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Uccidere Ramona
di Paolo Durando
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Viveva imboscato in uno dei tanti palazzoni anni ’50 e ‘60 di un quartiere di periferia. Un ipermercato non distante, fondo stradale e marciapiedi disconnessi che quando pioveva formavano vaste pozzanghere, un terrazzino che dava su un cortile chiuso. Ancora una volta il fornello da sgrassare, le mele che marcivano, la carne che tendeva ad appuzzarsi. Sempre così. Un’altra serata solitaria, a prepararsi le uova strapazzate, dopo aver acceso la radio alla solita frequenza, per una disco-music costante di sottofondo. Il suo appartamentino al sesto piano. Perché non aveva mai voglia di mangiare a casa, di chiudersi nella sua solitudine, per cui indulgeva per le trattorie a prezzo fisso, soprattutto a mezzogiorno. E la spesa che faceva rimaneva ad avariarsi nel frigo, la frutta andava a male. Ma il signor Ernesto Ruggieri, impiegato alla G.I.P Assicurazioni, non se ne faceva un problema. Buttava via la roba ammuffita o scaduta senza starci troppo a pensare. Non aveva nessuno da mantenere. Quello che guadagnava lo poteva spendere come gli piaceva. Avrebbe potuto mangiare tutti i giorni in un discreto ristorante, se proprio avesse voluto. Ma amava quelle trattorie chiassose e senza pretese, dove nessuno badava più di tanto alla sua pancia, alla forfora che perdeva dai pochi capelli. Per tacere delle spesse lenti degli occhiali che rendevano microscopici i suoi minuscoli occhi. In quelle trattorie era libero di essere quello che era, solo e poco interessante, perciò libero. Ma a casa era diverso. La solitudine si faceva pesante, non c’era gente intorno che parlava che guardava la televisione o leggeva il giornale, ma soltanto la solita cucina bianchiccia, la porta finestra piena di spifferi, le pareti che avevano bisogno di una imbiancatura. Sapeva cucinare poche cose semplici. Le uova strapazzate, appunto, e la fettina, la pastasciutta con la passata verace. Il peggio era dopo lavare i piatti, pulire i fornelli. Talvolta lasciava tutto così sporco com’era e sprofondava in qualche programma televisivo. Gli piacevano i giochi delle coppie che andavano raccontare la loro storia d’amore, come si erano incontrati, cosa avevano provato. Tutta quell’apologia della piccola gente di pessimo gusto lo confortava. Era uno di loro, in fondo, e magari avrebbe potuto partecipare ad una di quelle trasmissioni se avesse trovato la donna adatta. Poteva forse essere la Gattinoni, dai fianchi larghi e le gambe storte, quella che incontrava e scontrava nei corridoi delle Assicurazioni. Si erano guardati una volta e da allora avevano continuato a guardarsi. Ma forse era soltanto un’ abitudine senza significato.
Così quella sera era ancora solo, ed ancora intento a prepararsi le sue uova. Si accorse che la luce della lampada gli dava come non mai una sensazione di distanza dal mondo e di calore. Era solo e libero, già. E se poi si fosse fatto impiantare un po’ di capelli – sarebbe stato forse molto costoso – e se fosse andato addirittura in palestra. Chissà. Forse così la sua vita sarebbe stata diversa.
Andò a letto presto come quasi sempre. Nel buio della sua stanza stentò a prender sonno, ma non gli importava. Era di quelli che sanno stare a letto anche svegli, ed anzi godeva nel ravvoltolarsi tra le lenzuola senza dormire, e quindi ancora più piacevolmente cosciente della sua lontananza da tutto e da tutti, in imprecisate ore di profonda notte. Le strade fuori dovevano essere deserte, di tanto in tanto un’automobile avrebbe sfrecciato carica di storie sconosciute, quelli della pulizia delle strade erano forse intenti al loro lavoro in qualche via nei dintorni. E lui era lì, beato, al buio. Questo gli piaceva e la sua pancia non aveva allora molto significato ed un capello di più o di meno non importava.
Ma quella notte, all’improvviso, sentì fuori e dentro di lui avvenire qualcosa. Ci fu come uno smottamento interiore, a cui fece seguito una sensazione di profonda angoscia in un assoluto, anormale silenzio. Qualcosa era divenuto profondamente diverso nella realtà, nel modo stesso di percepirla. Il sapore della sua vita, la qualità dei suoi pensieri erano mutati. E poi, distintamente, con l’evidenza delle verità indiscusse, un dovere: uccidere Ramona.
