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Un battito d'ali nella memoria del tempo
di Karina Olivera
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Un battito d’ali nella memoria del tempo

 

 

 

Vivevamo nell’ombra dei boschi, nella valle del fiume Tonque, sfidando i capricci delle stagioni e il gelido vento del Nord che portava freddo, tempeste, malattie e morte. La terra era nostra Madre, noi la rispettavamo, ne avevamo cura, la proteggevamo. La natura era energia vitale dalla quale ognuno di noi, e tutti gli esseri viventi che esistevano e respiravano su questa terra, traevano sostentamento per il corpo e per lo spirito.  In tutte le cose, piccole o grandi  che fossero, si manifestava il Grande Spirito e ad esso innalzavamo le nostre preghiere, i nostri canti, e le nostre danze. Dal sottobosco riuscivamo a procurarci uva selvatica, uva spina, fichi, rape selvatiche, girasoli, erbe e radici. Il bosco ci donava, anche, tutte quelle piante terapeutiche necessarie per le ferite del corpo e dell’anima. C’era un boschetto di pioppi poco distante dal fiume, che chiamavamo Alberi fruscianti  per quel tipico rumore delle foglie nel vento che tanto adoravo stare ad ascoltare; negli inverni più rigidi quando la neve era alta e ricopriva ogni dove della valle, la corteccia di quegli alberi delicati serviva agli uomini della mia tribù come foraggio per i cavalli. Il fiume Tonque era nostro fratello. Nel suo corso placido o tortuoso, a seconda del tratto dove ci si metteva a pescare, il Grande Spirito permetteva il flusso costante di pesci variopinti, ai quali porgevamo, con danze e preghiere, la nostra riconoscenza per la nostra sopravvivenza. Eravamo diventati una popolazione seminomade. Da molto tempo vivevamo stabili su quella valle e ci reggevamo di piccola agricoltura, di caccia al bisonte e di pesca. Era un modo come un altro per sopravvivere; i tempi non erano facili e i nostri sogni ci atterrivano con immagini di morte. Io ne facevo tanti. Mi destavo in piena notte madida di sudore. I bisonti erano scomparsi dalle praterie sconfinate,  o sterminati da armi di fuoco e lasciati a decomporsi nel terreno senza rispetto per quello che essi raffiguravano: la vita. Erano il nostro maggior sostentamento. Dove si muovevano i bisonti andavamo noi. Per fortuna quella valle era richiamo per molte mandrie di bisonti, così il loro passaggio era quasi sempre assicurato.

“"Onoriamo le ossa di coloro che ci hanno donato la propria carne". Queste le parole dei guerrieri all'epoca della caccia al bisonte, in onore alla loro vita, che era sacrificata per noi. Ogni parte dell’animale era impiegata, niente era sciupato. Ma nei miei sogni  tutto era sangue e dolore, e i volti della gente del mio popolo mutavano fino ad essere irriconoscibili. Mi allontanavo dal nostro tepee e mi rifugiavo vicino alla riva del fiume Tonque a parlare con la Luna. Sapevo che qualcosa di terribile stava per accadere ma non ne comprendevo la grandezza. Ero una giovane Piedi Neri che si rifugiava tra le braccia della Luna e ne invocava la sua bianca protezione. Sono sempre stata attirata da quel disco argenteo nel manto nero della notte… l’ho sempre amata. Non ne capivo la ragione all’ora, ma c’era. Se mi soffermo sul tempo trascorso da quella meravigliosa scoperta, sento addosso il peso del tempo e delle stagioni. Sul mio viso una pelle segnata da mille rughe; per ogni ruga un ricordo, per ogni ricordo un battito d’ali nella memoria del tempo. E oggi il tempo mi riporta là, in quel boschetto di pioppi dove sono nata, dove ho capito la meraviglia della vita, la gioia della condivisione, la dolcezza della compassione, la grandezza dell’umiltà.

