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Tommy spinse la porta ed entrò nei cessi. Si trattenne lo stomaco con una mano. Un conato lo costrinse a piegarsi, ma per fortuna non gli rivoltò le interiora. Si guardò attorno. Un negro robusto e trendy si lavava le mani dopo aver pisciato, mentre con le gambe seguiva il ritmo di Spitfire dei Prodigy. Due froci si slinguavano con ardore, strusciandosi e palpandosi dappertutto. Un tipo fighetto in giacca e cravatta si risistemava allo specchio la laccatura dei capelli. Tommy si gettò in uno dei cubicoli e restò in attesa. Un nuovo rigurgito esplose, e un getto di succhi gastrici si riversò sul water. Le lacrime quasi lo accecarono. Stava da schifo. Voleva andarsene a casa. Rivolse rapide occhiate al negro, ai froci e al fighetto e schizzò fuori. Si diresse all’uscita. Ora c’era un remix cattivissimo di Moby. Oltre la folla ondeggiante, scorse un cioccolataio. Finalmente. Forse un’altra pasticca avrebbe cancellato il malessere. Si avvicinò, allungò all’uomo l’ultimo bigliettone da cinquanta e ricevette il confetto verde. Se lo mise in tasca. Si avviò all’ingresso. Uscì. Gli parve che le luci si abbassassero. Che la musica si affievolisse. Fu come entrare in un tunnel. Fece tre passi e si sentì spingere da dietro. Di colpo tornò tutto normale, ma era sbucato di nuovo nel cesso. Tommy scosse la testa sbigottito e fissò la stanza. C’erano il negro, i finocchi e il fighetto. Il negro si lavava le mani, i froci si baciavano, il belloccio si aggiustava i ciuffi. Che cazzo stava succedendo? Lo stomaco si contrasse, ma di paura. Spinse la porta. Il baccano del remix di Moby lo travolse. Tutti si agitavano come pazzi con la cacarella. Tommy si diresse ancora all’uscita. Rivide il cioccolataio nella stessa posizione di prima. Si fece largo tra i corpi e varcò la porta con passò deciso. Visse una specie di dissolvenza. Luci fioche e musica lontanissima. Ricevette un’altra spinta da dietro e caracollò nel bagno, rischiando di cadere. Il negro era lì. I finocchi si strusciavano senza sosta. Il fighetto riordinava ciocche lucide di gelatina. Il disco di Moby suonava lo stesso passaggio per la seconda volta. Tommy si mise le mani nei capelli. Era imprigionato in quella schifosissima discoteca, e li odiava quegli stronzi nel bagno! La nausea gli afferrò lo stomaco. Il cervello gli si annebbiò. Forse doveva vomitare ancora. Si catapultò nel cubicolo più vicino e s’irrigidì per uno spasmo tremendo. Si piegò sulle ginocchia e rigettò saliva collosa e amara. Uno straccio avrebbe avuto una salute migliore, al suo confronto. Spinse la porta basculante e uscì. Dedicò ai quattro stronzi un’occhiata di disprezzo. Se ne sarebbe andato da quel postaccio. Ve la faccio vedere io, pensò. Ora me ne faccio un’altra. Prese dalla tasca il confetto verde e lo fissò con aria di sfida. Lo ingoiò con un’unica rabbiosa contrazione della gola. Varcò la soglia e ci fu l’ennesima dissolvenza. Poi la spinta. Si ritrovò nel cubicolo del cesso. - Che cazzo di scherzo è? – urlò con voce stridula. Diede una spallata alla porta basculante e, a testa bassa, provò a uscire. Dissolvenza. Spinta. Di nuovo Moby, nello stesso punto delle altre volte. Tommy era bloccato nel cubicolo. Si sentì mancare. Gli effetti speciali della pasticca cominciavano a manifestarsi con allucinante rapidità. Barcollò, annaspò contro la tazza del cesso e si accasciò vicino alla parete. Stava per morire, ne era certo. - Ehi, negro, mi senti? – farneticò. – Ehi, froci, vi divertite alle mie spalle? Uh? Una risata distorta e asmatica risalì dalla gola ustionata dagli acidi. Tommy strisciò verso la porta e fece un ultimo tentativo di evadere. Le luci inesorabilmente si affievolivano. La musica s’indeboliva. Il tunnel. La spinta. Riappariva sempre in quel lercio buco di culo. Tommy pianse e rise finché poté, poi qualcuno bussò. Era ultrastordito e fiaccato dagli acidi che gli strizzavano i neuroni, ma riuscì a chiedere: - Chi cazzo sei? - Un amico – disse una voce maschile gelida e cavernosa. - Chi… che minchia vuoi? - Non sei in forma, mi pare. Lui rispose con un mugugno malato. - Lo sapevi che certe cose non si fanno. Lo hai sempre saputo. - Vaffanculo! – si lasciò sfuggire Tommy, mettendo a dura prova le viscere avvelenate. - Mi dispiace – disse l’uomo, dall’altro lato della porta – ma purtroppo è andata così. Ti sei bruciato il cervello un po’ alla volta. Alla fine qualcosa si è rotto dentro di te. Sei fatto pur sempre di carne e ossa, e il veleno uccide sia la carne che le ossa. Non sei indistruttibile, Tommy. - Non me ne frega niente – piagnucolò lui, battendosi pugni disperati sulla fronte. - Faccio solo il mio lavoro – precisò lo sconosciuto. – Tiro fuori dal Labirinto quelli come te. Tommy non ascoltava quasi più. Correnti di lacerante dolore lo attraversavano, rendendolo pressoché cieco e sordo. - Verrai con me. In un certo senso guarirai. - Voglio… - rantolò Tommy. Poi trasse tre faticose boccate d’ossigeno. - …Andare… - Un’altra lunga boccata. - … a casa. - Temo non sia possibile – concluse l’uomo dalla voce gelida. La porta basculante si spalancò. Il gelo lo avvolse. Tommy guardò il viso terribile dello sconosciuto. Nell’ultimo istante capì che non c’era luce alla fine del tunnel.
©
Emiliano Maramonte
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