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Naba
di Enzo Sardellaro
Pubblicato su SITO


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Mi piace la vita di provincia. Mi piace, e non la cambierei per niente al mondo. Stamattina mi va di fare due passi, girovagare per le strade della mia cittadina, guardare le case e le vetrine, la gente che passa e ogni tanto fermarmi a pensare. Eh sì, mi piace la vita di provincia. Noi provinciali abbiamo qualcosa che i cittadini non hanno: il tempo. Il tempo di ruminare sulle cose. Noi, prima di fare qualcosa, ci pensiamo su. La grande città? Rumori, sempre rumori, con quelle macchine che ti passano vicino e che fanno una puzza, che ti prende alla gola e non ti lascia respirare. Il rumore ti distrae, ti confonde: non c’è verso di pensare. La cultura? Ah, sì, la cultura! Beh, ogni tanto la faccio una capatina in città: vado per librerie, compro riviste importanti, qualche libro che da noi non si trova. Ma poi scappo, non mi ci trovo. Al diavolo! Il mondo è piccolo. In un’oretta ci arrivo anch’io in città, ma poi me la butto alle spalle, lei con tutte le sue scemenze. Quante idiozie ci arrivano dalla città! Basta guardare la televisione, con tutti quei tizi che blaterano, ma che non dicono mica niente. Solo fumo, le loro parole sono come il fumo delle loro maledette macchine, servono solo a fare rumore, a creare una cortina fumogena, per nascondere le cose e per nascondersi dietro le cose. Si vede che mentono, si vede e si sente che ci prendono per cretini noi provinciali. Ma noi sappiano dare ancora un valore alle cose; e quando sono delle idiozie le qualifichiamo come devono essere: emerite idiozie. Credono di poterci incastrare con gli “spot”. Gli spot vanno bene per la gente di città, che non ha neanche il tempo di grattarsi. Ma io mi gratto la schiena agli angoli delle case e mi fermo in qualche bar, dove non si sente in giro la puzza di scarico delle macchine.

   Stamattina mi va proprio di passeggiare! Al diavolo tutto e tutti. Mi andrebbe anche di fare un po’ di chiacchiera con qualcuno, ma non vedo gente che conosco. Vado al bar di quel mio amico. Svolto l’angolo di Via Dante, e quasi ci sbatto contro.

   Naba lo riconoscerei anche allo stadio. D’estate poi…Eccolo lì: pantaloni in jeans e una canottiera colorata. Naba! Ma quanto tempo era che non lo vedevo? Una vita.

-          Naba! Ma sei proprio tu?

-          Enrico! Ma guarda chi ti vado a incontrare. Sei in forma.

-          Va là! Si campa alla meno peggio, e si cerca di tirare avanti meglio che si può.

-          Dai, dai, niente storie, andiamo in quel bar a bere qualcosa.

-          Chissà quante me ne devi raccontare, Naba, uno zingaro come te.

 

    Mi prese sotto braccio ridendo. E’ forte Naba, muscoloso, alto, col naso d’aquila. Un po’ ingrassato da come me lo ricordavo, ma tutto sommato ancora ben messo. Forte, uno zingaro. Chissà perché, ma ogni volta che lo vedevo pensavo sempre agli zingari. Forse era perché non stava mai fermo in un posto; era uno che viaggiava sempre, sin da quand’era poco più di un ragazzo. Naba è più vecchio di me, almeno di sei anni. Ma è un tipo simpatico e sta con tutti. Nella vita aveva fatto di tutto pur di viaggiare, il giostraio, l’ambulante. Avevo sentito dire che ultimamente aveva anche lavorato in una scuderia. L’avevano preso come uomo di fatica, per accudire i cavalli. E scommetto che gli piaceva pure. Del resto aveva sempre avuto una passionaccia per i film western, con quei pistoleri sempre a cavallo. Scommetto la camicia che aveva accettato quel lavoro perché lo faceva sentire come un cow-boy del vecchio West.  E’ un tipo strambo, Naba, però sa stare in compagnia, e tira fuori di quelle trovate che te la fanno fare addosso dal ridere. Ogni tanto, da ragazzi ( lui non aveva la macchina, tanto meno la patente), lo portavamo in giro con noi, magari al cinema. Al cinema s’andava per ridere. Non sceglievamo mai, o quasi, film impegnati, solo roba scadente, e solo per riderci su. E magari ridere anche alle spalle di qualche spettatore attento, gratificato sempre con l’epiteto di “deficiente”. Bazzicavamo allora le sale cinematografiche dove proiettavano i film di “Chen”, con tutti quei giapponesini urlanti, che si davano per un paio d’ore un sacco di botte. Noi ridevamo come dannati di tutto quel sudare per niente, dei trucchi scopertamente pacchiani, come con quel giapponese che volava e dietro, sul collo, si vedeva la fune sulla quale scorreva. “ Di’ un po’, Naba, lo incalzavamo, ma perché secondo te quelli si picchiano? E lui: “ La solita storia. Uno deve avere ammazzato o il padre o il fratello e la sorella o il maestro di qualcun altro. Sono film deficienti ”. Poi aggiungeva:  “Guarda quello! Com’è preso e attento. Deficiente!”. Uscivamo, e anche fuori urla e mazzate tra di noi per imitare “Chen”. –“Quello, dicevo a Naba, le suona anche a te! Puoi scommetterci.”  “ Quello? Con una sberla lo faccio girare sei mesi.”. E rideva. Accidenti, quanti anni erano passati, e adesso me lo trovavo lì. Confesso che era curioso di sapere come gli erano andate le cose.

