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Lo spazzino
di Massimo Burioni
Pubblicato su SITO


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Mi chiamo Luigi e per guadagnarmi il pane faccio lo spazzino. L’operatore ecologico, come si dice adesso. Ma facendo lo spazzino si guadagna poco, e oggigiorno i soldi non bastano mai. Allora per vivere più dignitosamente, vendo droga. Ma non a tutti, solo agli amici. E da un po’ di tempo anche ai figli degli amici. E questo un po’ mi preoccupa, e mi dà da pensare, perché significa che sto invecchiando.
Eh si! Sembra ieri quando decisi di andarmene da questo paesino di montagna per cercare fortuna in città. Sembra ieri, e invece sono passati quasi trenta anni. Allora credevo che bastasse staccarsi dalle spire avvolgenti e confortevolmente soffocanti della famiglia, per riuscire nella vita, per essere qualcuno e, in definitiva, per fare i soldi. Che tanto nella vita contano solamente i soldi.
I miei vecchi lo dicevano sempre; senza soldi non sei nessuno, senza soldi non si va da nessuna parte, senza soldi nessuno ti vuole. E come prova del nove della validità del teorema dell’avere e dell’essere; se hai i soldi sei qualcuno, con i soldi vai dove vuoi, se hai i soldi tutti ti cercano.
I miei genitori i soldi non li avevano, e forse sarà stato per questo che ne parlavano in continuazione. Come tutti i poveracci di questo mondo, anche loro erano ossessionati dal denaro, assillati dal chiodo fisso del denaro; il tempo è denaro, non si fa niente per niente, risparmia Luigi che poi te li ritrovi. I ricchi, quelli veri, loro, non parlano mai di soldi, perché non è fine. E meno ne parlano più ne accumulano. E più ne spendono più ne fanno. Ci deve essere una relazione tra il fare soldi e parlarne poco, ma non sono mai riuscito a trovarla.