Non riferivo a nessuno il perché delle mie notti insonne, delle mie passeggiate introverse, dei miei incontri con la Luna… c’erano delle cose che non sarei riuscita a spiegare. Un pomeriggio di fine primavera, nel tempo in cui tutti erano dediti alle mansioni del villaggio, sgattaiolai via di nascosto, volevo gioire del crepuscolo, e così mi nascosi nella parte più alta del bosco, nei pressi dello sperone di roccia nera che spuntava dalla foresta e si liberava al di sopra di essa. Quel cielo azzurro graffiato d’amaranto era uno spettacolo sublime per il mio cuore di fanciulla, ma c’era altro, come una musica, una melodia soave e incantatrice che mi chiamava, che conosceva il mio nome: “Wakanti… Wakanti”. Al momento provai apprensione, ma fu solo un attimo, dopodiché mi rasserenai, come se sapessi chi mi convocava e nel mio cuore percepì un calore che trascendeva quello umano e mi commosse sino alle lacrime. Mi ritrovai a bisbigliare queste parole, e le sussurrai in moltissimi altri tramonti, con sempre maggior commozione, con sempre maggior percezione di chi io fossi in realtà: “ Grande potenza del Sole, ti do oggi la mia vita, perché sono sempre stata una ragazza pura e onesta. Prometto di mangiare con Te e con gli Spiriti del Mondo di Sotto, affinché questi bambini che stanno davanti a te diventino grandi e forti, abbiano una lunga vita e non soffrano mai la fame. Ascoltaci e abbi compassione di noi!” In quell’istante il sole sparì all’orizzonte e nella mia anima la leggerezza dello spirito che si elevava alto e libero nell’infinito dell’universo… ero un tutt’uno con il cielo e le stelle, in me la loro profondità, la loro energia cosmica… io una piccola indiana ero sole, cielo, aria e stelle. Quando mi risvegliavo da questi miei “viaggi”, mi affaticavo a comprendere se era realtà o finzione quello che avevo visto, udito o provato e così nell’incertezza tenevo tutto quello che avrei voluto gridare ben stretto all’anima. Il silenzio presto divenne motivo di isolamento, temevo di poter raccontare a qualcuno dettagli dei miei “viaggi” ed esserne derisa. Non poteva succedere a me… era mio padre lo sciamano, avevo un fratello che avrebbe ereditato le potenzialità per divenire a sua volta un altro sciamano. A noi fanciulle non succedevano queste cose… potevo essere in preda al delirio? Tacqui e aspettai un altro segno.

