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La sigaretta mi cade dalle mani e la osservo mentre finisce a terra. Cenere sul mio passato. Cenere e fuoco su sogni perduti. Un istante, il tempo che serve al mio corpo per cadere al suolo. Uno schianto improvviso. Un colpo di pistola illumina la notte. E' come un flash d'una macchina fotografica impazzita nella penombra della stanza dove ho sempre lavorato. Qui sino a ieri c'erano bambini e bambine davanti alla macchina da presa. Adesso c'è soltanto un corpo che si accascia a terra. Non sono morto, mi dico. Quel che conta è che non sono ancora morto.
Quando è iniziata questa maledetta storia? Quando?
Il dolore al petto è terribile. Vedo il sangue che esce dalla ferita. E ricordo. Purtroppo ricordo. La sigaretta che cade e rivedo la mia vita in un rapido flash back della memoria.
Ho sempre avuto la passione del cinema, sin da ragazzo. Pellicole di tutti generi. Vecchi film americani con Humphrey Bogart e Marilyn Monroe, western, horror, azione. Tutto quello che è cinema mi ha sempre affascinato. Da piccolo non passavo domenica senza vedere un film, dove capitava, alla sala della parrocchia, al cinema del quartiere, persino al circolo aziendale di mio padre. Bastava che fosse cinema.
I miei amici giocavano a calcio e sognavano di emulare Mazzola e Rivera. Io no. Io guardavo Stan Laurel e Oliver Hardy, Charlie Chaplin e Ridolini. I miei miti erano quelli.
Da grande avrei fatto il regista. L'attore no, perché sapevo che non era cosa per me. Non avevo il fisico. Non sono mai stato una bellezza. Piccolo, spalle strette, un po' grassottello. Chi mi avrebbe scritturato come attore? Gli attori devono avere fascino, portamento. E poi a me piaceva inventare le storie, studiare le scene, pensare avventure. Ai tempi della scuola ero il critico cinematografico del giornale di istituto, facevo recensioni, davo giudizi, consigliavo pellicole. All'università ho frequentato corsi di sceneggiatura e scuole di cinema che mi hanno fatto conoscere registi famosi. Dopo laureato ho lavorato con loro, dietro le quinte, senza mai comparire. Un lavoro onesto, scrupoloso, metodico. I colleghi dicono che non ho inventiva, che sono troppo razionale. Non vado bene come regista. Sono soltanto un ottimo secondo, un buon aiutante di scena. Però un film tutto mio non me lo affiderebbe nessuno. Non è quello che avrei voluto dalla vita, un tempo sognavo di diventare famoso e studiavo tutte le pellicole dei miei registi preferiti. Leggevo le trame di Stanley Kubrick e Hitchcock nella collana dei "Castori". Riguardavo più volte i primi film di Nanni Moretti. Era bravo, però non mi entusiasmava. Preferivo i film di azione.
Mi consolavo dicendo che tutto sommato ero nel mondo del cinema e facevo un lavoro che amavo. Non ero un protagonista, va bene. Ma nella vita solo pochi ottengono una parte da protagonista. E' un po' come nel cinema, in fondo. Tante comparse, buoni gregari, portatori d'acqua per il successo altrui. Sempre meglio che lavorare in banca, in ogni caso. E poi nel tempo libero mi divertivo a montare dei film. Possedevo una macchina da presa e in casa avevo messo su una piccola sala montaggio. Là realizzavo le mie storie, quelle che sognavo di rivendere a qualcuno, un giorno o l'altro. Quelle che probabilmente sarebbero morte insieme a me senza aver mai avuto spettatori. Com'è triste una pellicola senza pubblico, pensavo. Come un libro senza lettori, come un cielo senza stelle. Immagini fissate da un obiettivo, montate con pazienza si perdono in un rotolo di nastro nero che si avvolge su se stesso.
"Antonio Cadelo è un mediocre". "Bravo soltanto a montare il lavoro degli altri". "Non gli affiderei un film neppure se fosse per una televisione privata". Lo sapevo che i colleghi dicevano questo di me. Lo sapevo e ne soffrivo. Avrei voluto dimostrare che ero capace di dirigere una storia mia, ma nessuno mi dava un'occasione. E' stato così che ho accettato quella proposta. E' stato allora che ho iniziato a sbagliare.
"Possiamo darti una grande opportunità" mi disse un giorno un tizio vestito di nero dopo le riprese di un film a Cinecittà. Io lo guardai interrogativo. Il suo aspetto non mi piaceva, aveva gli occhi piccoli e scuri, baffi cadenti su labbra socchiuse a mordere una sigaretta.
