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LandMark Motor Hotel
di Vagabondo Ebbro
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a Janis Joplin

Avrei voluto abbracciarli tutti, prenderli e tenerli per mano insieme in un sogno unico e senza fine. Eppure tutto muore, lentamente, come un urlo che striscia dentro, senza pace. Così finisce un amore soffocato dal silenzio.
Averci un blues.

A volte penso che quel silenzio sia una musica così as-sordante da confonderti le idee. Le schiaccia alle pareti e hai voglia a staccarle e rimetterle in piedi com’erano. A guardarti allo specchio non riconosci che rughe e cicatrici.
Certi suoni che non avresti mai immaginato, voci distorte e ubriache, lamenti e singhiozzi e sentimentali riff s’accavallano, s’inseguono al ritmo lento e morente di un blues ormai lontano che prima t’accompagna, illudendoti, e poi, senza che tu te ne accorga, senza che tu abbia nemmeno il tempo di sorridere o piangere o che so io be-stemmiare, senza tempo né battito ti lascia per terra e se ne scappa via. Blauh!!!
Silenzio.

Rimango ferma a rattoppare qualche buco per non far scorgere il calzino stinto e mi nascondo dalle folate che soffiano forti sotto una coperta di lana strappata qua e là e indosso la mia giacchetta. Così carina di seconda mano presa in prestito, la tipa del bar, tutta tette e dolci malinconie, me l’ha data per una foto e un sorriso.
Che dirle?
Rantolo in continuazione che non so fermarmi. Mi copro dal freddo e dallo spiffero impudente.
Viene dentro come un orgasmo sottile, sale su per le scarpe sfondate, sapete vanno tanto di moda, ma i piedi non sanno. Ed io non so nemmeno che giorno sia, figurarsi il mese, la stagione, l’anno. E non chiedetemi come mi chiamo che non saprei per nulla rispondervi. Non ho la più pallida idea di quale sia il mio nome.
Le idee si confondono. Capita a tutti del resto, tutti hanno idee confuse. Basta guardarsi in giro e ascoltare le parole della gente. E tanto più bene parla tanto è confusa, la povera gente.
Ascoltatela.

Spegnete le vostre menti per qualche istante, zittite il trillare di telefoni invadenti e nascondete nei vostri freddi garage il rombo delle automobili, acquietate antichi dolori e rinnovate speranze e fermate tra le dita il sibilo di aerei insinuanti, fate tacere le urla dei bimbi che ingombrano la mia povera testa. Fate tacere le urla silenziose dei bambini che scalciano su prati di fango. Nei ghetti si ride per un pezzo di pane trovato per terra, si ride di nulla e si muore per niente e la mia mente oggi è un ghetto.
Ascoltateli.

Il tintinnare di monete sonanti scambiate al mercato da serpenti a sonagli, il fracasso di investimenti e azioni, e miliardi sparsi qua e la per nessuna ragione, bruciati da invisibili fiamme, la spranga che stride sul ferro, dolcetti appena sfornati e vitelli squartati, la vanga che sradica l’erba. È il loro mestiere. Sudore e denaro marciscono insieme per le loro pene.
Ascoltatele.

