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Il Mulino del Diavolo (Morte di un pittore)
di Domenico Fago
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“Non più posso trasporre questa vita
In favole del cuore e della mente,
Vivere dunque non più posso, Amore!”

Tommaso Landolfi " Viola di morte"

  Diméntico di tante premonizioni, nelle quali era venuto raffigurandosi l’intimo presentimento di essere giunto al termine della vita  –  e tuttora animato dalla vuota e febbrile felicità di esistere che, all’annuncio della guarigione, a un tratto lo ha posseduto  –  Martino non sa, né se potesse vorrebbe sapere, che oggi è il giorno predestinato della sua morte : il breve ultimo giorno che non potrà superare.

  Nessuno misura per lui l’esiguo tempo che manca. Tra poche ore  ( dopo, si sarebbe potuto contarle sulle dita di una mano soltanto), arretrando di un passo dal cavalletto il corpo possente e inclinando leggermente la testa  – la grande testa dalla chioma leonina –, un occhio socchiuso e un sopracciglio inarcato, avrà dato un ultimo sguardo al quadro a cui ora sta lavorando.

  Deporrà tavolozza e pennelli ; e questa volta, senza che avverta neppure un senso di vago rimorso per il lavoro interrotto, uscirà dallo studio per sempre.

   Forse, nel varcarne la porta, si sarà arrestato per un attimo sulla soglia, volgendo ancora uno sguardo al quadro che resta incompiuto sul cavalletto, tra le grandi finestre che si aprono in due riquadri contigui nella parete di fronte.

   Fuori, la tarda mattina di marzo è una lastra di sottile cristallo che risplende fredda e luminosa nell’aria senza vento. Sotto lo smalto indaco del cielo, vasto e terso, campeggia una visuale di barbagli e di stendardi che dalla sommità de Gli Uffizi, oltre l’Arno, si invola fra i tetti i campanili e le guglie della città asserragliata, per perdersi all’orizzonte, là dove la linea d’ombra disegnata dai colli trascolora in un’aria sfumata di viola.

  Attraverso le vetrate, dal dorso lucente e assolato del fiume invisibile che s’indovina immoto nel suo olio argillàceo sotto la mole bassa del Ponte Vecchio, sale e si spande nello studio deserto una verde luce scintillante. Balugina e si dissolve contro il soffitto. Versicolore e silente, si riflette e rifrange qua e là nella stanza ormai vuota, bagnandola e prosciugandola come l’onda su una riva sabbiosa dove, tra le cose abbandonate, l’acqua cancella ogni orma.

   Sul Lungarno per metà in ombra e per metà inondato dalla piena del sole, Martino  salirà in macchina sbuffando com’è sua abitudine nel sedere accanto alla Nigna, che guiderà la vecchia automobile fuori dalla città, su per la collina.

   Correrà così al suo appuntamento, con la precipitosa impazienza di un ragazzo disubbidiente. Giacché oggi Martino non teme alcun dono, né tanto meno il dono dell’annunciata e a lungo insperata guarigione, che è stata per lui predizione di una nuova seconda vita. E in ciò, a ben vedere, adesso che è morto e il disegno completo della sua vita è come racchiuso in un quadro, è consistita quel giorno la sua disubbidienza alle premonizioni e alle voci che negli ultimi anni avevano preso dimora dentro di lui, inesplicabili e mute, quasi un oracolo insondabile e insonne di finis vitae.

   Fin troppo spesso, negli ultimi tempi, gli era accaduto di pensare  “non me ne va più, di vivere“, ogni volta sorprendendosi a non provare per ciò né disperazione né amarezza, bensì, quale specchio del proprio intimo orrore della morte, una calma piatta e raggelata. Simile alla luce della sua pittura che, persa la tenerezza metafisica dell’età giovanile e la purezza della maturità, da anni oramai si arrestava sull’orlo di se stessa a segnare il disfarsi delle cose nell’apparente saldezza delle loro forme.