Quando avevo sedici anni tutti i miei amici fumavano sigarette; Marlboro e Camel erano le marche preferite. Qualcuno se le faceva con il tabacco sfuso e le cartine, forse per risparmiare, o per sembrare più originale. Io fumavo raramente, quando me le offrivano, perché di comprarne non se ne parlava proprio. Mi sarebbe piaciuto avere il mio bel pacchetto in tasca, tirarlo fuori con gesto sicuro ed accendermene una delle mie. Magari offrirne anche, qualche volta, per ricambiare. Ma i miei dicevano che non c’era modo peggiore per buttare via i soldi che comprarci le sigarette. Fumare significa mandarli letteralmente in fumo, i quattrini, diceva mia mamma, e poi rideva come se quella battuta stravecchia l’avesse inventata lei. E poi il fumo fa male due volte, ai polmoni e al portafoglio, aggiungeva il babbo, riuscendo ad essere ancora meno originale della mamma. Comunque, dagli e ridagli, anche io alla fine cominciai a pensarla così, e quindi le sigarette non le compravo, tanto c’era sempre qualche amico che ne aveva e che ne offriva. Specialmente se del gruppo faceva parte qualche ragazza su cui fare colpo sfoggiando un bel pacchetto di bionde col filtro.
Io non fumavo e non bevevo, così risparmiavo e con i soldi risparmiati, a vent’anni, me ne andai in città. Un cugino di mio padre mi ospitò a casa sua per qualche settimana e mi trovò anche un lavoro; guardiano notturno in un deposito di container. Una palla di lavoro, noioso da morire e pagato male, ma mi pagavano ogni settimana e, visto che lavoravo di notte, dalle otto di sera alle cinque di mattina, dopo avere dormito sei o sette ore passavo il resto della giornata a cercarmi un lavoro migliore e possibilmente anche meglio pagato.
L’occasione arrivò il giorno in cui misi piede negli uffici di una fabbrica di camicie. Il titolare, un cinquantenne impomatato dallo sguardo rapace e dai modi frenetici, mi strinse la mano con forza e dopo pochi minuti di chiacchierata si convinse che ero la persona giusta. Tu farai strada, ragazzo, mi disse fulminandomi con un’occhiata luciferina che mi scaldò il cuore. Fu una frase premonitrice. Come spazzino comunale di strada ne ho fatta tanta e continuo a farne tutti i giorni. Ma di sicuro lui non intendeva questo. Quando capì che per soldi ero disposto a sgobbare duro, senza orari e senza tirarmi indietro di fronte a niente, mi mise alla prova.
Le camicie prodotte in fabbrica gli costavano una cifra, perché il personale assunto con regolare contratto ha dei costi fissi, la mutua, le ferie, la maternità, senza contare i sindacati dietro che rompono ogni volta che cerchi di aumentare la produttività. Ma se le camicie le fai cucire alle sartine indipendenti, allora i costi si riducono drasticamente, perché a loro paghi solo il lavoro di cucitura, cioè l’assemblaggio dei pezzi già tagliati, che di per sé rappresenta una sciocchezza, ed il gioco è fatto. Il tutto senza fatturare, s’intende. Così ci guadagnano sia il camiciaio sia le sarte. E dunque il mio lavoro consisteva nel rifornire di tagli le sarte sparse nel raggio di duecento chilometri, spingerle a lavorare velocemente e ritirare le camicie finite. Il dieci per cento del valore di ogni camicia mi veniva in tasca. Quelli furono anni di pura adrenalina, alla guida del furgone mi sciroppavo anche seicento chilometri al giorno. Consegnavo il lavoro ad un numero sempre crescente di donne che visitavo almeno una volta alla settimana, lasciavo il lavoro da fare e ritiravo quello fatto. Due saluti, una battuta salace, buongiorno e buonasera e via pestare acceleratore e frizione fino alla consegna successiva. Lavoravo come un negro, ma il mio conto in banca lievitava a vista d’occhio. E poi qualche volta capitava anche di avere a che fare con signore che ti lasciavano capire che sarebbero state disponibili anche a servizi di tutt’altra natura, e allora mi prendevo una pausa, e per un paio d’ore trasformavo la Cenerentola di turno in una principessa soddisfatta, perché, modestamente, a letto me la sono sempre cavata bene, ed il sesso è l’unico genere di scambio in cui mi sento altruista.
Tutto sommato era una vita monotona e ripetitiva, ma frenetica e molto stancante da tutti i punti di vista. Così il capo, che apprezzava la mia fame di soldi, perché ci si specchiava ed in me vedeva se stesso con una trentina di anni in meno sul groppone, mi svelò il segreto della sua inesauribile vitalità: due righe di polvere bianca da sniffare quando sentivi che la lucidità veniva meno e …woooops! …in pochi attimi eccoti bello carico, tirato a lucido e con mille idee che ti scaldavano il cervello.

Maledetta cocaina, non avrei dovuto farlo, ma era gratis, offriva lui, all’inizio, e così non me la sentivo di rifiutare, anche per una certa forma di riconoscenza. Quell’uomo aveva trasformato un giovane e sprovveduto montanaro in un vero e proprio uomo d’affari, un businessman, e prometteva di farmi diventare ancora più importante e più ricco se fossi stato disposto a qualche sacrificio in più. Ed io ero geneticamente predisposto per fare soldi. Comunque, per farla breve, i miei giri di consegna e ritiro delle camicie cominciarono ad includere qualche deviazione per piccole consegne di anonimi pacchetti a persone sempre diverse. Persone che non si presentavano mai dicendo nome e cognome e che non mi chiedevano mai niente. In breve tempo i miei guadagni lievitarono ad altezze impensabili solo pochi mesi prima. I miei vecchi, al paese, erano molto fieri del figlio che si era fatto strada da solo, dicevano, senza l’aiuto di nessuno, e che adesso viaggiava alla guida di una grossa auto nera con i vetri fumè ed i sedili in pelle.