"Che tipo di opportunità?" chiesi.
"Non ti piacerebbe girare un tuo film?".
"E' il mio sogno".
"Il capo può realizzare questo sogno. In cambio ti chiede soltanto qualche piccolo favore".
"Che tipo di favori?" chiesi.
"Cose da niente per uno come te".
Erano le cose da niente che non avrei mai dovuto accettare.
Sono sempre stato un mediocre, è vero.
Un mediocre che non ha mai avuto un'occasione per emergere, che forse non se l'è mai cercata, che magari neppure l'ha meritata. Un mediocre onesto, però.
Il tizio vestito di nero venne ancora a trovarmi mentre giravo pellicole insieme ad altri registi. Continuò a tentarmi come un serpente maligno, girando il coltello nella ferita delle mie ambizioni frustrate. Fino a quando non capitolai. Una sera che ero più abbattuto di sempre. Pensavo che non avrei fatto nient'altro in vita mia oltre a correggere montaggi sbagliati e tagliare scene di troppo. Accettai quello che mi proponeva.
"Il capo sarà riconoscente, vedrai" disse.
Il mio compito era di fornire materiale a scadenze fisse. Girare brevi pellicole. Prodotti che loro avrebbero rivenduto a peso d'oro. E non erano opere d'arte. Proprio no.
Si trattava di turpi filmati con dei bambini (...) Roba per un mercato di pedofili, che quello che chiamavano il capo gestiva per mezzo di un sito segreto via internet.
Fu subito dopo che mi chiamarono a girare qualche film per una televisione romana. Niente di eccezionale, un serial televisivo, qualche puntata di una fiction che però fece subito un buon successo di audience. Il mio nome iniziò a circolare.
I colleghi fecero presto a cambiare opinione.
"Lo vedi Antonio Cadelo? Non era poi così male". "Io lo sapevo. Uno come lui doveva essere capace di fare qualcosa di suo". "Lo avevo sempre detto. Cadelo ci sa fare". Dicevano.
Era bastata un'occasione. Un'occasione da poco, in fondo. Qualche telefilm per una televisione privata. Solo che in cambio dovevo fare cose ripugnanti. Cose che nessuno sapeva.
E' andata avanti per molto questa storia.
Loro a pretendere sempre di più e io a dare.
(...) L'occhio spietato della macchina da presa catturava scene raccapriccianti. Non sapevo da dove venissero quei bambini. Me li portavano là per poche ore, spesso legati, altre volte drogati, quasi sempre spaventati. Non sapevano cosa sarebbe accaduto in quella stanza. Mani di uomini incappucciati toglievano i vestiti e davano il via all'azione.
Sono stati i ciack più terribili della mia vita.
Una sera sentii un bambino sussurrare a un compagno: "Se stiamo buoni ci rimandano presto all'istituto". E l'altro ancora più piano: "Mi ha detto padre Franco che non dobbiamo dire niente a nessuno, qualunque cosa accada". "Lo so. Ci daranno un premio per questo" concluse il primo.
Venivano da istituti, orfanatrofi, parrocchie.
Venivano dai posti più impensati.
E io vedevo le loro lacrime, filmavo le paure e il terrore, davo vita ai sogni oscuri delle favole più turpi.
Non avevo figli. Non ero sposato. Solo qualche storia ogni tanto, roba senza importanza. Non ero uomo da famiglia e da legami. Stavo poco in casa, lavoravo molto. E poi avevo solo trent'anni. Cercavo altro dalla vita in quel momento. Cercavo il successo. Quei farabutti mi avevano solleticato proprio nel punto giusto, avevano capito qual era la debolezza che mi avrebbe spinto a fare qualsiasi cosa. Non sapevo cosa volesse dire avere un figlio, però quei bambini avevano un'espressione così innocente che mi toccava il cuore. Sembrava che andassero incontro a un gioco e spesso non comprendevano cosa succedeva. Quando capivano cosa dovevano fare era tardi. Io filmavo e udivo le loro grida angosciate. Il ricordo di pianti strozzati tormentava le mie notti. Mi portavo dentro voci impaurite che dicevano: non voglio, pietà, mi fai male…
Quando passò la prima sbornia di successo cominciai a pensare. Ero in mezzo a una banda di farabutti, mi dicevo. Ero colpevole come chi mandava degli innocenti a soffrire per far godere dei porci. Non era questo che volevo. Certo che no.
