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“Perfetto, assolutamente perfetto”, esclamò John Dryden facendo un passo indietro per ammirare meglio il suo capolavoro. Il robot si era vestito indossando senza troppe difficoltà gli abiti che John Dryden gli aveva dato, aveva solo rotto il primo paio di collant. Adesso che la vestizione era completa, il risultato era sbalorditivo: nessuno avrebbe detto, guardandola, di trovarsi di fronte ad una creatura artificiale, il robot era in tutto e per tutto identico ad una giovane donna; non ad una giovane donna qualsiasi, ad Elisabeth Dryden, la moglie di John. Lui allungò la mano e sfiorò la guancia del robot: perfetto, quei tessuti sintetici ad elevata polimerizzazione studiati per le protesi, avevano non soltanto un aspetto visivamente non distinguibile ma anche una grana e una consistenza al tatto identiche alla pelle ed alla carne umane. “Elisabeth”, chiese con un tono che mostrava un’apparente sollecitudine, “Va tutto bene?” “Si, bene”, rispose il robot, “Un po’ stanca, ma bene”. Perfetto. Il robot non aveva una vera intelligenza, era semplicemente una macchina che aveva inserite nella sua programmazione delle risposte programmate a determinate domande - stimolo; certo, non sarebbe stato in grado di sostenere una conversazione complessa, ma se era per questo, neppure Elisabeth lo era. John Dryden era un ingegnere informatico che lavorava alla programmazione dei robot industriali. Da lungo tempo non c’erano difficoltà per la realizzazione di un robot di forma umana, non lo si faceva semplicemente perché la forma umana non era la più adatta per compiere i movimenti richiesti dalle catene di montaggio automatizzate. C’erano poi le protesi biomediche: ormai da tempo si disponeva di una tecnologia estremamente sofisticata per venire incontro alle vittime di incidenti e menomazioni di ogni genere, che erano diventate esteriormente indistinguibili dalle parti anatomiche naturali, sia per gli arti sia per qualsiasi altra parte del corpo, compresi pelle, capelli, occhi, denti. Era possibile stringere una mano senza sapere se si era formata all’interno di un utero, era cresciuta e poi invecchiata per qualche decina d’anni, o se invece era stata prodotta in qualche laboratorio di biomeccanica. Bastava unire le due cose ed aggiungerci un “cervello” non troppo sofisticato, una centralina accuratamente programmata con una serie di risposte prestabilite ad altrettanti stimoli, ed il gioco era fatto. Detto così sembrava semplice, ma in concreto erano occorsi parecchi mesi di lavoro svolti ad ora tarda e nel più assoluto segreto, una lunga fila di notti insonni, ma ne era valsa la pena! Dentro di sé, aveva già deciso di chiamarla R- Elisabeth, con la “R” davanti al nome, come i robot della fantascienza dei racconti di Isaac Asimov. “Vieni, cara”, disse, “Andiamo a casa!” R- Elisabeth non aveva una risposta verbale programmata per quell’affermazione, ma la cosa non costituiva un problema, si limitò a seguire docilmente John Dryden, e questo era l’essenziale. Gli venne da sorridere a pensare che adesso non c’era più la necessità di ricorrere a sotterfugi: se qualcuno l’avesse visto con il robot, avrebbe pensato semplicemente che sua moglie era venuta a trovarlo sul lavoro e che ora rincasavano assieme. Tallonato dal robot che lo seguiva come un cagnolino, John Dryden uscì dal laboratorio, si recò al parcheggio e prese posto in macchina. In giro non notò nessuno, e questo quasi gli dispiacque: se qualcuno avesse visto il robot, avrebbe avuto l’impressione che i Dryden erano una coppia che andava d’amore e d’accordo. “Allacciati la cintura, cara”, disse al robot, e mentre questi eseguiva, gli parve stupendamente ironico il fatto di rivolgersi in modo affettuoso ad una creatura meccanica, un congegno. Mentre saliva con le marce uscendo dal parcheggio ed entrando nella parte più meccanica della guida, John Dryden sapeva di avere tutto il tempo per rilassarsi e pensare. I robot, le prime storie di fantascienza erano piene di robot cattivi dagli istinti omicidi, ribelli ai loro creatori; lo stesso Frankenstein, anche se il mostro immaginato da Mary Shelley era piuttosto un organismo, non una macchina. Un pensiero di fondo religioso, la ribellione della creatura come punizione divina per l’atto di orgoglio prometeico, per l’hybris dell’uomo che aveva osato arrogarsi il diritto di creare la vita, l’intelligenza, l’umanità artificiale. Poi era arrivato Asimov. Il “buon dottore” aveva inventato le tre leggi della robotica per porre gli esseri artificiali in una luce positiva, leggi che impedivano loro di nuocere agli umani, imponevano loro l’obbedienza e li