E fu proprio quando ero alla guida della mia Mercedes, a pochi chilometri dal paese, che successe quello che successe. I miei me lo avevano sempre detto di non fare niente per niente, e fino a quel maledetto momento avevo seguito il saggio consiglio. Ah! …se non avessi esitato in quell’attimo fatale, se avessi guardato dritto davanti a me, crogiolandomi al pensiero dell’ammirazione mista ad invidia che vedevo negli occhi dei miei compaesani ogni volta che parcheggiavo il macchinone nella piccola piazza del villaggio. Ah! …se avessi pensato solo al piacere che provavo ogni volta che in primavera sentivo l’odore acre che usciva dalle stalle delle pecore, svuotate da poco del letame accumulato durante il lungo inverno. Quell’odore acre che anche le mie maltrattate narici erano ancora in grado di sentire. L’odore che nella mia mente sovraeccitata associavo sempre agli anni della mia triste adolescenza, alla fatica del lavoro nei campi e nelle stalle, alla frustrazione di dovere lavorare come schiavi per guadagnare quattro soldi. Assaporare quell’essenza di onesta miseria, dopo essere sceso da un’auto che costava come una delle più belle case del paese, mi dava una sensazione di benessere avvolgente, ed un sorriso soddisfatto mi si apriva sul volto finalmente rilassato. Un volto altrimenti sempre tirato dallo stress che procura il mantenimento della ricchezza.
Ah! … se mi fossi concentrato solamente su questi pensieri dopanti, invece di frenare ed accostare al ciglio della strada, spinto più dalla curiosità che da un impulso di solidarietà nei confronti di un mio simile. Se non fossi sceso per vedere chi fosse quell’uomo steso supino sull’erba della banchina, con le gambe allungate ad invadere parte della carreggiata, forse le cose non sarebbero precipitate. A dire il vero, scesi pensando di trovare un cadavere, anche se a vederlo da vicino il vecchio Remo sembrava addormentato. Mi accosciai e, forzando l’istinto di repulsione che provavo per i vecchi in generale, e gli sollevai un polso tenendolo tra le dita della mia mano ben curata; la sua era grinzosa, molliccia, con le unghie sporche e piena di quelle macchie scure che, come i cerchi negli alberi, aumentano con l’aumentare dell’età. Era vivo, il vecchio Remo, il suo cuore non era ancora stanco di battere e di far scorrere sangue in quell’inutile corpo rinsecchito e raggrinzito. All’epoca del fatto era sicuramente più vicino ai novanta che agli ottanta, ma faceva parte di quella stirpe di uomini di altri tempi. Quelli che erano sopravvissuti alla fame ed alla disperazione prodotte due guerre mondiali, al clima infame della montagna quando il riscaldamento delle case era fornito dalle vacche al piano terra. Una stirpe di veri duri a morire, e dunque, anche in quell’occasione, il vecchio ribadiva la sua volontà di continuare a campare, a dispetto dell’età che lo aveva trasformato in un miserabile involucro che sopravviveva a spese del figlio. In paese dicevano che Franco, il figlio, se lo teneva in casa solo perché il vecchio riceveva due misere pensioni, che messe insieme erano sempre meglio di niente.
Insomma, constatato che non era morto, non ci pensai due volte, aprii lo sportello posteriore della macchina e sollevai il vecchio e, appoggiandomelo al petto, sentii che emanava un buon odore di tabacco trinciato. Per un attimo quel buon odore antico riportò in superficie il ricordo di mio nonno. Ma subito mi scrollai di dosso queste inutili nostalgie e depositai Remo in macchina allungandolo sul sedile.
Ah! Se avessi solamente immaginato le conseguenze del mio gesto avventato. Ma non lo immaginai, ed eccomi qui adesso a raccontarvi questa storia incredibile. Mi trovo al bordo della stessa strada, ma dentro un camioncino della nettezza urbana che oramai guido da tanti anni, e non più al volante di una scintillante Mercedes nera, con i vetri fumè ed i sedili in pelle che quel giorno accolsero il peso leggero del vecchio Remo.