Passarono le stagioni e il mio corpo fiorì e con esso la mia coscienza divenne più matura. Mio padre invecchiò moltissimo e purtroppo l’inverno, freddo e rigido, gli rovinò la salute. Ci furono molte morti quell’inverno e poche nascite. Mio fratello si lamentava che non riusciva a cogliere alcun segno dalla natura né dalla preghiera su quanto bisognasse fare, se rimanere ancora nella valle accanto al fiume Tonque o andarsene in cerca di altri climi e altre lande verso nord. La mia tribù organizzò tre giorni di danze in onore del Lupo Bianco, nell’attesa che compaia al nostro popolo e ci dicesse cosa fare. Per noi il Lupo era considerato un Maestro. Animale nobile e fiero, amante del vagabondare e quindi conoscitore del mondo; saggio e prudente; amante del branco, della sua famiglia, ma anche della sua individualità; la sua compagna, una volta scelta, era per sempre. E’ lui che iniziammo a pregare su cosa fosse meglio per noi e per i nostri bambini, ma neanche la sera del terzo giorno l’immagine del Lupo Bianco si mostrò al mio popolo che, esausto e ormai privo di speranza, cominciava a credere di essere stato abbandonato dalle forze della Natura. Mio padre si chiuse nel tepee e iniziò a pregare che il Grande Spirito perdoni le offese di chi tra di noi le aveva compiute, sperando che così gli altri venissero risparmiati. Mio fratello invece, si allontanò, si diresse verso le montagne, era certo che consegnandosi alla foresta sarebbe stato più vicino allo spirito del Lupo Bianco. Al villaggio regnava un senso di abbandono e quella notte, quando la Luna si rivelò in cielo, una voce mi chiamò e mi sussurrò di avviarmi al fiume. “Wakanti… Wakanti”.  Mi trascinai al fiume. Nel mio avanzare c’era tutto un passato glorioso, in me gli spiriti dei miei avi, coloro che prima di me avevano avuto il mio stesso dono… non ero sola, non potevo avere paura. La luna era splendente, una sfera lucente e meravigliosa. Mi lasciai cadere sulle ginocchia, in riva al fiume e intonai un canto di preghiera, uno di quelli che avevo sentito insegnare a mio fratello, un canto che non avrei dovuto sapere, ma che uscì dalla mia gola, dalla mia bocca come nettare per gli dei. Ero ben consapevole che la capacità di intonare un canto era una preziosa possibilità di proteggere il mio popolo e così cantai con il cuore. Sotto lo splendore della Luna e con il fiume silente, il mio canto fluiva dal mio essere per raggiungere mete insperate, e portare così l’aiuto che tutti aspettavamo, ma quella notte non accadde nient’altro. Questo era il mio canto al Lupo Bianco e a sorella Luna: “ Fredda è la notte sotto la luce velata della luna, ma il lupo ne sente il calore, ed ogni ululato riscalda il suo spirito, che si eleva fino a toccare la volta celeste, per poter mostrare a tutti quanta fierezza c’è in quel canto.” , e in quelle semplici parole, tutto il mio mondo. Mi risvegliai all’alba, infreddolita e con le vesti fradice d’umidità. Mi sentivo stordita, e le forze, come ogni volta che mi accadeva qualcosa di “prodigioso”, mi abbandonavano. Mia madre mi trovò sul ciglio del fiume e mi chiese preoccupata cosa mi stesse succedendo. Disse che da tempo ormai intuiva che qualcosa in me era cambiato, che temeva per la mia salute. Le raccontai dei miei sogni premonitori dove piangevo la morte del mio popolo; scelsi le parole con cura per descriverle i miei incontri con il sole all’ora del tramonto, e infine della Luna e che nel mio cuore sentivo di appartenerle, di esserle figlia. Gli occhi di mia madre mi contemplavano sereni e commossi. Avevano già patito a sufficienza; avevano visto morire troppi bambini e ammalarsi suo marito. Cosa c’era di male nel credermi? Mi confidò che da tempo nutriva dubbi su di me, sin dai tempi della mia infanzia. Ricordò un tempo in cui mi trastullavo con cerbiatti selvaggi in ampi spazi assolati, come se facessi parte del loro branco, come se anch’io fossi una cucciola di animale libera e inselvatichita. Oppure mi ripescava con le gambe nel fiume e i pesci attorno a me che  indugiavano statici e mi fluttuavano intorno e non s’intimorivano, dandosi alla fuga, neanche se mi muovevo. Mi disse che un giorno mi scovò nel bosco, sotto una sorprendente quercia primitiva mentre mi gingillavo con un cucciolo. All’inizio credette fosse un cane ma poi, accostandosi, si accorse che era un cucciolo di lupo. Venne colta dallo sgomento e nel momento esatto in cui fece un balzo per prendermi apparve la madre del cucciolo. Mia madre teneva in braccio la figlia di una sua amica ed era travagliata su come agire, come opporsi alla mia morte. Per quanto ci fosse un legame tra lupo e uomini, erano pur sempre animali selvaggi e si sa come potevano finire le cose con una madre che difendeva il suo cucciolo. Mia madre chiuse gli occhi disperata e attese la mia morte… mi avrebbe sacrificata, non avrebbe messo a repentaglio la vita di un’altra bambina. Ma quando, trovando il coraggio, li riaprì, rimase sbalordita. La lupa se ne stava a due metri di distanza da me e dal suo cucciolo, e ci guardava giocare con amorevole espressione, con le zampe anteriori incrociate nella più rilassata delle posizioni. Il cuore di mia madre riprese il suo battito regolare. Poi vide che mi allontanavo e che tornavo al villaggio. Non ne feci parola con nessuno, nemmeno con lei. Lei fece lo stesso con me… sino a quel giorno. Non ricordavo niente di quegli avvenimenti, ma ero grata a mia madre che comprendesse il mio sgomento, quel lato di me stessa che anch’io facevo fatica a concepire. Che io avessi le capacità per interagire con il mondo della natura e degli animali era qualcosa che sbalordiva anche me; che la mia sensibilità superasse determinati confini umani e mi portasse oltre la conoscenza della maggior parte delle persone e mi regalasse a verità nascoste e incommensurabili era stupefacente. Potevo essere d’aiuto al mio popolo se solo mi ponevo nei confronti del Grande Spirito con l’animo e il cuore giusti. Ed ero sicura di poterlo fare, ma volevo la benedizione di mio padre e il sostegno