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Il mio padre naturale non l'ho mai conosciuto, e adesso che me lo trovo qui davanti agli occhi, non provo emozioni particolari. Anche perché quello che ho di fronte è tutto ciò che resta di lui, le sue ossa. Le ossa dell'uomo che mi ha trasmesso i propri tratti fisici e forse anche caratteriali, ma che non ha mai potuto tenermi sollevato tra le mani, come io tengo adesso tra le mie il suo teschio anonimo e muto. Il teschio di un uomo morto a venticinque anni. Mi fa strano; mio padre è più giovane di me che ne ho trentacinque. Come un archeologo che con gesti delicati e movimenti misurati scava in un'antica necropoli, e cerca di capire come fossero stati quegli uomini da vivi, anch'io raccolgo dalla buca che ho scavato i resti mortali del mio sconosciuto genitore, e spero che quelle ossa possano raccontarmi qualcosa di lui e della sua breve vita. Spero in una Foscoliana e improbabile comunicazione di amorosi sensi, che mi faccia riconoscere in quei resti la persona che mi ha donato la vita. E invece niente, nessuna emozione mi trasmettono queste ossa ben ripulite dal lavoro di milioni di piccole e microscopiche creature, che hanno mangiato, dissolto, trasformato e riportato alla terra, il sangue e la carne dell'uomo che mi generò, ma a cui un destino bastardo e infame non concesse di essere mio padre. Con un pennello ripulisco il teschio dai residui di terra ancora attaccati qua e là, sotto gli zigomi, dentro le orbite vuote, all'attaccatura della mascella. Terra scura, grassa; terra nera di cimitero. Guardo queste ossa, e come se fosse ieri mi torna in mente il mio primo giorno di scuola. Era il 2 di ottobre del 1949, quando imparai due cose che marcarono la mia vita per sempre. La prima cosa me la disse la maestra, e fu che oltre al nome, Antonio, avevo anche un cognome, Terzi. La seconda cosa, direttamente conseguente alla prima, me la rivelò la mia mamma nel pomeriggio, quando le chiesi perché non avevo lo stesso cognome del babbo, che si chiamava Achille di nome e Damiani di cognome. Mentre il fatto del cognome diverso non mi sembrò poi così strano, scoprire a sette anni di non essere il figlio di mio padre fu una notizia importante. Che lasciò il segno. Anche perché da quel giorno i miei genitori decisero che mio padre avrei dovuto chiamarlo zio. Zio Achille. E così fu. Nel piccolo mondo di paese dove scorrazzavo con i miei amici, ai cognomi non si dava molto conto. Le persone, alla Falera e alle Balze, avevano nomi e spesso soprannomi, ma i cognomi sembravano non servire. Non servivano neanche al postino, detto Caporale, perché il paese era talmente piccolo che non aveva bisogno né dei nomi delle vie né dei numeri sulle case, inesistenti anch’essi, per sapere a chi consegnare la poca posta che circolava allora. Ricordo che a quei tempi ormai lontani, tra i grandi, gli adulti, c’erano personaggi come Beppe detto Il Papa, Memmo detto Batàni, Ezio detto Nodo, Armando detto Rossino, Delfo detto Pelorosso, e tanti altri, di cui noi ragazzi non conoscevamo i cognomi. Poi c’erano Caruso, il Sardo, Budasse, Budassino, Tiretta e Tirettino, Cannone, Borcianera, Mazzabricchi, Brighella, Piàcca, Pippo, Breccione, Piscione, Gambagialla, e tanti altri conosciuti solo per soprannome, perché di loro neanche sapevamo quale fosse il nome di battesimo. Tra i ragazzini della mia età ci si chiamava solo per nome, perché i nostri cognomi semplicemente non li sapevamo. Nei pochi casi di omonimia, al nome di battesimo si aggiungeva, come segno distintivo, il nome di uno dei genitori, oppure quello del posto dove viveva l’omonimo. Allora c’erano Franco della Filomena e Franco della Tonina, Franco delle Batticce, e Franco della Teresa, poi Cesare di Vignola e Cesare del Còtolo, Mauro di Seregiacoli e Mauro di Colorìo. Insomma, i cognomi, specialmente per noi ragazzini, erano sconosciuti. Era come se la nostra piccola comunità isolata tra le montagne dell’Appennino tosco-romagnolo, tra il monte Fumaiolo e l’Alpe della Luna, si trovasse nel proprio medioevo, cioè in quella fase storica in cui le società iniziarono a dotarsi di un sistema anagrafico anche per la povera gente, e furono così creati i cognomi per distinguere le diverse famiglie, basandosi sulla paternità e sui luoghi di provenienza. Sistemo le ossa di mio padre dentro la cassettina che mi sono fatto costruire e, con un sorriso leggero sulle labbra, rievoco quel passato così vicino in termini di tempo