Remo abitava con il figlio in una fattoria poco lontano dal punto dove l’avevo raccolto, e per arrivarci dovetti percorrere qualche centinaio di metri di strada di campagna, punteggiata di pozzanghere che si svuotavano al lento passaggio delle ruote larghe della Mercedes. Andavo piano per non sballottare il povero Remo, ma anche per non schizzare di fango la lucida carrozzeria dell’auto. Il nero è un bel colore per una bella macchina, ma tenerlo pulito è una missione impossibile.
Attraversai l’aia e parcheggiai il più vicino possibile alla porta di casa, per non saltellare come uno stambecco cercando di evitare di insozzare di fango le scarpe di pecari fatte su misura da Tonino, l’ultimo vero artigiano di tutta la regione.
Bussai alla porta usando il batacchio, un grosso anello di ferro che pendeva da una bocca di leone semi aperta. Nessuno aprì. Iniziai a fare il giro della casa chiamando il figlio del vecchio, un contadino di circa sessant’anni che rispondeva al nome di Franco. Anzi, non rispondeva affatto. Quando ricomparvi nell’aia vidi Franco in piedi di fianco alla macchina. La guardava, ma dall’espressione assorta che aveva sul suo viso capii che non aveva visto chi c’era all’interno, infatti si stava specchiando nel vetro di un finestrino.
- Franco! Finalmente…! – esclamai abbastanza contrariato per essermi sporcato le scarpe ed il risvolto dei pantaloni girando intorno alla casa.
Lui fu colto di sorpresa dalla mia voce, sobbalzò staccandosi dalla macchina e si girò verso di me con l’espressione di chi è stato sorpreso a fare qualcosa di proibito.
- Oh…, Luigi…, sei tu? Cosa ci fai da queste parti? Ti sei perso? – scherzò cercando di ritrovare la padronanza di sé che per pochi attimi aveva perduto.
- Macché perso, guarda bene dentro la macchina chi c’é… – dissi io avvicinandomi con cautela cercando i punti meno fangosi su cui poggiare le punte delle scarpe – …non lì, sul sedile di dietro.
- Oddio! Babbo…! – e con uno strattone alla maniglia aprì lo sportello e si chinò all’interno dell’abitacolo.
- Piano, fai piano – lo ammonii – tiriamolo fuori con cautela, potrebbe avere qualche osso rotto.
- Oddio, babbo, babbo, ma cos’è successo, com’è successo…! – e iniziò a singhiozzare.
Mentre lo tiravamo fuori per portarlo in casa, Franco non smise mai di chiamare il babbo e di piagnucolare come un bambino. La cosa mi fece una certa impressione. Non mi aspettavo una reazione così emotiva da un uomo che avevo sempre conosciuto come un rozzo contadino senza scrupoli che, come tutti i poveracci, pensava solo a lavorare e a mettere da parte i soldi. Pensai anche che facesse un po’ di scena per farmi credere che volesse bene a quel vecchio, e per smentire le dicerie sul suo conto e sul fatto delle pensioni.
Portammo Remo nella sua camera e lo adagiammo vestito com’era sul letto matrimoniale. Uno di quei reperti di antiquariato in ferro battuto, con la testata ornata da un lamierone decorato con motivi floreali, che per quasi sessant’anni aveva diviso con la moglie Giustina, una vecchia che aveva avuto il buon gusto di togliere il disturbo e di precederlo nell’aldilà da nemmeno un anno.
- Bisognerà chiamare il dottore – proposi ad un inebetito Franco che non la smetteva di piangere fissando quel mucchietto di ossa disteso sul letto.
- Si, si, certo – mormorò lui dopo qualche secondo. Poi si riscosse e partì in direzione del piccolo salotto di casa dove si trovava il telefono.