Frenetici passi in fondo alla strada, all’angolo, quando il marciapiede svolta nascondendo il cammino e non sai dove andare, all’angolo tra il negozietto alla moda che ti infilza di creme, gonnelline attillate da spezzare il fiato, crampi allo stomaco per culi d’inferno, tormenti e desi-deri e giochi che volevamo, ma era appena ieri. Quel ne-gozietto di sogni e speranze e la vecchia baldracca che raccatta qualche cazzetto moscio per un caffè e latte. Che fuori dicono faccia freddo davvero quand’è inverno. A malapena in piedi, tra quel posto incantato e la donna che tanto ha ingoiato, e qualche rumorosa cinepresa ci sta questo piccolo hotel che m’abbraccia stanotte. Un volto scrostato dal tempo, ricordo di colori sgargianti vinti dalla pioggia. Nulla rimane com’è. Qualche finestra cadente, una porticina e parecchi mal squadrati scalini da lasciarci le gambe, scricchiolanti più che mai. Anche qui, fuori dal mondo, a quanto pare c’è confusione, e forse più. Da parte mia ascolto e tendo le orecchie a questa vecchia radio e la sua piccola cassa che gracchia, ansimando, più della mia voce.
Ascolto governanti e papi, dottori e puttane, e madri e padri in balia degli eventi, e piccoli bimbi che gridano sui prati di fango. Tutto è confuso che i miei occhi piangono lacrime asciutte.
Pensieri confusi e silenzio assordante, ecco quello che sono. Ho scopato fino a sfiancarmi con gente che nem-meno conosco e adesso mi sento come un pensiero con-fuso in un silenzio assordante.
E qualche brivido di paura mi tiene compagnia.
Non è che ci voglia granché poi per esser confusi. Basta un po’ di solitudine, e un pizzico d’onnipotenza. Quando le tue parole vengono ascoltate ed esauditi i tuoi desideri, allora non ci vuole molto a confonderti le idee.
Da non capirci un cazzo davvero.
Così me ne sto qua a guardare da questa finestrella un po’ sudicia, qualche passante distratto, un’auto scalcinata e un whisky che ballonzola su gambe malferme. Il mio silenzio è claudicante come quell’uomo, va e viene, va e viene dal silenzio nel silenzio.

Averci un blues da cantare, anche per qualche minuto, allora forse starei meglio, ma le corde le hanno spezzate e nessuno le può cambiare a quanto dicono. Sono andata dal mio amico e gli faccio, “cambia sto’ ponte e metti corde nuove che voglio cantare”, mi guarda e mi dice che non c’è verso. Adesso le corde della mia vecchia chitarra non le fabbricano nemmeno più e quelle della mia gola martoriata s’allentano giorno dopo giorno. Nulla da fare. Eppure sembravano nuove, luccicavano ancora di smalto fresco e avreste dovuto sentire come suonavano. Ma adesso che dire, silenzio intorno, e ritorno a giocare con i polsini della mia camicia bianca unta d’alcol di non so quando.
Ma sarà stato di certo d’annata.

Piangi, piangi piccola, e fai rumore, canta più forte che puoi, con quanto fiato il buon dio t’ha ficcato in quella stretta e fradicia gola che ti ritrovi. Canta che la morte ha paura e rimane li, ferma sulla porta. Mai sia fatto silenzio. Nel silenzio ti prende che neanche t’accorgi. Siamo dunque tutti morti tra le pareti di questo hotel?

La chitarra freneticamente distorta che ascoltavano qualche passo più in là non suonerà. Hanno staccato la spina. E la lucertola che ballonzolava, sgusciando tra i vecchi tappeti d’arredo, e dribblava le sedie saltellando su una zampa e sedeva accanto a me aspettando che ac-cendessi il camino, beh quel simpatico rettile credo non metterà più il suo musetto fuori. S’è infilato in un buco più grande di lui e non penso ne esca più. Ha perso la coda.

M’è sembrato per un attimo che il vento mi dicesse qualcosa, come se avesse cercato di parlarmi, di attirare la mia attenzione, richiamarmi alla vita, fuori da questo buco d’albergo. Zitti che non riesco a sentire, un po’ di silenzio signori, grazie. Il vento ha qualcosa da dirmi. Guardate come s’agita e sfronda foglie e rami e piega al-beri e coscienze. Ammutolisco il mio cuore per ascoltare meglio, ma, v’assicuro, niente. Non si riesce a capire. Che forse invece di parlare mi stava cantando qualcosa, una ninnananna magari? Che sensazione magnifica essere cullati dal vento verso un sonno pieno e quieto. Come vorrei riposare adesso.
Averci un blues.

Lo tratterrei stretto nella mia gola, accarezzandolo dol-cemente per poi colpirlo con forza, senza scampo. Lo amerei fino a perdere fiato. Che non mi lasci in silenzio. Lo potrei sussurrare, anche, perché no, ad avercelo tra le labbra, e invece nulla, nulla di tutto questo.
Labbra secche e spaccate nel profondo e animi lacerati, ma non importa ch’è tutt’un’altra storia.
Piangi, piangi, bambina vieni a me e continua a piangere, che non è silenzio per noi.
Cazzo, averci un blues.

© Vagabondo Ebbro





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