Si rincantucciò tra le lenzuola, raggomitolandosi in posizione fetale, ma quel concetto non demordeva: uccidere Ramona.
Chi fosse Ramona non gli veniva in mente per nulla. Era uno di quei nomi vagamente volgari, così gli pareva, che potevano essere frequenti in quel quartiere di periferia. Un po’ come Samantha, Deborah. O forse no, non così volgare. Comunque una cosa era certa, chiunque fosse Ramona, doveva ucciderla.
Che questo suonasse infinitamente distante dalla sua vita di sempre, regolare anonima, disattesa ma libera, di questo era perfettamente consapevole. Non aveva mai fatto del male a nessuno, non era di quelli che facevano a botte da bambino e neppure che amassero indugiare in qualche forma di perfidia, come il suo compagno di banco delle medie, il terribile Davide che soleva torturare gli insetti. No, lui era sempre stato com’era da adulto stagionato: grigio, calmo, diligente, con le labbra sottili e la sensualità in sordina. Pronta magari a risvegliarsi alla vista di qualche coscia scoperta, di qualche tetta prorompente. Era andato alcune volte ad eccitarsi in un cinema pornografico. Aveva tuttavia scoperto che vivere senza sesso era possibile e forse auspicabile.
Ma ora c’era Ramona nella sua vicenda. E doveva ucciderla. Poco a poco quella sensazione di estraneità totale scomparve e rimase solo la lucida consapevolezza del suo dovere da compiere. E non doveva essere una morte indolore, no. Ramona doveva sperimentare una morte cattiva. Doveva imbattersi nella sofferenza propria e altrui, in modo inequivocabile, doveva sprofondare nello sguardo inclemente del suo carnefice e scoprire che poteva esistere la completa mancanza di amore e di perdono. Così doveva essere.
Uccidere Ramona.
E dunque Ernesto ricominciò la sua vita, l’ufficio al mattino, la trattoria a prezzo fisso sotto casa, oppure quella a due isolati più in là, giusto per variare, e poi sul suo letto sfatto, a riflettere sul da farsi. Nel giro di pochi giorni aveva capito chi era Ramona. Fu quando venne chiamata, con voce inflessibile, da un ragazzo rozzo e ben fatto stravaccato sulla sua moto di fronte al bar Crespi, gli stivali di pelle nera bene in mostra. Lei gli si era avvicinata complice, gli aveva messo un braccio al collo e l’aveva baciato sopra un orecchio, con un sorriso saputo. Per quanto del tutto avulso dalla vita profonda del quartiere l’aveva in realtà già notata, ma non sapeva che si chiamava Ramona. L’aveva sempre vista in quel bar Crespi, le rare volte che vi si recava la sera per farsi un digestivo. Aveva visto la vistosa ragazza dagli occhi verdi, dai riccioli follemente biondi, le forme decise. Zeppe ai piedi, bigiotteria ordinaria al collo e ai polsi. Le labbra dipinte di rosso vivo, la pelle lievemente rossastra, non fine. Non brutta anzi desiderabile, ma un po’ grossa, un po’ eccessiva nel fisico e nei modi. Rideva forte, ma la sua voce aveva un timbro basso e a suo modo fatale, con vocali larghe ed indolenti. Sicura di sé, Ramona. Sapeva di piacere, di provocare. Sapeva che qualunque uomo sarebbe andato a letto con lei. Di questo sapere erano impregnati i suoi gesti, le sue parole. Fu la sapienza arrogante del suo corpo a colpire Ernesto senza speranza. Ma se era vero che aveva iniziato subito a desiderarla, altrettanto vero è che non poteva dimenticare, neppure per un momento, di doverla uccidere. E giorno dopo giorno imparò chi era Ramona. Era quello che sembrava, una ragazza di pochi studi, frequentatrice di tutti i bar di quella zona, dove rimorchiava operai in cerca di svago o studentelli imbranati. Non era escluso che qualche volta si facesse pagare. Un sabato sera la seguì fino in una discoteca, dove fu accompagnata dallo stesso ragazzo della moto davanti al bar Crespi. Con gli stivali ai piedi, i jeans aderenti, il giubbotto aperto sulla camicia mal stirata, quel tipo appariva quanto mai brutale e piacente, di quelli che con voce dura facevano accorrere le ragazze, che menavano quando la squadra di calcio avversaria vinceva. La curva dello stadio doveva essere il suo habitat più congegnale e sul viso gli era rimasta la cicatrice di una rissa. Perfino Ernesto, che non vedeva che donne e non sognava che donne, si accorgeva dell’erotismo felino che emanava. I due ballarono a lungo insieme nella pista bombardata di luci. Lui compiaciuto e irridente, lei convinta della sua vita che era giusto come doveva essere. Io sono così, pareva dicesse, sono come mi pare e piace e se a voi non sta bene saranno cazzi vostri. Anche ballando il messaggio che mandava era questo. Nel suo corpo serpeggiava l’energia di una ragazza che aveva imparato presto a difendersi, le tette ben delineate sotto la camicetta sottile, il didietro importante che sprizzava gioia carnale schiacciato dalla minigonna. Aveva il senso del ritmo, Ramona, scuoteva la testa e i suoi riccioli biondi si distinguevano anche a distanza tra la bolgia.