dotavano di una sorta d’istinto di conservazione; qualcosa di simile a degli istinti, appunto, ed anche questo era sbagliato, poteva funzionare solo a livello di finzione letteraria, dava per scontato che assieme alla forma antropomorfa il robot avesse in qualche misura ricevuto una personalità, un’identità. La realtà era ben diversa: una macchina, per quanto complessa, rimane sempre tale, e non fa, non può fare niente altro che quello che è stata programmata per fare, e se la programmavi per compiere un omicidio, le tre leggi di Asimov non ci potevano assolutamente nulla. Ripensò ad Elisabeth, c’era stato un periodo in cui si era convinto di amare effettivamente quella donna: un uomo non è un robot, è un animale, un mammifero dotato di un meccanismo ormonale e di un sistema limbico; un bel corpo, un bel faccino, una serie di reazioni semi - infantili aiutano a crearsi un’illusione, specialmente se la ragazza è di buona famiglia e gli agganci dei genitori di lei aiutano professionalmente, ed un uomo si trova attaccato ad una zavorra che, in cambio di qualche soddisfazione a letto sempre meno frequente, condiziona l’esistenza con le sue paturnie, i suoi mali di testa, le sue voglie infantili, le sue crisi premestruali. John Dryden cacciò un profondo sospiro: quasi tutti i suoi conoscenti della sua età erano divorziati, anche se diversi di loro, per masochismo o smemoratezza, o forse per l’illusione di aver trovato una donna diversa dalle altre, erano ormai al secondo matrimonio. Ci aveva pensato spesso, e si era reso conto di essere in una situazione senza sbocchi: suo suocero era un uomo importante nell’azienda nella quale lavorava, era grazie a lui che si era fatto una posizione, ma quell’uomo, così come gli aveva assicurato una rapida carriera, gliela poteva anche distruggere, poi, se avesse dovuto versare ad Elisabeth che non aveva fonti di sostentamento proprie, metà del suo reddito, sapeva che il suo tenore di vita avrebbe subito un brusco tracollo. Non c’era che una soluzione: sbarazzarsi della moglie senza chiasso. Immerso nei suoi pensieri, John Dryden quasi non si accorse di essere arrivato davanti a casa. Parcheggiò, scese ed andò ad aprire la portiera sinistra per far scendere il robot in quella che sarebbe sembrata una piccola galanteria da coppia bene affiatata. Elisabeth era in salotto, seduta davanti alla televisione. John Dryden passando accanto alla cucina, notò che non aveva preparato pranzo. La donna si alzò e lo fissò con uno sguardo furibondo. “Sei il solito disgraziato!”, sibilò, “Cosa ti costava avvertire che avresti fatto quest’ora?” La collera di Elisabeth si trasformò di colpo in sbigottimento quando vide il robot che avanzava dietro suo marito, uno sbigottimento che forse non fece in tempo a trasformarsi in paura. Nel creare R- Elisabeth, John Dryden ci aveva messo per davvero il meglio di sé: la creatura artificiale aveva la stessa apparenza fragile e femminile di una donna in carne ed ossa, ma sotto il materiale plastico che imitava perfettamente la pelle umana, le sue mani e le sue braccia erano di acciaio. Quelle mani e quelle braccia scattarono al collo del modello che l’aveva ispirata, la vera Elisabeth. John Dryden rabbrividì udendo lo schianto secco delle vertebre cervicali che si rompevano. Era fatta: adesso Elisabeth ciondolava nelle mani della sua gemella come una bambola di stracci. Nonostante tutto, John Dryden provò una specie di sensazione di sollievo, forse aveva nutrito una sorta di apprensione inconscia che dopotutto le tre leggi della robotica ci fossero davvero nella testa della sua creatura, nascoste da qualche parte, ad impedirle di fare ciò per cui era stata programmata. John Dryden dettò rapidamente una serie di istruzioni a R- Elisabeth e si allontanò, prese l’automobile e si accinse a fare un giro di un’ora per città. In fondo, lui quella donna l’aveva amata od aveva creduto di amarla per un certo periodo della sua vita, non voleva stare a guardare mente il robot ne faceva a pezzi il corpo. Elisabeth si era chiesta spesso perché lui avesse insistito per comperare un tritarifiuti - inceneritore così capiente, ben al di sopra della loro produzione giornaliera d’immondizia. Certo, se la polizia avesse esaminato quell’attrezzatura, si sarebbe accorta che lì era stato distrutto un corpo umano, ma, vedendo R- Elisabeth, nessuno avrebbe avuto motivo di pensare che era stato commesso un delitto. Chi penserebbe mai ad un omicidio vedendo la vittima apparentemente viva ed in buona salute? John Dryden si sentiva quasi ilare: aveva commesso il delitto perfetto per la buona ragione che nessuno avrebbe mai indagato, non gli serviva nemmeno un alibi.