Mentre il contadino sfogliava un po’ confuso la rubrica alla ricerca del numero del medico, io mi attardai ad osservare quel vecchio che adesso, nella penombra della stanza, sembrava più morto che vivo. Il petto non si muoveva, allora per scrupolo controllai ancora una volta il polso, vincendo di nuovo il ribrezzo che mi provocava il contatto fisico con quella mano rinsecchita.
Il battito era quasi impercettibile, più una sensazione che un vero e proprio pulsare, ma evidentemente Remo era ancora vivo. Non proprio in forma, ma vivo.
Mentre ero concentrato sui deboli battiti del suo cuore, il mio udito periferico ascoltava svogliatamente la conversazione telefonica di Franco con il dottore. Quando mi resi conto di cosa gli stava dicendo ebbi un attimo di panico, poi mi fiondai nel salotto come una furia.
- …è stato Luigi, il figlio di Saverio, si quello che vive fuori, si, si, dottore, l’ha investito… - stava ribadendo in lacrime, mentre fissava un quadro appeso alla parete che ritraeva due buoi al lavoro nei campi - …è stato un incidente, …ah, chiami lei la Polizia per favore che io non ho il numero qui…, no, no, non perde sangue, ma è bianco come un morto, ho paura che non resisterà molto, faccia presto, faccia presto…! – e riattaccò prima che io potessi strappargli la cornetta di mano.
- Ehi Franco, ma cosa cazzo gli hai raccontato, guarda che non c’è stato nessun incidente, io l’ho raccolto da terra e l’ho portato qui, ma non c’è stato nessun incidente. Guarda che non so cosa sia successo al tuo babbo, ma di sicuro non sono stato io…
- Questo lo stabilirà la Polizia – mi interruppe lui fissandomi serio.
Macché Polizia e Polizia, io quello che dovevo fare l’ho fatto, per cui adesso ti saluto e me ne vado, che ho altro da fare io, che stare qui a discutere con uno scemo che invece di essermi riconoscente per avere soccorso ‘sto vecchio bacucco mi accusa di averlo messo sotto con la macchina…!
Sbattei la porta dietro di me e mi avviai verso la macchina incazzato come un bufalo, ma anche un po’ impaurito per la piega che stava prendendo la situazione.
- Cazzo! – ripetei più volte – la Polizia proprio no… - ed entrai in macchina. Ma quando alzai la testa per fare manovra rimasi paralizzato. Quel coglione di Franco stava ritto sulla soglia di casa con il fucile da caccia imbracciato e puntato nella mia direzione.
- Tu non ti muovi da lì! – berciò. E da come lo disse capii che non avrebbe esitato a sparare, ed il solo pensiero mi fece sentire freddo in tutto il corpo. Poi pensai che magari avrebbe tirato sulla macchina, o alle gomme, ma questo non bastò a farmi stare meglio. Non so se vi siete mai trovati di fronte ad un uomo che piange e vi punta in faccia un fucile. Per me era la prima volta e vi assicuro che la vostra vista si concentra sull’arma e non vede nient’altro. Il mondo che vi circonda si riduce ad una canna di fucile. Due, in quel caso, perché Franco mi puntava addosso una doppietta. A peggiorare la situazione mi balenò in mente che il fucile poteva essere caricato con cartucce da cinghiale. Nell’istante in cui pensai questa cosa, sentii il rumore inconfondibile dei travasi intestinali, una specie di glu, glu, glu, ed ebbi paura di farmela addosso, lì, sul sedile in pelle beige della mia Mercedes. Quello che Franco non sapeva, oltre ai milioni di altre cose che ignorava per carenze sue intellettive, era che nel porta documenti della mia bella automobile c’era un pacchettino con trenta grammi di cocaina.