E appena misero un lento andarono a bere birra al banco, e poi ad una birra ne seguì un’altra, la coppia appariva un po’ brilla e l’arroganza che prima era appena mascherata ora poteva venire fuori senza remore. Limonarono con esibizionismo evidente, in tutti gli angoli più illuminati della discoteca. Erano molto gasati e chissà cos’altro avevano ingerito, lui con la camicia aperta sul petto, lei con labbra umide rosso fuoco. Ernesto li guardava e pensava a lui che non aveva mai fatto a botte. Il cranio lucido e la pancetta e i piccoli occhi miopi. Strinse le labbra ed ordinò una birra. Bevve e poi ancora e divenne a sua volta leggermente brillo, si fece largo tra la calca con le braccia, come se qualcosa di lui ritrovasse la prepotenza dell’uomo che non deve chiedere mai. Si ritrovò così a poca distanza da Ramona ed il suo tipo che si baciavano avvinghiati su un divano. Era proprio bella Ramona mentre baciava, si immaginavano bene le voluttà della sua lingua decisa sotto il palato, tra i denti di quel maschio insolente. Ernesto non aveva normalmente di queste paturnie, ma a quanto pare la lunga forzata astinenza poteva avere effetti imprevisti. Perché lui non le sbottonava per bene la camicetta, non faceva di più con le mani? Guardava con ansia, dimenticandosi completamente che presto o tardi avrebbe dovuto uccidere Ramona.
Le labbra sottili si stringevano frustrate, le guance livide. Sentiva in quel momento di avercela col mondo, con la natura che non l’aveva fatto idoneo ad andare con una come Ramona, e la lingua adatta a raspare nella bocca di lei. Per questo in fondo aveva smesso di frequentare la sinistra, quando si era accorto che le ingiustizie vere non saranno mai risolte da una lotta sociale. Cosa farsene dell’uguaglianza di classe se gli rimanevano quella pancia e quei piccoli occhi ? Per questo disertava la cara vecchia sezione di partito di tanti anni prima, dove aveva modo di scambiare due parole con uomini dai capelli bianchi e la voce profonda per le esperienze vissute e per il fumo ed il vino bevuto nelle feste dell’Unità. Aveva smesso di ascoltare le dissertazioni sul progresso e sulle alleanze e sulle convergenze. Preferiva i giochi delle coppie alla tivù, dove ciò che veramente contava era lì, spiattellato senza ipocrisie.
E allora uscì da quella discoteca, si districò nuovamente nella baraonda di corpi e di fumo, le orecchie ronzanti e si ritrovò per le strade deserte della metropoli. Era venuto lì con la sua macchina, la vecchia Fiesta, e per un poco non si ricordò dove l’aveva messa. Poi la trovò e una volta al volante si sentì in grado di correre come non aveva mai corso, come a bordo di un bolide d’accatto, eppur funzionale allo scopo. Le strade non erano molto trafficate, i palazzi e i parchi e i marciapiedi si susseguivano senza sosta, finché raggiunse il suo quartiere, per poco non investì un ubriaco e posteggiò appena possibile. Aveva corso e per fortuna non era successo nulla.
A casa si calmò, si fece una doccia veloce e andò a letto.