   Ci sedemmo a un tavolino all’aperto e ordinammo un paio di birre.

-          Vivi sempre da solo?, chiesi.

-          Sì, come al solito. Sai, mi sono anche fidanzato per tre o quattro anni. Ma poi…

-          Dai, zingaro, piantala! Racconta un po’: dove sei stato? Saranno quasi dieci anni che non ci vediamo.

-          Dieci anni? Ma sei sicuro, Enrico?

-          Urca! Dieci anni ti dico, e chissà quante ne hai combinate.

-          Non me ne parlare, Enrico. Sono tornato a casa più in bolletta di quando sono partito. Maledetta New York!

-          New York?, esclamai trasecolato. Tu? A New York? Non ci credo. Ma se non sai neanche sputare in inglese! Naba a New York! Mi stai prendendo in giro.

-          Ma no, ti dico! Ti ricordi di quel mio parente che abita in America, nel Bronx? E poi che ci stavo a fare qui?  La casa è piccola, in quattro fratelli, soldi nisba. Litigate a non finire. Poi l’ho detto a tutti in casa. Io, ho detto, vado in America, a trovare quel nostro parente alla lontana che abita nel Bronx. Ci crederesti? Pensavano che facessi per scherzo, e invece… Maledetta quella volta che m’è venuta l’idea!

-          Dai, zingaro, dacci dentro e dimmi tutto! Confessati con un vecchio amico.

-          New York, che Dio la maledica! Non ci andrò più finché campo. Lì, caro mio, è come essere in pista. Devi  fare tutto con l’occhio all’orologio, sempre in fretta. Fai colazione? La devi fare in fretta, anche a rischio di strozzarti. Vai a lavorare? Spicciati, ché sei in ritardo. Vai in bagno? Alé, su le mutande alla svelta. Scommetto che non si puliscono nemmeno  tanto vanno di fretta.-

Cominciavo ad accomodarmi sempre meglio sulla sedia, e ad apprezzare ancor più voluttuosamente la mia vita da provinciale. E intanto pendevo letteralmente dalle labbra di Naba. Ma guardalo lì, pensavo, da ragazzi non gli avrei dato un baiocco. E ora me lo ritrovo un uomo d’esperienza, che mi poteva insegnare qualcosa che io non avrei mai imparato da solo. “Dai Naba, continua!”.-

-          E la gente? Una schifezza. Qui da noi ci conosciamo un po’ tutti. Se hai fame o sete trovi sempre qualcuno pronto a darti una mano. Lì, se ti mancano i “cents” sei fritto. E quel mio parente alla lontana? Che gli venga un colpo! Mi sono presentato a casa sua in bolletta. Gli ultimi spiccioli me li ha fregati il tassista: dieci dollari. E lo zio d’America, sai che fa? Mi prende in casa sua e siccome dopo una settimana non riesco a trovare un lavoro, alé, fuori! E in pratica mi sono trovato in mezzo alla strada.-