   E tuttavia, nel lento consumarsi dei mesi di convalescenza dopo il primo attacco di angina

(mesi  che gli erano parsi non già scorrere, bensì ora sospesi a un sottilissimo filo, ora sommersi nell’acqua buia di un lago paludoso) , sempre meno oscuramente egli avvertiva nell’intimo un doloroso inquietante ritegno, quasi che gli riuscisse inconfessabile quest’altra verità :  “ non me ne va più di dipingere, e dunque di vivere “ .

   Da troppi anni, ormai, più Martino avanzava nel lavoro lento di un’opera  – che per lui, pittore alla perenne e all’antica, era la composizione sapiente e la costruzione sofferta del quadro –  e  più forte ed acuto si faceva il senso dell’inconclusione e dello scacco.

   Più invecchiava, e più aveva coscienza di non progredire con l’età nel cammino segreto della sua pittura, parendogli di essere ricacciato indietro nel tempo e tagliato fuori dalla realtà del mondo, per sempre.

   Più avanzava nella conoscenza pittorica della realtà  – che per lui, artista quant’altri mai schivo di correnti e di mode, era la rappresentazione figurativa della sua recondita verità –  e più la realtà gli si mostrava indifferente e remota, quando non gli appariva aliena ed ostile

   Eppure sapeva che nulla resiste al suo doppio in uno specchio ; e che la realtà non sopporta il proprio immediato riflesso, ma lo respinge. E che soltanto una realtà altra da sé pur apparendo allo sguardo se stessa, può essere messa al posto di quella che si vuole esprimere. Al culmine della sua opera, nella sapienza della sua pittura, questo era stato il segreto delle nature morte che Martino aveva amato dipingere nel corso degli anni, più che i ritratti e i paesaggi. Il segreto di cui i suoi dipinti gli sembrava che non vibrassero più e del quale temeva di aver perso le chiavi. 

   Ammalatosi, pensò che il suo scacco aveva trovato un compimento simmetrico nel misterioso destino del corpo. Gli parve che la vita avesse cessato di trascinarlo nella sua corrente, abbandonandolo e superandolo, mentre tutto scorreva accanto e lontano da lui.

   Si sentì allora esiliato da tutto, perfino da quella malattia che lo aveva come estraniato dal corpo, in cui il sangue, anziché circolare e fluire rapido come un tempo, gli pesava soffocante nel petto martellando il suo cuore stanco. Così invecchiando seppe che alla fine niente più accade, se non la solitudine e l’assenza.

   Non erano i conti apparenti dell’esistenza a non quadrare. Come sapere, senza averne parlato, che se la Nigna lo lasciava sovente da solo, era per rincorrere un antico amore da sempre sfuggito e allontanato. No, giacché nell’amore che li aveva legati e li legava, avevano entrambi imparato negli anni a deporre la gelosia  ( si trattasse delle cose del cuore o della pittura ) , l’uno e l’altra rifuggendo dalla legge del reciproco possesso. Per di più, l’altro uomo, il grande amico, era per Martino l’omologo e il doppio di sé :  la sua architettata e preziosa scrittura apparendogli in qualche modo l’equivalente letterario della propria pittura. Per questa profonda affinità, non avrebbe mai potuto esserne geloso. Né temerne il confronto.

   In passato, il sodalizio con la Nigna era stato costellato di tempeste e di amori.

Gli amori, dietro il cavalletto ; le tempeste, di fronte a ogni tela che provocasse in ciascuno dei due l’impulso di strappare il pennello dalla mano dell’altro per mettere nel quadro qualcosa di sé. Vi era stata finanche una stagione in cui, soprattutto certi quadri della Nigna*, li avevano dipinti a quattro mani, disputandosi corpo a corpo ogni tratto della tela. A volte la tela stessa, negli anni delle ristrettezze.

   Tanto che al tempo delle penurie nel primo dopoguerra, di un grande dipinto giovanile a figura intera della Nigna, risalente a vent’anni prima, Martino aveva ritagliato un pezzo di tela alla volta, per ridipingervi sopra altrettanti nuovi quadri di minor formato, spinto dalla necessità di fare economia e insieme tutto preso dal piacere che la sua mano provava nello stendere col pennello colori freschi sulla materia pittorica, asciutta e compatta, della tela usata.