Il mattino dopo fece colazione al bar Crespi, poi andò nella biblioteca di quartiere a sfogliare la cronaca locale degli ultimi mesi. Sentiva che era lì che doveva cercare, che lì avrebbe trovato la chiave di quello che gli stava accadendo. Dopo un paio d’ore si imbatté infatti in un articolo che faceva al caso suo. Vide la fotografia di un giovane smunto e dallo guardo cupo, che appariva alto ed un po’ dinoccolato accanto ad un grosso cane, e sotto era riportata una brutta storia “Tragedia della follia nella periferia nord della città, giovane disoccupato uccide la madre, la sorella e se stesso.” E più avanti “Fino a quel momento non aveva mai dato segni di squilibrio. Un bravo ragazzo dicevano quelli del quartiere, anche se un po’ taciturno. A suo tempo aveva frequentato, pluriripetente, l’istituto professionale V. Alfieri. Era stato da poco lasciato dalla sua ragazza…”
Questo in quell’articolo. Continuando a leggere la cronaca dei giorni successivi ecco che la faccenda veniva ripresa nuovamente: “Parla l’ex- ragazza del pluriomicida suicida, Ramona Degani. La loro storia era finita a causa dell’eccessiva gelosia di lui, che non voleva saperne che lei avesse un suo giro di amicizie. L’aveva lasciato ma lui non demordeva, l’aspettava fuori dal portone, nel bar dove si recava… ”
Ernesto venne colto da una violenta emozione. Di nuovo il ritmo martellante, cupo di quell’imperativo. Uccidere Ramona, uccidere Ramona. Diveniva un’ossessione da cui non c’era scampo. Ripose il volume dei giornali, quasi si precipitò dall’uscita seguito dagli occhi sgomenti della bibliotecaria. Uccidere Ramona. Non era mai stato così implacabile quel richiamo, e solo una volta rincasato poté calmarsi. Bevette un cognac in piedi nel terrazzino che dava sul cortile chiuso. Evitava di guardare in giù perché aveva sempre sofferto un po’ di vertigini.
E allora ebbe tutto chiaro, vedeva nitidamente tutto quanto. Vedeva quel ragazzo smunto rinascere poco a poco, riaversi dalla sua vita grigia di emarginazione, potendo finalmente aver destato l’interesse di una ragazza, e che ragazza, Ramona Degani, la bonona del quartiere, quella del bar Crespi. Quella ragazza così sexi nelle sue zeppe alte e tutti quei riccioli vistosi. Così stava cambiando la sua vita. E la madre che era sfatta e malata, quasi sempre seduta con i piedi gonfi, lo vedeva rifiorire, lo sguardo farsi meno cupo. Si stava persino cercando un lavoro, dopo anni di espedienti. La sorella che lavorava come commessa all’ipermercato praticamente manteneva tutti e due, lui e la madre, da quando il padre era sparito con una venticinquenne ed ora viveva altrove, servito e riverito come un sultano mentre loro tiravano a campare a stento giorno dopo giorno.
Ramona, Ramona. Quel cambiamento aveva ravvivato la loro vita di famiglia, qualche volta l’avevano anche invitata a cena e Ramona era arrivata con gli arancini di riso della rosticceria di Franco, belli unti, così adatti alla sua risata corposa, alla sua bigiotteria ordinaria.
Si sapeva che Ramona non era proprio irreprensibile ma non importava, aveva fatto tanto per Mauro. Bastava avergli restituito un po’ di fiducia in se stesso. Poi era andata sempre peggio, sempre peggio. Ernesto lo vedeva chiaramente, vedeva la madre piangere davanti alle scenate del figlio che ripeteva che la vita era una merda, che per lui non c’era più nulla da fare, vedeva la sorella alla cassa dell’ipermercato, tra un bip e l’altro delle merci che abbrancava senza sosta e spostava, spostava, senza neppure capire che merce era, pallida e con gli occhi pesti.
La vedeva Ramona, nei bar del rione, a ridere di lui con gli scafati di turno, le gambe piene sotto le minigonne, gli occhi allusivi, farsi offrire ora una sigaretta ora un limoncello. Quei ragazzi sghignazzanti, sicuri del fatto loro che la circondavano, che le facevano una battuta poi un’altra, finchè qualche mano si insinuava sotto i fianchi. E lei che rideva soddisfatta di quelle attenzioni e di quella vita libera che faceva e le avevano fatta fare, sin da quando aveva preso la licenza media e sua madre le aveva detto “Ora o ti procuri del tuo o a casa mia non ci mangi e non ci bevi”.