-          E come ti sei tirato fuori dai guai? –

-          Come? Stramaledetta New York! Ho fatto il barbone, ti dico. Il barbone! Giravo per le strade e dormivo dove mi capitava. Mangiare? Sono stato anche tre quattro giorni senza toccare un tozzo di pane. E quando mi facevo forza e mi avvicinavo a qualcuno a chiedere la carità, quello mi mandava a quel paese con un sonoro “Go home!”, “Vattene a casa tua, pezzente!”. A New York non trovi nessuno, ti dico nessuno che ti dia una mano, neanche se vedono che stai crepando di fame e di sete. “Fatti in là, buono a nulla, fannullone!”, mi dicevano. “ Ma guarda lì, un tizio grande e grosso. Vai a lavorare, fannullone!”. Te lo dico io, Enrico, a New York o lavori o crepi!-

-          Eh, gli Americani, lo sai no, Naba?, vivono per il lavoro. Produrre, lavorare, guadagnare, farsi in quattro dalla mattina alla sera. E lo sai  perché? Perché così ti manca il tempo per pensare, per pensare in che razza di mondo vivi. Devi produrre, arricchire, farti il doppio, il triplo, il quadruplo lavoro. Poi magari ti godi le meritate ferie alle Seicelle, e così fai crepare d’invidia gli amici. Adesso, anche qui, caro mio, ci stiamo americanizzando in tutto. Sono anni che ci lavorano sotto: basta sentirli alla televisione. Ormai, caro mio, ci siamo quasi dentro del tutto. Lo sai? Una mattina mi telefona un tizio, che m’impastrocchia su un discorso, che lui lavorava per una Società ( di cui non ho capito il nome), e che era pronto a “raddoppiare i miei soldi in banca”. Disse proprio così: “Caro signore, se lei si affida alla nostra società, i suoi soldi raddoppieranno”. Di fronte a questa miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci, ho chiesto al tizio di ripetermi il nome della  Società per cui lavorava. Beh, ci crederesti? M’ha farfugliato su ancora un nome che non capivo. “Senta, gli ho detto, la cosa non m’interessa”. “Come?”, mi rispose inorridito, quasi fossi un alieno. “Come? Non le interessa raddoppiare il suo denaro? Ma lo sa lei, signore, che oggi il denaro è tutto?”. Mi disse proprio così. Ti dico come ho risposto? “ Egregio signore, sappia che, da che  mondo è mondo il denaro è sempre stato tutto, come dice lei, per certa gente. E questo vale per oggi, per ieri, e varrà per domani”. Non so se sia stato il mio profondo discorso filosofico a metterlo in imbarazzo. So che l’ho sentito esitante dall’altra parte del filo. Poi ho messo giù la cornetta del telefono.

-          Deficiente!

-          Chi, io?

-          Macché, quel tizio, ti dico. A New York, te lo dico io, è come vivere in una casa di cura per alienati mentali. E’ un vero manicomio, te lo dico io. Ma lo sai che puoi essere vicino di casa a dei tizi  con cui non scambi una parola anche se ci abiti gomito a gomito per trent’anni? Sono matti, te lo dico io. Questa città non è fatta di gente, ma solo di muri e di finestre gigantesche. Qui non parli con nessuno. Li vedi che camminano. Ma dove diavolo vanno? A lavorare, a guadagnare, sempre correndo, di fretta. Talvolta ti distrai per strada, e magari pesti i piedi a qualcuno, che si volta e ti guarda come se non ci fosse nessuno.  “Scusi!”, dico. Ma quello tira dritto e continua a camminare. D’inverno, poi è ancora peggio. Tu lo sai, Enrico, a me piace l’estate. Giro in canottiera e jeans. E anche d’inverno, una maglia e via. A New York? Ti dico che ho patito un freddo tra i più boia che io ricordi. Uscivo di casa che parevo un astronauta: maglia di lana, pantaloni sempre di lana, tre quattro paia di calze di lana e via in mezzo a ’sta gente frettolosa che non parla mai. Quella non è una città, ma una bolgia. D’inverno, te l’ho detto, puoi sputare in terra sicuro che lo sputo gelerà prima di toccare il suolo; d’estate è come essere sulla graticola. Tu lo sai, sono forte. Beh, lì mi prendevo raffreddori a catena. Al diavolo, non ci torno più a New York!-

-          Sei sfigato, Naba. So di gente che pure li ha fatti i soldi in America.-