   Aveva finito col salvarne soltanto un ultimo riquadro raffigurante una testa di donna scapigliata come da un soffio lavico.

  Quarant’anni dopo la Nigna gli avrebbe dato il titolo di  “ Le braccia intorno alla testa “, dichiarandolo il particolare superstite di un’opera andata distrutta negli eventi della guerra, allorché un bombardamento aveva distrutto il loro vecchio studio sul Mugnone ; e tacendo la verità con un pudore che nascondeva la pena ma tradiva il dolore di quel sacrificio.

   Era, il suo, il medesimo pudore che le aveva fatto tenere a lungo segreto il vero motivo del polso sinistro fratturato, due volte in pochi mesi. Seduti al vecchio tavolo che era il loro tavolo da pranzo e da disegno, Martino alla sinistra della Nigna, andavano rielaborando schizzi e appunti presi durante le lunghe esplorazioni fatte in macchina, con lei alla guida, tra le colline e le valli dei dintorni. Alla ricerca  dei paesaggi che di ritorno nello studio avrebbero dipinto riscoprendoli a memoria, ciascuno a modo suo. Quando l’uno non imponeva all’altra di mettere più ombra o di togliere un po’ d’ombra qua e là. Le voci sempre più alte, squillante quella di lei, baritonale quella di lui, eccole a un tratto tramutarsi in pianto, il giorno che il pugno di Martino si era abbattuto di colpo sul polso sottile della Nigna, fratturandolo.

   Affranto, e ancora più sconvolto di lei, Martino aveva chiesto e ottenuto perdono ; e il polso ingessato era diventato un pegno segreto di tenerezza e di amore. Finché, alcuni mesi dopo, la scena non si era ripetuta, e un altro colpo si abbatté sulla mano della Nigna: la mano sinistra, la stessa mano della prima volta.

Amore, amore, come sempre, vorrei coprirti di fiori e di insulti : questo era stato il refrain di quegli anni di passione e di pittura del loro sodalizio.

   Fra una tempesta e l’altra, erano seguiti pure i periodi di bonaccia, durante i quali regnava nella coppia una specie rara di serena osmosi.  Salvo che allora dividendo lo stesso studio, lui impaziente non le dicesse, con gli occhi socchiusi e accostando di prepotenza le imposte : “ Qui c’è troppa luce per dipingere “ –  e lei di scatto riaprendole e spalancandole in pieno sole, non rispondesse impetuosa a viso duro : 

“  Per me non c’è mai luce abbastanza  “ .

   Ma quello era appunto il passato. La Nigna non era più la donna giovane degli anni tumultuosi : la donna dalle gambe lunghe e fragili sulle esili caviglie volteggianti così facili alle storte, pronta a scoppiare in lacrime e in singhiozzi a un rimprovero o a un torto. Non più solo la moglie di un pittore sapiente e colto o la sorella di un famoso scrittore. Vita e pittura, pittura e vita, erano ormai la sua radice ed il suo frutto.  

   Da tempo dipingevano in studi separati : lei, da fauve impaziente e vorace di colori ; lui, dalle pennellate sempre più lente nella loro sapienza, tra continue interruzioni e interminabili ripensamenti.

   Senza dirlo, Martino rimpiangeva le passioni e i litigi del loro sodalizio artistico. Gli mancavano, davanti al cavalletto, nell’atto tangibile del dipingere, le reciproche intromissioni e i dispetti col pennello, grazie ai quali egli imponeva alla Nigna una maggiore geometria della composizione e del disegno ; e la Nigna a sua volta, quando non lo contagiava con la libertà dei suoi colori, nondimeno lo animava con la sua vitalità impulsiva e inesauribile.

   Ecco, Martino vedeva che lei, col non avere ormai più bisogno di un qualsiasi suo magistero, gli era venuta meno, mentre in lui il peso del lavoro solitario trasformava ogni giorno di più la pigrizia solare di un tempo, in una crescente e opprimente stanchezza.

   Non gli andava più nulla, né vivere né dipingere.  