Ernesto vedeva e sapeva tutto. E riconobbe da lontano Ramona la sera dopo nel vialone che portava alla tangenziale. La scorse assieme al suo gruppo di amici e amiche, a chiacchierare e a ridere sguaiatamente nei pressi di grosse moto ed auto potenti. Si avvicinò e finse di passare di lì per caso. Sperava in un segnale, un appiglio definitivo che in effetti gli giunse quasi immediatamente. C’era un tipo magro e scavato, dai lunghi capelli ed i baffoni che gli coprivano tutto il labbro superiore, che stava vicino a Ramona quanto poteva, col corpo tentennante, che pareva tremasse un poco. Ernesto sentì chiaramente Ramona che gli diceva “ce l’ho io lo zucchero per te…” Glielo diceva con ironica soddisfazione ed Ernesto capì subito di doverle chiedere anche lui dello zucchero, di quello buono. Fu così che la seguì quando, verso l’ora di cena, Ramona salutò gli amici ed anche il suo smarrito confidente, al quale ammiccò rapidamente “Domani alla solita ora” gli comunicò, tirandosi su il bavero della camicetta come colta da un brivido.
Ernesto seguì Ramona che camminava decisa e credendosi sola senza per una volta coincidere col suo ruolo. Semplicemente camminava in fretta. In quel momento non era altro che una creatura deambulante, senza presente e senza passato, in cui tutto era strettamente funzionale. Distaccata da se stessa come tutti coloro che non hanno né presente né passato. Arrivata al portone del palazzo di otto piani dove abitava, accanto ad una triste pizzeria al taglio, Ramona si ricordò di nuovo di essere Ramona e riprese il suo piglio strafottente mentre entrava e andava a chiamare l’ascensore. Ernesto aspettò, vide che l’ascensore saliva fino al quarto piano, poi salì anche a lui e si ritrovò su un pianerottolo che odorava di vecchio, con le pareti di un colore spento indefinito. C’erano due porte, ma Ramona la sua non l’aveva ancora chiusa, si era dimenticata, ma di lì ad un attimo ecco che con uno scatto si chiudeva. Ernesto avrebbe dunque dovuto suonare. Suonò e quando Ramona aprì aveva lo sguardo assente, ma subito parve riconoscerlo, perplessa. Quel tipo l’aveva visto qualche volta nei dintorni, quel ridicolo signor Nessuno, con quegli occhi a punta di spillo. Le salì alle labbra un sorriso di scherno e quando lui le disse “Sono rimasto senza zucchero, non è che ne avrebbe un po’ da prestarmene?” sorrise apertamente, come chi vede ogni tassello tornare al suo posto. Certo non avrebbe mai pensato che quel tipo lì si faceva, ma in questo mondo non ci si può mai meravigliare di nulla. “Ma ha portato abbastanza soldi?” Gli chiese.
“Tanti da farti stare al grand’Hotel per almeno due mesi”
Allora Ramona lo fece entrare. Tutto era in disordine, nello squallido trilocale dove abitava con la sorella – la madre era morta – in quel momento assente. Bene, tutto andava nel modo giusto, si sarebbe potuto evitare uno spreco di cadaveri. Seguì Ramona in una cucina che puzzava di stantio, con bucce di banana gettate sul tavolo, briciole di pane e di biscotti dappertutto sul pavimento. Gli strofinacci per i piatti appesi al muro erano grevi di sporcizia. Un appartamento mal tenuto, mal curato, per vite dove nulla contava se non l’improvvisazione, il colpo del momento, l’idea malfida. E Ramona lo guardava attendendo, curiosa, e le sue labbra erano compresse come se le scappasse da ridere.
