche Phyllis completa nel suo angolo una pagina di quel diario che poi rifermerà col chiavino. Aspettiamo il treno per l'aeroporto. Questo è un posto di confine che non sa di esserlo. Il mare sciaborda spaventoso appena dietro la linea dei carri merci, ma qui dentro c'è pace. Ad un tavolo si gioca a tressette rinfacciandosi le mosse errate nella più bella inflessione d'Italia. Anche un maresciallo, un po' sudato, fin troppo intento ad un caffè che voleva ristretto, ed invece ora gli sembra troppo lungo, mi sorride. Ha guardato con curiosità i nostri grandi zaini da ragazzi ed i nostri capelli poco intonati, e si è rincuorato forse. Non sa dell'udienza evidentemente. Né della ragazza sullo scoglio.
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2007 pg. 204 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2010 pg. 200 - A5 (13,5X21) COPRIGIDA
Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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