di mio fratello. Al villaggio lo scoramento, per la rigidità del tempo e l’assenza di una guida spirituale portava i miei fratelli e le mie sorelle a chiedersi se non sarebbe stato meglio andarsene. Ma io avevo visto nei miei sogni che una migrazione portava morte, ed era ora che parlassi alla mia gente e così feci. “Ascoltatemi tutti, ho parole nuove per voi, piene di speranza.” Ma i loro volti si riempirono di stupore. Cosa mai avrei potuto dire loro? Perché prendevo parola come se fossi uno sciamano? Mia madre dov’era per impedirmi questo affronto? “Lo so che avreste voluto che al mio posto ci fosse mio padre, ma mio padre non c’è, si è perso nei suoi tristi pensieri e non riesce più a vedere la verità. Mio fratello invece è alla ricerca di qualcosa che non troverà, e la paura di fallire, che alberga nel suo cuore, non gli permetterà di leggere nelle carte del destino.” Qualcuno di loro iniziò a dare un senso più profondo a quello che stavo dichiarando e a offrirmi più attenzione. Fu un quel momento che la voce di mio padre interruppe il mio ardire, ed esclamò: “Ascoltate mia figlia! Abbiate fiducia nelle sue parole! Ho fatto un sogno! Un’aquila bianca sollevava in volo Wakanti e la posava nel letto di un torrente, dove i pesci non le fuggivano; l’ho vista giocare con i cervi nelle praterie accarezzate dal vento, e  persino con i lupi e i loro cuccioli. Lei custodisce dentro al suo cuore parole di saggezza. Un dono che il Grande Spirito ha scelto di offrirle. Mio figlio ne è ricco, ma non quanto Wakanti. Per mezzo delle sue visioni si realizzerà la profezia. Dicci, dunque, figlia mia… cosa dobbiamo fare? Sopportare ancora freddo e gelo e morire di stenti o spostarci in altre lande? Cosa ti consiglia il Lupo Bianco? Le parole di mio padre spezzarono la tensione che da tempo abitava nel mio animo. Avevo timore che scoprendo la verità su di me potesse rifiutarmi. Il suo appoggio assoluto, invece, alimentò la fiamma del mio cuore che iniziò a bruciare con la stessa intensità di fratello sole, ad illuminarmi dal di dentro con lo stesso splendore della luna piena, e a consegnarmi nelle mani dell’universo con il vigore e la rapidità delle acque di un fiume impetuoso. L’alba di un nuovo giorno sorgeva sulla mia gente e sulla mia vita, e mi ritrovavo guida spirituale di tutti quei cuori e di tutte quelle anime. La natura aveva scelto me e quale fosse la ragione non la saprò mai. Quello che so è che mentre mi accingevo a raccontare quali visioni nefaste nutrivano i miei sogni notturni e quali consigli sentivo loro di offrire, un sussulto generale mi fece trasalire, tanto che mi voltai all’istante per rendermi conto, con i miei occhi, quale fosse la causa di tanta meraviglia. Alle mie spalle e nella nebbia mattutina, un magnifico esemplare di Lupo Bianco, se ne stava immobile, sguardo fisso su di me. Non ebbi alcun timore e lo riconobbi immediatamente. Era il cucciolo. Quell’esserino tutto pelo che tanti anni fa giocò con una Piedi Neri sotto lo sguardo vigile e attento di sua madre lupa. Era diventato un esemplare incredibilmente possente. Il suo manto era una pelliccia bianca morbida e immacolata. I suoi occhi due gocce di rugiada. Dietro di lui una ventina di lupi sedevano silenti e dignitosi… erano una gioia per gli occhi. “ Ti saluto Wakanti”… incredibile, potevo sentire il suo pensiero. “Saluto te! Grande Lupo Bianco, è meraviglioso rivederti”. “Lo stesso vale per me”, rispose e fece un timido inchino, movimento che a tutti parve casuale. Iniziammo così a comunicare, lui ed io, in mezzo a un mare di uomini e lupi, e non ci fermammo più sino a quando non ebbi avuto da lui le risposte che mai avrei voluto sentire. Nessuno ci interruppe… regnava il più perfetto tra i silenzi. Poi, così come vennero, scomparvero, lasciando la mia tribù stupefatta. “Raccontaci Wakanti, che dobbiamo fare?” Dissi loro tutta la verità: “Arriverà un uomo… mille uomini!, dalla pelle bianca come la neve e il cuore freddo come il ghiaccio. Porteranno malattie e violenza e nelle loro mani avranno armi di fuoco che useranno contro i nostri bisonti e contro chi non accetterà le loro leggi. Non avremo più cibo e saremo un popolo maltrattato, perseguitato. Non saremo più gli abitanti di queste terre e le vedremo a poco a poco cambiare, soffrire, morire. L’orso sarà cacciato e anche l’amico lupo, perché l’uomo bianco non saprà capire, non vorrà capire. Tutto quello che per noi è sacro per loro sarà pari a nulla. Ci aspetta un tempo di lacrime e dolore, mille volte peggiore di questo. E se ci sposteremo verso altre distese, come hanno già cominciato a fare altre popolazioni, verremo rinchiusi in spazi delimitati da artificiosi confini, chiamati riserve, dove saremo forzati a vivere come animali privati della libertà e a vedere i nostri figli morire di fame”. Le lacrime giunsero e con le lacrime l’angoscia, ma io dichiarai loro: “Ora noi tutti andremo sulle montagne, dove sopravvivono i nostri amici lupi, dove ci attende il Grande Lupo Bianco. Là, sussisteremo di caccia e pesca. Le nostre case saranno le cavità nella roccia, non più i nostri amati tepee, ma sapremo ambientarci e vivremo dei frutti della natura e di quanto essa vorrà offrirci. Seguiremo le orme del grande orso e nei suoi occhi cercheremo la saggezza e la prudenza. Pregheremo e danzeremo nel nome di nostra Madre Terra che non ci abbandoni mai, e se sarà volere del Grande Spirito un giorno torneremo qui, nella nostra pacifica e rigogliosa valle, accanto al nostro amico fiume Tonque e saremo di nuovo il sereno e pacifico popolo di Piedi Neri.” E poi pregai per tutti loro e dissi: “ Concedimi, o Grande Spirito, di imparare la lezione che hai nascosto in ogni foglia ed in ogni sasso. Io voglio essere forte, non per dominare il mio fratello, bensì per combattere il mio più grande nemico: me stessa. Fai in modo che io possa essere sempre pronta a venire da Te con le mani pulite e lo sguardo leale. Così che, quando la mia vita finirà al calare del tramonto, il mio spirito si presenti a Te senza onta.”