-          Non dire stupidaggini. Lì c’è un giro che non può fare per gente come me. Lo so anch’io che qualcuno fa i soldi, e anche alla svelta, ma allora ti devi buttare su strade pericolose, vendere droga o metterti con gente che bazzica il gioco d’azzardo. Caspita, se rende! Se ti va bene, però! Se ti beccano, invece di trentamila dollari, ti fai trent’anni di penitenziario federale. Quella è roba che non fa per me. Meglio cercarsi un lavoro, te lo dico io, come ho fatto io.-

-          Alé, l’hai trovato allora un lavoro!-

-          Ci puoi scommettere. Tu mi conosci. Ma che fatica! Ci vuole pazienza, furbizia e molta attenzione, te lo dico io. Sennò ti perdi, ma per davvero. Ci crederesti? Nei primi tempi, dopo una gran brutta esperienza, stavo lì davanti a casa cinque minuti buoni prima di andar via. Le strade, ti dico, sono tutte uguali, lunghe, lunghissime, interminabili. Non ne vedi mai la fine. Se non t’imprimi nella mente dove abiti, non torni più  casa. New York, te lo dico io, è peggio della foresta tropicale. E non c’è verso che qualcuno ti aiuti a orizzontarti. Quei figli di buona donna fanno anzi di tutto per farti sbagliare strada. E così ti trovi solo, in mezzo a una città che non conosci, con quelle maledette strade tutte uguali, che ti viene quasi da piangere. Da noi, se chiedi a qualcuno di indicarti una via, quello mica ti manda dalla parte opposta, qualche volta, addirittura t’accompagna.

-          Hai ragione, Naba. M’è accaduto di recente di aver bisogno di un’informazione per trovare un’officina. Ci crederesti? L’ho chiesto a un ragazzo, che mi ha fatto strada col suo motorino, e io dietro con la macchina. Hai ragione, noi non freghiamo per partito preso la gente. Se non sappiamo una via, lo diciamo. “Guardi, non lo so, mi dispiace”. E quello ti risponde: “ Non importa, grazie lo stesso”.-

-          Proprio così, Enrico. Ma quella, te l’ho detto, è una città di folli.-

-          Foucault la battezzerebbe come la “stultifera navis”, la nave dei pazzi.-

-          Piantala di sdottoreggiare. Come hai detto?-

-          “Stultifera navis”. Era la nave su cui imbarcavano i matti, e anche tutti i poveri. La si portava al largo e poi la si mollava. E buona notte. Un ottimo sistema per liberarsi della povertà, facendo fuori i poveri. Il sistema era infallibile. Si risolvevano così molti problemi di ordine pubblico.-

-          Beh, hai ragione. New York è come una nave di pazzi, e anche di poveri. Lì, caro mio, se non hai un lavoro, sei fregato. Se non paghi l’affitto al padrone di casa, ti trovi con i mobili tutti belli ammonticchiati sulla strada, anche se c’è un freddo polare e magari hai la moglie o i figli che sono malati.

-          Ma dai, Naba!

-          Te lo giuro, è così! L’ho visto io con i miei occhi un fatto del genere. E lo sceriffo dà ragione al padrone di casa. Niente dollari? Niente casa. E “rauss”, vai a farti friggere dove ti pare.

