Vi ricordate la voluttuosa luminosità, la seduzione delle forme, la brillantezza dei colori, la tensione nell'equilibrio vertiginoso degli opposti del Giudizio di Paride? Ebbene scordateveli perché il Rubens di cui parliamo non c'entra nulla con quel quadro, ad Anversa credo non abbia messo mai piede e suppongo non sappia nemmeno dipingere. Il Rubens di cui parlo è l'anti-Rubens per eccellenza. Nulla del fascino barocco a meno che non vogliamo definire barocco un chiodo che si ostina a portare da quando, credo, ha raggiunto il traguardo della maggiore età (la maggiore età per l'appunto si percepisce solo dall'elegante pennellata di barba e non sicuramente dalla statura, men che meno fiamminga). Più gotica direi, la sua immagine, o meglio cotica: abbastanza irsuto da far invidia a un orango, nascondeva nel folto dei peli la cotenna dell'intellettuale di razza, malinconicamente romantico, di quelli che mi sento felice solo quando piove, farcita però fortunatamente con la sapida ironia dei rabbini. Un Rimbaud ebreo o meglio un Woody Allen bohémien. Così lo dipingevamo noi nei nostri discorsi. A tinte forti, sfumando qua e là prima che lui arrivasse, il suo ritratto era già pronto. Quando la sua tozza figura si disegnava dal punto di fuga dell'imbocco di Piazza Castello, incorniciata dai portici di Via Po avevamo giusto il tempo di raffazzonare una critica benevola dell'opera. Ed appariva in carne ed ossa davanti ai nostri occhi come una modella pelata e barbuta per nostra buona sorte anche vestita (della Scuola del Nudo parleremo più avanti) della sua inseparabile giacca metal. E noi salutavamo lo sguardo intelligente, il cuore, l'allegria misurata dei gesti di una variopinta anima bella, fra le tante che conoscemmo da Nino.
Una variopinta anima nullafacente. Argomento delle nostre discussioni di comari accanite era proprio: "come fa a vivere Rubens?". Laureato in Lettere Medievali, poeta dilettante, cultore della terzina dantesca, ex giocatore di calcio dilettantistico, le sue competenze si esaurivano più o meno lì. La voglia di lavorare rimaneva una delle tante voglie, ben attenta a non presagire il parto di alcun impiego.
Insomma erano ben rare le occasioni in cui potevamo improvvisarci scafati ritrattisti perché Rubens era sempre da Nino. Seduto al tavolino di Nino prima ancora che lui arrivasse ad aprire la bancarella, sorseggiando un caffè guardava le macchine passare tra un pedone e l'altro, tra una colonna e l'altra. Seduto allo stesso tavolino era quando noi entravamo all'università. Quando ne uscivamo e ci sedevamo anche noi era ancora lì. La sera lo ritrovavamo lì fino a che Nino non chiudeva la bancarella. Immaginavamo che chissà, avremmo potuto trovarlo lì anche a notte fonda, come un totem urbano, imperturbabile al freddo, al caldo, nella sacra postura del dio (come ogni buon dio che si rispetti) nullafacente (a onor del vero anche noi passavamo tantissimo tempo da Nino, evidentemente, forse più di Rubens, ma ora è il suo turno e dunque non seccateci con obiezioni cronachistiche!).
Rubens sostava dunque da Nino, cercando nuovi e vecchi libri, parlando con noi di cinema d'essai (si andava dai fratelli Marx a Buňel e anche oltre), disquisendo di letteratura tout court, sentenziando di politica e... tecnicizzando di calcio: filosofeggiava sulla fede granata che, chi più chi meno, tutti condividevamo e che professata come la vera religione agli infedeli con tanto di dottrina alla mano, con speculazioni teologiche degne di Tommaso d'Aquino indietreggiava, demone cornuto, solamente innanzi alla cosmica episteme della Giuvents di Nino.
Variopinta anima nullafacente, Rubens come le tante che affollavano la Galleria dell'Usato, la Pinacoteca della Cultura e della Carta Stampata, il Museo dell'Emarginazione Cercata e Consapevole, se ne stava appeso alle pareti esterne dei muri di Via Po, accartocciato sulle sedie di acciaio lucido, davanti alla bancarella verde. I visitatori passando non avrebbero probabilmente fatto caso alla didascalia con il titolo e la spiegazione di questa natura viva, occhialuta, timidamente scaltra. L'unico che forse si sarebbe fermato a contemplarlo, attraversando caparbio più di un secolo sarebbe stato Carlo Lorenzini, inveendo contro il vostro povero narratore, che quella era una sua creazione, che era uno dei suoi tanti figli fiabeschi e scapestrati. Meglio rimandarlo nella sua ottocentesca Firenze che mostrargli anche il compare del gatto sornione, miope ed arruffato: una fulva, furba e farabutta volpe. Potrebbe morire di crepacuore.