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Beltigre
di Ultimorosadilautrec
Pubblicato su PB7
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Beltigre viveva pacifico e beato in una casa nel parco.
Aveva tutto quanto potesse desiderare un gatto: stanze a volontà, ampi
davanzali sui quali appisolarsi pigramente al sole, una cucina grande
con un camino di mattoni rossi refrattari che conservano a lungo il
calore, due letti matrimoniali dove si divertiva come un pazzo a far
dispetti alla padrona quando rassettava la stanza.
La mattina era solito infilarsi tra il materasso e le lenzuola mentre
Clara sistemava il letto. Guardare quei teli nell’aria, scattare e
arrivare sul materasso un attimo prima del lenzuolo per far sì che
questo lo coprisse avvolgendolo tutto, era uno dei suoi giochi
preferiti. Clara le prime due o tre volte lo lasciava fare, poi
spazientita lo prendeva e lo posava a terra per finire di sistemare la
camera. Impresa ardua! Beltrigre al contatto della zampetta sul
pavimento, con uno slancio felino saltava nuovamente sopra
ostacolandola nel lavoro.
Il giardino, l’orto, la macchia poi erano il suo regno, così come la
terrazza coperta da una pergola d’uva galletta, il campetto laterale
con l’altalena e il mandorlo, il cui tronco era un’ottima lima per le
unghie. Pochi scalini portavano al frutteto, e solamente quando aveva
voglia, si dilettava a cacciare.
Una volta, mentre stava rientrando in casa, s’imbatté in una serpe che
lo aggredì. Alzò il pelo e iniziò a soffiare, quindi i due si
avvinghiarono e combatterono. La lotta fu serrata, ma alla fine
Beltigre riuscì a primeggiare. Morente e ancora calda, la prese in
bocca e la donò come trofeo alla padrona che spaventata lo ringraziò
urlando: “ Una vipera! Dio, una vipera!”. Miagolando rispose: “ Tanta
agitazione per una misera biscia?”
Tuttavia, nonostante le comodità e i pasti assicurati, Beltrige sognava
di vivere altrove, in una comunità piena di gatti, senza essere
soggetto ad alcun padrone. A lui piaceva la compagnia. Non che
discorresse molto, ma era un gatto curioso, attivo, e la vita di
campagna, che aveva conosciuto sin dalla più tenera età, gli andava
stretta.
Più volte, si era allontanato e con calma, passo dopo passo e senza
furia, aveva raggiunto il paese arroccato in collina.
Gli piaceva entrare nell’abitato. Camminare a coda ritta nelle strade
principali lo faceva sentire adulto e libero. Saliva le scalinate
lasciando che il calore o il gelo delle lastre entrasse nel suo corpo e
si affacciava alle porte aperte per vedere chi c’era ed osservare scene
familiari: bambini che guardavano la televisione, ragazze con in testa
cuffie che producevano un rumore quasi musicale, uomini che leggevano
il giornale, donne ai fornelli, vecchie che sgranavano chicchi di
Rosario.
Il luogo che più lo attirava era la piazza dai negozi d’ogni tipo, bar,
pizzerie, ristoranti. Regolarmente veniva cacciato dai commercianti, ma
un oste lo lasciava entrare e lui si stendeva con la schiena appoggiata
al muro per ascoltare le storie che i clienti raccontavano.
Insomma avrebbe preferito abitare in paese e non nella casa del parco.
Pensa e ripensa, un giorno decise di scappare da casa definitivamente
per vivere libero come aveva sempre sognato. Si avvicinò a Clara che,
ignara delle sue intenzioni, lo carezzò sulla testa, poi dette un
ultimo sguardo alla casa e partì.
Durante il tragitto rimuginava su quanto lasciava e sul futuro, ma non
ebbe pentimenti. Certo gli sarebbero mancate le coccole di Clara, i
pranzi assicurati, ma il desiderio di decidere di sé stesso era più
forte di lui.
In paese, non fu semplice essere accolto dagli altri membri. Dovette
combattere, azzuffarsi con i gatti che controllavano le varie zone.
Uscì malconcio da una lotta con un esemplare enorme e nero, ma non si
arrese e la sua caparbietà e la sua fierezza lo portarono ad essere
accettato.
L’assemblea dei felini, riunitasi in uno spiazzo sopra l’abitato, lo
nominò padrone effettivo di un piccolo vicolo chiamato La loggia che
diventò la sua casa.
Di buon’ora stirava le zampe, si ripuliva, leccandosi con calma ogni
centimetro del corpo, sbadigliava e poi andava al primo appuntamento
della giornata, quello con il pescivendolo che giungeva a bordo di un
furgoncino seguito da un pugno di mosche. Se la situazione gli era
favorevole, dopo poco Beltigre aveva già consumato la colazione, altre
volte doveva attendere a lungo, ma raramente rimaneva a pancia vuota.
Soddisfatto passeggiava per digerire e passava il tempo chiacchierando
con gli altri paesani. E poi…. poi c’era Rosina, una gatta snella, dal
portamento elegante, rossa come il fuoco che lo intrigava a tal punto
che per lei si ritrovò a miagolare notti intere tanto da rimediare
delle docce fredde provenienti dalle finestre del vicinato.
Più volte Clara lo aveva cercato e più volte lo aveva riportato nella
casa nel parco, ma a Beltigre veniva la malinconia, non aveva voglia
neppure di giocare. Spesso si aggomitolava sotto un piccolo tavolo di
vimini coperto da un telo e sognava le strade, la loggia, gli amici e
Rosina.
Anche Clara si accorse che Beltigre non aveva più interessi, era
insoddisfatto e quando lui andò via per l’ennesima volta lo lasciò
libero. Se s’incontravano in paese, Beltigre si avvicinava alla sua
gamba e si strusciava facendo le fusa, riconoscente per la libertà che
la donna gli aveva regalato
A Clara non restò che una foto dove l’aveva immortalato con una zampa
appoggiata sopra la ciotola d’acciaio, la foto di un gatto di nome
Beltigre, che aveva rinunciato ad abitare in una casa bella e dotata
d’ogni comodità per trasferirsi nella fredda loggia del vicino paese in
nome della libertà.
©
Ultimorosadilautrec
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