Adesso vi spiego. Ogni volta che venivo a trascorrere un po’ di giorni al paese, non mi presentavo mai a mani vuote, ma mi portavo dietro qualcosa da dividere con i vecchi amici di un tempo. Per me era come sdebitarmi di tutte le volte che avevo scroccato sigarette. La coca non la vendevo agli amici, allora, ma la sniffavo insieme a loro. Inoltre, questi regali molto apprezzati mi mettevano in una situazione di privilegio. Io ero quello più atteso, non c’era festa ben organizzata che non prevedesse la mia presenza. In paese tutti mormoravano che io fossi uno spacciatore, ma nessuno si azzardava a dirlo a voce alta. Ero uno che aveva fatto i soldi, e dunque, in quella comunità di poveri lavoratori ignoranti, beneficiavo del rispetto dovuto a chi si è distinto nel mondo degli affari e della produzione industriale.
Ah! Bei tempi quelli, quando al solo vedermi arrivare l’atmosfera cambiava come d’incanto. Gli occhi dei miei amici si illuminavano di aspettative, le ragazze facevano a gara a chi squittiva più forte, e io finivo immancabilmente la serata tra le gambe di qualche bella ventenne strafatta e pronta a tutto per farmi divertire come si deve.

Ma in quell’aia fangosa, con un fucile puntato addosso, vi assicuro che non pensavo a belle tette, bei culi ed altre amenità femminili, ma sudavo freddo e trattenevo un crescente bisogno di svuotare gli intestini. Rimanemmo nelle nostre posizioni per un tempo che mi parve lunghissimo. Io non tentai nemmeno di convincerlo ad abbassare la doppietta, e lui non l’abbassò mai. Fissavo con gli occhi del terrore il contadino che non batteva ciglio e continuava a tenermi sotto tiro. Ogni tanto annuiva lentamente, e sulla guancia mal rasata appoggiata al fucile gli si stampava una smorfia, una specie di sorriso di soddisfazione. Riconobbi sul volto dell’uomo lo sguardo eccitato del cacciatore che non aspetta altro che una scusa per premere il grilletto. Poi in quello sguardo vidi anche qualcosa che conoscevo bene, e allora capii il perché di quel comportamento apparentemente insensato: i soldi! Franco adesso non piangeva più per il vecchio, ma i quattro neuroni che aveva in testa stavano rapidamente calcolando quanto avrebbe potuto ricavare dall’incidente a spese di quel ricco giovanotto arrogante. Ai suoi occhi venali, e venatori, io rappresentavo solamente un’opportunità di fare soldi. E forse, a quel punto, sperava anche che il vecchio tirasse le cuoia; omicidio colposo invece di procurate lesioni o infermità. Tutto un altro paio di maniche. Quando realizzai che cosa girava nella testa del contadino capii che non mi avrebbe mai lasciato andare via e mi rassegnai.

Arrivarono insieme, il dottore e la Polizia. Lui con la panda 4x4 verde scuro e i due poliziotti con la canonica Alfa Romeo color Polizia. Quando videro la scena, i due poliziotti scesero dalla gazzella e d’istinto estrassero le pistole puntandole nella stessa direzione del fucile. Io mi congelai sul posto, come un camaleonte presi il colore dei sedili di pelle e smisi anche di respirare.
- Fermi tutti dove siete! Che nessuno si muova! – urlarono a squarciagola i due poliziotti sovrapponendo i due ordini. Anche il dottore si pietrificò dentro la Panda.

Insomma, non sto qui a tirarla per le lunghe. La Polizia frugò la macchina in cerca dei documenti e trovò il pacchettino. La storia dell’incidente passò in secondo piano. Per di più il vecchio Remo, che aveva avuto un semplice mancamento, un calo di pressione, si riprese e raccontò di essersi sentito male mentre passeggiava sulla strada. Alla faccia dei piani di quel bastardo di suo figlio. Ma per me ci fu comunque l’arresto immediato per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Si, sostanze, al plurale, perché insieme alla coca avevo anche un panetto di marocchino per i più giovani del gruppo.

La conseguenza dell’unica buona azione della mia vita fino a quel momento fu la fine di quella stessa vita, di tutti i miei sogni di ricchezza e di grandezza. La fine di tutto. Sei anni di galera mi diedero, senza sconti. Libero sulla parola dopo tre anni di gabbio, beneficiai di un programma di recupero per ex tossici e galeotti. In seguito, grazie all’interessamento di uno dei miei vecchi amici, diventato nel frattempo sindaco del paese, vinsi il concorso per il posto di spazzino comunale ed iniziai la mia seconda vita.
Così adesso, per guadagnarmi il pane, faccio lo spazzino. Ma facendo lo spazzino si guadagna poco, e oggigiorno i soldi non bastano mai. Allora, per vivere più dignitosamente, vendo droga. Ma non a tutti, solo agli amici. E da un po’ di tempo anche ai figli degli amici. E questo un po’ mi preoccupa, e mi dà da pensare, perché significa che sto invecchiando.

© Massimo Burioni





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