-          Aspetta, adesso che mi ricordo, l’ho visto qualche tempo fa un servizio per televisione su questi americani poveri. Se uno non aveva l’assicurazione, o i soldi per pagare l’affitto veniva sbattuto fuori, a dormire con la famiglia in macchina, se ne aveva una. Li chiamano “homeless”, e vanno a dormire in quei quartieri devastati, abbandonati, in mezzo a una sporcizia paurosa. E dicevano che in America gli “homeless” sono in continuo aumento. Ah, l’America. Paese divino, paese di Bengodi, dove tutti possono diventare qualcuno! L’America. “American way of life”. La via americana al successo. Bella roba! “Ma le tasse ci divorano!”, si dice. Sì, sono ladri. Ma dobbiamo aborrire l’ “american way”, perché è una via che non ci porta da nessuna parte. Quella gente, ti dico, sta impazzendo. L’ho visto sul tardi quel servizio sugli “homeless”. E per forza! “Quelli” devono essere ben sicuri che la gente del varietà sia ben a letto a dormire sodo. E ci mancherebbe altro! Le cose importanti e intelligenti si devono trasmettere a ore proibitive per i poveracci. “Fuori Orario”. E perbacco, certe verità o mezze verità vanno dette, ma quando non c’è nessuno che guarda e ascolta. Mi ricordo una trasmissione di molti anni fa. C’era anche il pubblico in studio e la televisione si stava un po’ aprendo anche alla gente, dopo anni di egemonia dei “politici”. C’era  tra il pubblico anche una signora, cui venne in mente di fare una certa domanda a un dirigente RAI. Osservava l’incauta: “ Ma perché certe trasmissioni belle, molto interessanti, le trasmettete in contemporanea? Potreste farle sfalsate, in modo che si possano seguire tutte”. L’ingenua spettatrice aveva ragione, ma il dirigente RAI di allora non poteva certamente spiegarle che la televisione, “allora” (solo “allora”?) se la spartivano i partiti, e che ogni canale cercava di far le scarpe all’altro. Ma il dirigente, come ti dicevo, non poteva dir questo alla malcapitata. Questi rispose con un’ arroganza che è sempre un chiaro segnale di malafede impotente. Glielo si leggeva in faccia che mentiva, che l’avevano incastrato con una domanda insidiosa, e ora doveva far di tutto per trarsi d’impaccio: “Cosa pretende lei? Che per farla contenta la RAI trasmetta delle trasmissioni scadenti?”. Balle. Le trasmissioni della RAI erano (e sono) quasi tutte scadenti e di basso profilo, e quel dirigente, quella sera, ingannò solo i polli ( che sono tanti, lo ammetto). Poi ( vado a razzo ), mi rammento un’intervista dei primi anni ’60 con Pasolini. Non ricordo chi la conducesse, però, si sa, Pasolini era uno che dava fastidio in televisione, e meno si aveva  che fare con lui meglio era. Ma, come ti ho detto, la televisione all’affacciarsi degli anni ’60, con il boom economico alle porte, voleva darsi una bella verniciatina di democrazia, e allora eccoti là che t’invitava Pasolini. Non mi ricordo più il tema dibattuto, ma Pasolini disse che era sempre difficile parlare in televisione, perché la censura era molto forte. Il conduttore ( era Vecchietti? Non potrei giurarlo) ripeté la solita solfa che serve solo a convincere i soliti polli: “ Ma se lei è qui, vuol dire che la Televisione le permette di parlare”. La risposta di Pasolini fu secca, perentoria e, devo dire, mi fece una certa impressione allora. “Lasci perdere, lei sa bene quanto me come stanno effettivamente le cose”. Il conduttore, saggiamente, ritenne inopportuno imbarcarsi in una polemica sulla sedicente democrazia della televisione con una mente di quel calibro e tirò avanti.

-          Proprio così. E non ci puoi fare un bel niente, perché questa è la legge. Uno non può non conoscere la legge a New York. La legge dev’essere nota a un adulto, altrimenti sei fregato. Lì contano i dollari e la legge. Se non hai i primi e se scarseggi nella seconda puoi andare a quel paese, sei “out”, tagliato fuori, fregato in pieno. La legge protegge solo i cani, i bambini e le donne.

-          Bella, Naba! Adesso però me la devi spiegare per bene.

-          Presto fatto. Prova un po’ a lanciare un sasso a un cane. Finisci in galera, capisci? In ga-le-ra. Lì a New York, vali meno di un cane. E’ così, te lo dico io.

-          La protezione animali, Naba, sarebbe d’accordo!

-          Bella roba, dico io. Una persona non può valere meno di un cane, comunque tu guardi la cosa. E chi ti dice che quel cane non m’abbia dato fastidio? Che io non abbia cercato di difendermi in qualche modo? Ma quelli non sentono ragioni. Se ti beccano, ti portano dentro. E’ la legge! Un cane ti infastidisce? Buono, è un cane, tu sei un uomo, per la miseria! Devi star buono. Vali meno di un cane. E’ la legge.

-          E la faccenda dei bambini?, dico.