Ma ormai era tardi per tirarsi indietro. Ero legato mani e piedi e il capo mi trattava come un burattino.
"Troppo facile, bello" mi mandò a dire dal solito scagnozzo vestito di nero "noi ti abbiamo dato il successo e tu ora devi stare al gioco".
"Mi faccio schifo. Non voglio più fare queste cose".
"Se ci molli sarà la tua carogna a fare schifo" e indicò la pistola con un gesto eloquente.
Non ne potevo più. Non mi interessava per niente quella stupida telenovela che dovevo girare per un canale nazionale. Non mi interessava la stampa, la televisione, la stima dei colleghi. Vedevo soltanto occhi di bambini che chiedevano aiuto. Sentivo grida disperate. Il rimorso non mi faceva dormire. E' stato così che sono andato alla polizia e ho confessato. Il commissario mi ha ascoltato e ha voluto sapere tutti i particolari della faccenda.
"Tu sai chi è il capo?" mi ha chiesto.
"Non l'ho mai visto" ho risposto.
Ed era vero. Avevo contatti soltanto con quel tizio vestito di nero. Lui però l'ho descritto con precisione e il commissario ha capito subito di chi stavo parlando. Un pregiudicato, una vecchia conoscenza della Squadra Omicidi.
"Te la senti di darci una mano?" mi chiese.
Io non sono mai stato un eroe. Ho visto e realizzato tanti film d'azione, gialli, storie del brivido. Ma viverne una da protagonista non è che fosse quello che più desideravo.
"Pensaci. Per la legge sei loro complice. Non hai nessuna attenuante".
Come dire che non potevo dire di no.
E' stato così che sono diventato un'esca.
La sera che la polizia fece la retata c'era quasi tutta la banda nel mio studio e stavo girando un film con bambini e vecchi pedofili. Dopo di loro sono risaliti ad altri e arrestarono un bel gruppo di vecchi maiali. I giornali parlarono a lungo della storia, la televisione mise in onda persino spezzoni di cose girate da me in questa casa. Il commissario è stato di parola e mi ha lasciato fuori, non ha mai fatto il mio nome. Ha detto che mi avrebbe protetto, che nessuno mi avrebbe fatto del male. Ha detto che una squadra di agenti avrebbe sorvegliato la mia casa giorno e notte. Ha detto un sacco di cazzate, quel fottuto piedipiatti. Un sacco di cazzate. Altrimenti non sarei qui con la faccia per terra a mangiare la polvere della stanza e a stringere una ferita che mi fa star male. La sigaretta caduta si è consumata. Adesso siamo faccia a faccia, io e lei. Vedo le tracce di fumo perdersi nell'aria mentre svaniscono gli ultimi ricordi. Il colpo che ha perforato l'addome è partito da fuori e ha frantumato il vetro della finestra. Adesso odo rumore di passi per le scale, sono dei passi veloci. Qualcuno sta percuotendo con violenza la porta di casa e la fa cadere. E adesso cosa mi aspetta? Attendo il colpo finale, quello che mi manderà all'altro mondo, spero che facciano in fretta perché non sopporto il dolore.
"Antonio Cadelo, sta bene?" mi chiede una voce conosciuta.
"Non troppo" sussurro. E alzo gli occhi da terra.
Vedo il commissario e alcuni uomini intorno. Poliziotti in borghese, credo.
"Commissario, sono proprio contenta di vederla" dico.
"Lo abbiamo preso, Cadelo. Adesso non ha più niente da temere".
Mi sento sollevare da diverse mani. Mi portano via.
Mi aiutano a scendere le scale, uno di loro mi sorregge, un altro ha tamponato la ferita con delle bende. Davanti al portone c'è un'auto scura di grossa cilindrata che ci attende. Una Volvo, mi pare. Non è facile distinguere le cose con questa oscurità. Non è facile con il dolore che ho in corpo. Ma per fortuna tutto è finito. Per fortuna.
"Portatelo via" dice il commissario ai suoi uomini.
"Sì, capo" risponde l'autista.
Poi si rivolge a me e sorride. Ma non è il sorriso di sempre. Non è il sorriso che gli ho visto in Centrale.
"Addio Cadelo" mi dice "mi è stato molto utile".
Non ho neppure la forza di rispondere.
L'auto romba via veloce nella notte e l'ultima cosa che vedo è la flebile luce di una sigaretta che si spenge in lontananza tra le labbra del commissario.
©
Gordiano Lupi
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