Ma Ernesto aveva ora in corpo una forza, una volontà eccezionali, che pervadeva ogni fibra. Non era l’impiegato della G.I.P Assicurazioni, ma il vendicatore lungamente atteso da un ragazzo smunto dallo sguardo cupo. Si scagliò contro Ramona e nella breve colluttazione che seguì riuscì con gli strofinacci a tapparle la bocca e a legarle le caviglie e le mani da dietro. Dopodiché si spogliò fino a restare completamente nudo e appese i suoi abiti, con cura, all’attaccapanni vicino alla porta d’ingresso. Avanzò così nudo nell’aria viziata di quella cucina. Si accarezzò il membro di fronte alla ragazza che si torceva terrorizzata. Si sforzava in tutti i modi di liberarsi le mani e le gambe, ma non ci riusciva ed Ernesto la contemplava affascinato, mentre un eccesso di salivazione lo obbligava a deglutire con gusto, come una belva al cospetto della preda. Diretto da un sicuro istinto aprì il cassetto del tavolo ed estrasse il grosso coltello da cucina che era certo di trovare. Bisognava fare le cose per bene, senza fretta, perché Ramona fosse cosciente fino in fondo di quello che le stava per succedere. Agitò il coltello di fronte a lei, le si inginocchiò appresso e glielo posò sul collo, avvicinando i suoi occhi ai suoi. Accumulò saliva e le sputò in faccia. Restò a guardarle il viso, mentre la sua saliva le colava lungo una guancia, confondendosi con le lacrime. Le sorrise, pieno di gratitudine per il piacere che gli stava dando. Dopo le affondò il coltello in una spalla. Potè percepire lo spasimo atroce di quel corpo, e colpì subito di nuovo. Poi ancora. Estraeva e colpiva alla cieca. E allora fu fuori dal tempo, fuori da se stesso, colmo di un odio pari alla forza sconosciuta dei suoi muscoli. Intorno tutto era uguale a pochi minuti prima, le pareti con la ceramica opaca di sporcizia, le bucce di banana sul tavolo. Tutto uguale e, al contempo, tutto diverso. Pochi minuti prima il mondo era un altro, era un mondo dove Ramona Degani viveva più o meno tranquillamente, pensava alle sue cose, mangiava, defecava. Ernesto non faceva più nessuno sforzo, le sue braccia erano invasate, tutto il suo corpo una macchina perfetta determinata ad uccidere, fatta solo per quello. Finché vide Ramona irrigidirsi con gli occhi verdi spalancati, con un gemito da bestia sfinita. Ed Ernesto ebbe la precisa sensazione dello stacco, del passaggio impercettibile. Quella frazione di secondo fondamentale in cui qualcosa muta per sempre, irrimediabilmente nell’universo. C’era sangue dappertutto, lo scempio di Ramona gli aveva dato la certezza assoluta del suo esserci e del suo agire, di avere uno scopo ed un dovere. Era davvero stato un piacere immenso, andava ancora a rimestare con la punta del coltello nelle piaghe, guardando estasiato la materia che ne fuoriusciva. Colpì di nuovo, infierì sul cadavere. Poi qualcosa accadde anche dentro di lui. Ancora una volta avvertì uno smottamento interno, il misterioso cambiamento di percezione che aveva vissuto quella notte all’inizio di tutta storia. Come se ritrovasse la giusta sintonizzazione. Ora sapeva chiaramente di cosa si trattava. Era l’allontanarsi definitivo della presenza che l’aveva affiancato, che ora poteva finalmente andare a pascolare altrove. Nel silenzio poté poco a poco ritrovare il ritmo abituale del suo respiro. Andò in bagno a lavarsi e poi si rivestì. Non prese l’ascensore e quasi gli parve di volare giù per le scale, tanto si sentiva leggero. Quando fu in strada fu accolto da una frescura corroborante. I passanti si affrettavano ignari verso le loro abitudini, i clienti della pizzeria al taglio facevano la fila vociando, cartacce e scontrini erano trascinati dal vento lungo i marciapiedi. Lo colse quindi una sensazione di calma straordinaria, di rilassamento profondo.
I giorni successivi tutti parlarono dell’orrendo delitto. Si raccontò mille volte, in tutte le salse, di Ramona che la sorella aveva trovato morta massacrata. Se ne parlava nei bar tra uno scopone ed un bicchiere di vino, ne parlavano le donne con i sacchi della spesa incrociandosi nel parcheggio dell’ipermercato o nei pressi dei portoni. Le indagini proseguirono accanite per un po’ ed i giornali riportavano puntualmente gli ultimi clamorosi sviluppi, di lì a poco sempre smentiti. Poi, passato altro tempo, non ne parlò più nessuno. Quell’orrendo delitto parve dimenticato, fino a parere che non si sapesse più neppure chi era stata Ramona Degani, come se le sue minigonne, la sua voce dal basso timbro e la sua criniera di riccioli non avessero mai popolato la fantasia dei ragazzi del quartiere. Anche le indagini si arenarono, finchè tutto confluì tra le tante storie del passato, nel flusso perenne della cronaca di una grande città del terzo millennio.
Ed Ernesto Ruggieri, annoiato ma sereno, prosegue tuttora la sua vita di sempre.

© Paolo Durando





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Mahalabrint e Il ciclo di Surk
di Paolo Durando
2005
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