-          I bambini, ah i bambini! Quelli possono fare di tutto, i piccoli delinquenti. Rubare, ammazzare. Sono protetti, sono bambini. La legge li protegge, sempre e comunque. Gli Americani sono matti, e infatti rovinano la gioventù con un permissivismo diabolico. E guarda che razza di società si ritrovano. Con la droga l’ultima “americanata” è stata quella di andare coi defolianti a distruggere le piantagioni dei paesi produttori latino-americani . I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ormai il “mercato” della droga esiste, ed è nata un’industria che ora nessuno è più in grado di estirpare dalle radici, come vorrebbero fare i “puritani” americani. Sarebbe come se un bel giorno decidessimo di incriminare Agnelli o Ford per omicidio perché ogni anno un sacco di gente s’ammazza sulle strade. L’industria dell’automobile non la distruggerai criminalizzando i produttori, così come nessuno distruggerà quella della droga. La droga, come l’automobile, è un fatto sociale non di polizia. Il massimo cui si può tendere, gli americani l’hanno in parte capito, è di limitare i danni. Usano i cani poliziotto per scovare gli spacciatori, e hanno insegnato anche a noi come fare, i “maestri”. Ma l’azimut della consapevolezza sarebbe di raggiungere l’obiettivo di far controllare dallo Stato l’afflusso della droga nei vari paesi. E’ inutile che facciamo gli ipocriti e ci scandalizziamo tanto. Lo Stato qui da noi non ha il monopolio delle sigarette? E le sigarette, si dice, non fanno male? E allora? La droga controllata dallo Stato, farà  meno male di quella affidata a un mercato selvaggio, se non altro perché sarà qualitativamente migliore, e non “tagliata” con le più sordide porcherie.  Anche gli scarichi delle automobili fanno male. E allora perché non mandiamo la polizia alla FIAT a ordinare al Senatore Agnelli di costruire tutte le automobili con le marmitte catalitiche, oppure, per una maggior sicurezza degli automobilisti,  di istituire  l’air-bag di serie; e infine di costruire le macchine con quei nuovi materiali che stanno studiando per rendere meno disastroso sull’uomo l’impatto in caso di incidente? Perché lo Stato non “ordina” ad Agnelli di fare così?  Ma chi li controlla i padroni del vapore?

-          Accidenti, Naba, tira il fiato. Dai, beviamo.- Beve, ma continua a parlare a raffica.

-          Non ce la fanno più, ti dico. Quelli difendono la pena di morte perché non ce la fanno più!

-          Hai ragione, Naba. Volendo apparire “civili” a tutti i costi, tagliano alle radici la possibilità di costruire una società più umana . E invece quella americana è una società violenta perché è troppo sbilanciata sul denaro. Ne hanno fatto un moloch che li sta divorando tutti. Tutti parlano del “mercato”, e ne hanno fatto un ente metafisico, che sembra sovrastare tutti noi come un qualcosa di imperscrutabile. Il mercato è il nuovo Dio: essere presente eppure invisibile, a cui tutti soggiacciamo. E dimenticano un’elementare verità: ossia che è l’uomo che ha creato il mercato, e non viceversa. Lo dicono anche gli studiosi di economia, quelli seri però. Il prof. D. Cantarelli sollecitava anni fa i colleghi “consulenti del prìncipe” a ricordare al “moderno prìncipe” che “ il mercato non è un dono di Dio, né espressione di un perfetto ordine naturale, ma una creatura dell’uomo”. Ma ormai gli Americani sono decollati da tempo verso una meta che  non conoscono, ma che mostra sempre il suo volto. E questa meta, te lo dico io, è la “fine”.  Lasciano alla luce del sole troppe ingiustizie sociali e perdono il senso delle cose perché misurano tutto col dollaro. Lo so, da noi ci sono i profittatori, i furbi, questi maledetti furbi che frodano la comunità in tutti i modi, con le pensioni fasulle, per esempio, ma anche con le frodi fiscali, che sono peggio, peggio dei trucchi messi in atto dai poveracci. Fino a qualche tempo fa, non c’erano mica tante lamentele da parte di certe categorie “protette”. E poi in alto, nei Ministeri, la burocrazia  gode di privilegi spaventosi, segreti, non detti, sottaciuti, che provocano seri problemi a qualsiasi classe dirigente, di destra o di sinistra, che deve cedere per tenersela buona. Lo so. Tuttavia bisogna resistere all’americanizzazione, perché quelli sono al fotofinish. 