Lasciammo il nostro villaggio quello stesso inverno. Ci arrampicammo sulle montagne, diretti verso le grotte che sarebbero diventate le nostre case per moltissimo tempo. Il Grande Lupo Bianco ci attese e ci insegnò come vivere in quella terra. Era bellissima, anche se io sentivo la mancanza dei miei Alberi fruscianti. Nei miei sogni seguitai a percepire morte e distruzione, ma la vita ci permise di vivere lì ancora per molto tempo. Divenni madre e poi nonna. Mio padre continuò ad essere lo sciamano della tribù per ancora moltissimo tempo; il ritorno dei lupi lo fortificò nello spirito. Mio fratello, invece, diventò sacerdote. Era più confacente alla sua anima. Io? Continuai a vagabondare nella foresta e nelle montagne come parte di esse, comunicando con gli alberi e le piante, giocherellando con gli animali e inseguendo le nuvole nell’immenso coperchio del mondo. La sera raccontavo al sole i dubbi del giorno, e la notte mi coricavo tra le braccia della luna e attendevo che lei mi cantasse una canzone. Il vento mi portava missive lontane e non erano mai prive di malvagità… almeno per quanto riguardava la mia gente, la natura, la Madre Terra.

Oggi sono vecchia, vivo ancora nelle montagne, credo che da qui non ce ne andremo mai e che in questa terra la mia gente andrà incontro alla morte. Il mio popolo non teme la fine della mia vita  perché lascio una degna erede: mia figlia Pawala. In lei tutto quello che io sono, se non molto di più. Sono io che rinuncio a questa vita terrena con la paura nel cuore, perché ho visto il futuro della mia tribù, il futuro di chi amo, e questa volta non è così lontano. Ma io so che non morirò mai… non morirò mai. Sarò sempre vicino al mio popolo. Il mio corpo avrà fine, ma la mia anima sarà eterna. Sarò nel vento del mattino che lambisce le fronde degli alberi; nell’amico sole che fa germogliare i frutti succosi e i fiori colorati. Sarò nelle nuvole che corrono libere nell’azzurro del cielo e nella pioggia torrenziale che rinfresca le meraviglie del creato. Sarò un piccolo seme, albero nella foresta, e frutto maturo. Sarò l’orso possente e il timido cerbiatto; e sarò Lupo Bianco che ulula alla luna… e sarò Luna e riempirò la notte con la mia impalpabile bellezza.

…E sarò battito e respiro in ogni cuore della mia gente. 

Io sarò Vita!

                                                                                         Wakanti... Piedi Neri

 

                                                                                                                           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

© Karina Olivera







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