   Quando gli accadeva di ricevere la visita di un collezionista esperto d’arte, lo intratteneva per ore col discutere di pittura, bevendo chianti rosso a lunghe e lente sorsate, finché il fiasco non era vuoto e il sole non volgeva al tramonto. A quel punto, con la scusa che la luce era ormai troppo scarsa, soprassedeva a mostrare i suoi quadri, rimandandolo a un'altra occasione. E se a visitarlo era un mercante, sempre più spesso girava contro il muro i dipinti ai quali teneva di più, inventando la scusa che non erano ancora finiti.  Come se non avesse più voglia neanche di vendere un quadro e dipingesse oramai soltanto per sé.     

   Dall’attacco di angina, Martino aveva paura di dormire da solo, le notti che la Nigna non c’era. Chiedeva allora a questo o a quell’amico di tenergli compagnia. Ma con la luce del giorno, la paura passava. E di giorno, sia pure stancamente, dipingeva.

Non aveva più voglia di vivere, ma continuava a dipingere. Perché ?

   Pochi mesi prima, aveva riletto le poesie di Emily Dickinson. ( Forse era stato un segno premonitore, che riprendesse in mano vecchi libri di poesia, anziché risfogliare e ristudiare, come sempre aveva fatto, le monografie dei pittori prediletti. )

A colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Lo aveva colpito la fulminea e paradossale verità che il passo della Bibbia acquista nella poesia della Dickinson grazie al semplice taglio delle ultime due parole, e la sua tragica ironia :  “ A colui che non ha, sarà tolto anche quello  “ .

   Incarnando quel paradosso, sentiva di non avere più alcunché né da vivere né per vivere. Ciò nonostante dipingeva. Come aveva lottato Stendhal, a Civitavecchia, contro la prima apoplessia, confessando dopo : “ Je me suis colleté avec le neant “ , inconsapevolmente Martino si prendeva per la collottola con la morte. Quasi che questa, nel togliergli il nulla che rimaneva della vita avvenire, dovesse essere costretta a lottare con lui per strappargli anche il tutto che si stava tramutando in niente, della sua pittura.

   A mano a mano che sotto il suo sguardo si era andato faticosamente formando il suo ultimo quadro, aveva pensato di intitolarlo :  “ Il Mulino del Diavolo “ .  Era la tela che stava ancora dipingendo, con ritrovata lena, la mattina del giorno in cui la morte repentina lo avrebbe colto.

   Vi era andato raffigurando l’interno di una cava abbandonata, deserta, con grandi massi sparsi. Una barriera di alberi, ne rinserra il fondo. La macina del tempo, è una gola di desolazione e di silenzio che affonda in un immoto crepuscolo di solitudine e di assenza. Finis terrae, al confine dello sguardo e della memoria.

   Dunque, l’occhio interiore sapeva ciò che la coscienza ignorava, posseduta com’era dalla felicità della convalescenza e dall’illusione della guarigione. Nello scarto tra quel che pensava e quel che inconsciamente sentiva, Martino aveva disegnato sulla tela incompiuta il proprio destino.

   Quella mattina sarà salito con la Nigna sulla collina, al ristorante dove era atteso da un mercante amico, con il proponimento di portarlo dopo mangiato nello studio sull’ Arno per mostrargli i suoi quadri, anche quelli che aveva più cari, e questa volta senza girarli contro il muro ?

   Mentre mangiava e conversava, nel colpo di tosse che precederà di un attimo il venir meno della coscienza, il suo corpo avrà sentito nel chiuso del petto lo scoppio, sordo e abbagliante, delle coronarie, con il secco ultimo battito del cuore ?

   Il suo estremo sguardo di sorpresa, sarà stato per la Nigna ?

   Nello studio deserto, sul divano di fronte al cavalletto, resterà accucciata e a lungo solitaria la gatta dal nome mozartiano di Pamina.  E sul cavalletto in penombra, ormai per sempre incompiuto, rimarrà “ Il Mulino del Diavolo “ . Nell’ immodificabile sua incompiutezza, segretamente inesauribile.

Roma 1989 – novembre 2002

© Domenico Fago





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