Seguendo la precisa programmazione che aveva ricevuto, il robot squartò il corpo di Elisabeth con l’accuratezza, se non proprio di un chirurgo, di uno scrupoloso macellaio, e passò le varie parti prima nel tritarifiuti poi nell’inceneritore dove finirono anche i vestiti che aveva indossato per fare a pezzi la sua vittima, poi seppellì le ceneri di Elisabeth in un angolo del giardino. Spianata accuratamente l’ultima badilata di terra, ritornò in casa e ripulì tutto con la candeggina facendo attenzione a cancellare anche la più piccola traccia di sangue poi, come Elisabeth usava fare, si sedette davanti alla televisione ad aspettare. Quando John Dryden rincasò, la casa era in ordine perfetto.
I primi giorni dopo il delitto John Dryden si sentì combattuto fra sentimenti contrastanti: a volte provava un vago senso di colpa che cercava di ricacciare indietro dicendosi di aver fatto bene a liberarsi di un parassita, di una zavorra che gli aveva tarpato le ali, che aveva limitato l’espandersi della sua creatività con le sue mille piccole, continue, frignanti esigenze. Tra Elisabeth e R- Elisabeth, tra l’originale e la copia, ci aveva senz’altro guadagnato, almeno era di questo che cercava di persuadersi. A differenza di Elisabeth, il robot era sempre docile ed ubbidiente, teneva la casa in perfetto ordine, gli cucinava i pasti, non si lamentava e non gli metteva mai il broncio quando arrivava a casa in ritardo, soprattutto non gli faceva mai storie e non accusava terrificanti mali di testa la sera a letto. John Dryden aveva dotato la sua creatura della consistenza, delle rotondità, della sensazione tattile di un corpo femminile, concedendosi anche qualche lieve miglioramento rispetto all’originale, ad esempio, niente cuscinetti di adipe sulle natiche, niente pelle a buccia d’arancia, ed anche di una vagina perfettamente funzionante, o per meglio dire, impiegabile. Certo, gli amplessi risultavano un po’ … meccanici, ma nella vita non si può avere tutto. John Dryden era felice, od almeno faceva di tutto per persuadersi di esserlo. Una donna che fa la casalinga, non svolge un’attività lavorativa e non ha figli, non ha bisogno di essere intelligente, non le è richiesto di esserlo. Poche risposte stereotipate ad una serie di stimoli altrettanto stereotipi sono sufficienti praticamente per tutte le circostanze della sua vita. Il primo collaudo era stato quando R- Elisabeth si era recata a fare la spesa al supermercato. John Dryden l’aveva attesa ansiosamente in macchina fuori nel parcheggio, ma il robot aveva svolto egregiamente il suo compito. Qualche tempo più tardi aveva deciso di affrontare l’impegno più rischioso, un party in casa con le amiche di Elisabeth. Quel giorno non era andato al lavoro, simulando un’indisposizione. Steso sul letto nella camera attigua al salotto, John Dryden con l’orecchio incollato alla parete, rimase ad ascoltare la conversazione, temendo ad ogni momento che R- Elisabeth potesse tradirsi, ma non c’era pericolo: il semplice meccanismo stimolo - risposta che aveva inserito nella programmazione della sua creatura era perfettamente adeguato a permetterle di sostenere una conversazione nella quale si supponeva che a frasi stereotipe e banali si rispondesse con altrettanto stereotipate banalità.