-          Ai bambini, dico – continua Naba-, quando si comportano male, bisognerebbe mollare qualche sonoro ceffone. Ti sogni di dare una sberla a tuo figlio? Orrore! Finisci in galera, se ti vede un poliziotto. D’altra parte abbiamo a che fare con una generazione di bambini e ragazzi americani scrupolosissimi nel portare a scuola il necessario materiale didattico: coltelli a serramanico, da usarsi come tagliacarte o, peggio, per pulirsi le unghie; fucili a canna mozza, pistole e mitragliette per gli studi di balistica; eventuali bombe a mano per qualche botto festoso al termine delle lezioni. La società americana è una roba da matti. Ma è la legge! Come con le donne. Quelle, guai se le tocchi! E per forza, sono rimasti ai tempi della conquista del West, quando le donne erano poche e quelle poche bisognava tenersele care, qualunque cosa combinassero. E’ il loro sistema mezzo puritano e mezzo pragmatico che li porta a fare leggi di questo tipo. Tocchi una donna? Sei arcifritto, un bruto. Torni a casa distrutto dal lavoro e quella ti rompe? Lasciala fare, è una donna, guai a toccarla! Quella va alla polizia, dice che sei Barbablù, Landru, e sei dentro per maltrattamenti. Io, te lo dico, ho perso il posto di lavoro per una donna, e me ne sono andato da quella gabbia di matti che è New York.

-          Ecco, bravo, sta’ calmo e parlami un po’ di quello che facevi.

-          Sono riuscito a trovare lavoro in una fabbrichetta che confezionava camicie. Ho imparato bene il mestiere e sono diventato veramente bravo. A tempo perso facevo anche il rilegatore di libri. E lo sai? Con questa mia seconda attività me ne sono letti tanti. Accidenti, se ne ho letti. Poi mi sono ammalato, e ti dico che ho temuto che mi sbattessero fuori. Invece sono stato fortunato, mi hanno tenuto, fino a quando ho litigato con una donna che lavorava lì, che aveva sbagliato e voleva dare la colpa a me. Mi arrabbiai come un matto, e stavo quasi per darle una lezione coi fiocchi. In quel momento passa l’impiegato.

-          Che fai, Naba? Lasciala stare, è una donna!

-          Basta!, urlo, donna o no è stata lei a sbagliare. E io non ci resto un minuto di più qua dentro. Al diavolo tutti e anche New York, me ne torno a casa! E come hai visto, Enrico, sono tornato. Ma ormai ho dato fondo a tutti i miei soldi, e ora non so come fare.

-          Che ne faresti di questi soldi, Naba?, chiesi.

-          Riprenderei a viaggiare. Vorrei andare a Città del Messico. Un mio amico tassista, che ho conosciuto a New York, mi ha invitato a passare da casa sua, se fossi stato in Messico.

-          Di quanto hai bisogno?

-          Un milione.

-          Un milione?, esclamai. Tu sei matto Naba. Te ne do mezzo e levati dai piedi.

-          Spilorcio!

-          A me? Ohé Naba, il Ministero della Pubblica Istruzione mica è tanto largo con noi, sai? Ti faccio un assegno di mezzo milione. E sono quasi pentito.

-          Da’ qua! Vedrai, te li restituirò…prima o poi.

Mi alzai per pagare le bibite. Mentre uscivamo, un tizio che doveva aver orecchiato i nostri discorsi  sbottò: “ Ah, New York. Chi non c’è stato non conosce la vita. Io ci sono stato anni fa, e combinai un affare che mi fece triplicare il capitale investito. Che città, ragazzi!”

-          Hai sentito, Naba? A quello è andata bene.

-          Deficiente!

Quella fu l’ultima parola che sentii da Naba. Dopo di allora non  l’ho più rivisto. 

          Se a qualcuno venisse in mente di negare la reale consistenza di Naba, risponderei negli stessi termini di Luciano di Samosata: che quella di Naba è una “Storia Vera”. Pago anche i miei debiti nei confronti dell’antropologo americano Oscar Lewis, dai cui studi di antropologia urbana ho preso più di uno spunto. D’altra parte, a me non piace molto viaggiare, e, come l’Ariosto, per conoscere il mondo preferisco ai treni e agli aerei l’antico “Ptolomeo” (sc. La carta geografica).  

          E non è detto che non s’impari nulla.

© Enzo Sardellaro







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