John Dryden era preoccupato mentre rientrava in macchina dal lavoro. Come d’abitudine, mentre la guida era un’operazione automatica cui dedicava un basso livello di attenzione, la parte più creativa della sua mente vagava e rifletteva per risolvere i problemi che man mano si presentavano. R- Elisabeth non era che fosse esattamente un problema, ma lo sarebbe potuto diventare. Per forza di cose, per consentirle di recitare sempre meglio il ruolo della sua defunta moglie, l’aveva dotata di una programmazione aperta, in grado di ampliare con l’esperienza il repertorio di risposte programmate, in modo da adeguarsi ad una gamma sempre più ampia di stimoli. R- Elisabeth aveva manifestato una tendenza a cercarsi nuovi stimoli per conto proprio, ad esempio passava spesso molto tempo davanti alla televisione (proprio come la vera Elisabeth) o sfogliava libri (cosa che Elisabeth non aveva fatto mai). Questo non voleva dire che non rimanesse una macchina, ma in definitiva una macchina che cosa significava? Anche gli esseri viventi erano delle macchine, macchine organiche di straordinaria complessità. Un computer è una macchina notevolmente più complessa di un’automobile (strumentazione elettronica a parte), che a sua volta supera di gran lunga gli apparati semplici in uso nelle epoche pre - industriali: un mulino, un mantice, un tornio a mano, una complessità che può essere quantificata in termini d’informazione contenuta. Un robot sofisticato come R- Elisabeth superava di alcuni ordini di grandezza un comune PC per uso domestico, anche se rimaneva parecchio indietro rispetto alla complessità, alla quantità d’informazione contenuta nelle strutture degli esseri viventi, tanto più di una creatura intelligente con un’elevata organizzazione cerebrale come l’uomo, ma dove era il punto esatto a partire dal quale si poteva cominciare a parlare di autocoscienza, di “io”? Ecco una domanda disperatamente senza risposta: non occorreva la sofisticata evoluzione cerebrale dell’uomo perché parlare di “io” fosse possibile; anche un semplice verme aveva un “io” rudimentale, un qualche senso della propria identità, se cercava di sfuggire ai predatori e di evitare le sensazioni dolorose. John Dryden aveva la testa piena di questi pensieri inquietanti mentre, dopo aver parcheggiato, percorreva il vialetto davanti all’ingresso di casa. Aprì la porta. In casa stagnava un odore di bruciato che proveniva dai fornelli della cucina dove il pranzo aveva finito di carbonizzarsi. R- Elisabeth era seduta davanti al televisore in salotto, e stava “bevendo” un programma televisivo con la stessa intensità con cui l’avrebbe fatto il suo originale. Era la programmazione, naturalmente, la programmazione aperta che John Dryden le aveva dato, e che la spingeva a ricercare sempre nuovi stimoli, ma per l’uomo quello, in quel momento, era il ritorno di un incubo di cui pensava di essersi liberato. “Brutta deficiente!”, urlò, “Presta un po’ di attenzione a quello che fai!” John Dryden si rese subito conto di aver commesso un grave errore: infuriarsi con una macchina non serve a nulla, e con una macchina sofisticata come R- Elisabeth poteva anche essere pericoloso, e R- Elisabeth era una macchina e nient’altro, ma era stato tratto in inganno dai suoi pensieri, oltre che dall’aspetto antropomorfo della sua creatura, identica alla sua defunta moglie. Si rese conto di essere stato sciocco, solo che se ne rese conto troppo tardi: l’aveva programmato lui il robot per reagire con un’aggressione ad uno scatto di violenza verbale, in modo che lo sbarazzasse di Elisabeth. Le braccia e le mani del robot scattarono attorno al suo collo, e sotto il tessuto plastico che simulava la carne, avevano uno scheletro d’acciaio… erano forti, terribilmente forti. Prima di perdere conoscenza, John Dryden fece in tempo a sentire lo schianto secco delle proprie vertebre cervicali che si spezzavano.
Seguendo la precisa programmazione che aveva ricevuto, il robot squartò il corpo di John Dryden con l’accuratezza, se non proprio di un chirurgo, di uno scrupoloso macellaio, e passò le varie parti prima nel tritarifiuti, poi nell’inceneritore, dove finirono anche i vestiti che aveva indossato per fare a pezzi la sua vittima, poi seppellì le ceneri di John Dryden in un angolo del giardino. Spianata accuratamente l’ultima badilata di terra, ritornò in casa e ripulì tutto con la candeggina, facendo attenzione a cancellare con cura anche la più piccola traccia di sangue, poi, come usava fare Elisabeth, si sedette davanti al televisore ad aspettare. Quando R- Elisabeth si mise davanti all’apparecchio televisivo, la casa era in ordine perfetto.
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Fabio Calabrese
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