e sensazioni, ma anche così lontano, se penso a com'è cambiata la vita alle Balze negli anni trascorsi da quel mio primo giorno di scuola. Una dopo l'altra, le appoggio delicatamente, iniziando da quelle che credo siano le ossa dei piedi, cercando così di rispettare un ordine verticale, a partire dal basso; le falangi dei piedi, i tarsi, i peroni e le ulne, le due rotule, e via via tutte le altre ossa, che raccolgo dallo scheletro quasi completo che con pazienza ho ricomposto sull'erba di fianco alla buca. Poi però quelle ossa qualcosa mi dicono. Riprendo in mano i peroni e le ulne della gamba destra; sono spezzati nettamente a metà della loro lunghezza. Fu anche questa frattura a causare la morte di mio padre. Di per sé, la frattura non sarebbe stata neanche un grosso problema per un uomo giovane, ma la situazione particolare in cui si ruppe la gamba trasformò un evento piuttosto banale in una tragedia; per lui, che perse la vita, e per la mia mamma, che rimase vedova a ventidue anni con un figlio da crescere. Io, che quando morì mio padre avevo poco più di un anno, e per questo ero ancora al riparo da quel genere di dolore. Ma procediamo con ordine, perché adesso la storia dei miei tre genitori la conosco, e ve la voglio raccontare, così come mi è stata raccontata, e come queste ossa rotte adesso mi confermano. Nel dicembre del 1941, in attesa di partire per la Russia con gli altri soldati italiani a combattere contro la determinazione dell’armata rossa, e a farsi decimare dal gelido abbraccio delle steppe, il mio genitore naturale, l’alpino Terzi Eugenio, ventitré anni, di cui l'ultimo passato a menare muli carichi di armi e munizioni su e giù per le valli del Trentino, sfruttando in pieno la licenza di sette giorni più viaggio, riuscì a fare quello che non gli era riuscito in diversi mesi di matrimonio; mise incinta la moglie Angela, di tre anni più giovane di lui. I miei genitori si erano sposati all’inizio della guerra, nell'estate del 1940, quando, secondo quel genio di Mussolini, l’Italia doveva sbrigarsi ad affiancare i nazisti prima dell’imminente fine del conflitto, altrimenti avrebbe perso l’occasione di dimostrare il proprio valore di alleato e non avrebbe partecipato alla spartizione del bottino. Adesso sappiamo tutti come andò a finire e quale bottino di miseria e lutti ci toccò di spartire. Eugenio partì dunque per la Russia nella primavera del 1942, e riuscì a rimanere vivo per un anno e mezzo. Dopo l’8 settembre del 1943, quando gli amici di ieri divennero i nemici di oggi, Eugenio fece quello che fecero molti altri come lui; scappò quando capì che tutto era perduto e cercò di ritornare a casa con ogni mezzo possibile, e con un solo pensiero a guidarlo verso ovest e poi verso sud; tornare dalla sua Angela e abbracciare finalmente il suo bambino, che doveva avere circa un anno. Eugenio si muoveva con altri tre sbandati come lui, un marchigiano e due abruzzesi; in pochi si dava meno nell’occhio ed era più facile trovare ospitalità nelle fattorie che incontravano sul loro cammino. Perché se era vero che i tedeschi erano i nuovi nemici da cui fuggire e nascondersi, i fuggiaschi italiani si accorsero anche che i russi erano diventati i nuovi amici. I contadini russi, ucraini e a mano a mano che avanzavano, anche quelli degli altri paesi che attraversarono, si dimostrarono sempre ben disposti nei confronti di quei quattro sbandati; miserabili tra i miserabili. Con dialoghi muti fatti di sorrisi e pochi gesti pacati, perché il linguaggio della disperazione non necessita di parole e non passa dalle orecchie, ma attraverso gli occhi, li accoglievano nelle loro case e dividevano con loro il poco cibo che avevano e l’acquavite distillata dagli scarti di frutta e ortaggi. In cambio di quella povera ma provvidenziale ospitalità, i fuggiaschi davano una mano nei lavori dei campi o con il bestiame, e qualche volta improvvisavano serate danzanti nei polverosi fienili o nelle stalle, rimasti vuoti perché i raccolti erano stati bruciati e il bestiame se lo era preso la guerra. In quei momenti di allegria etilica e risate sdentate, ballavano danze improbabili con rubiconde contadine di tutte le età, al suono di violini scordati e organetti sfiatati. Per poche ore riuscivano a dimenticare le brutture di quella stupida e crudele guerra. Una guerra che nessuno di loro, da una parte e dall'altra, aveva voluto. Durante i tre mesi di quel viaggio tortuoso che li portò ad attraversare a piedi mezza Europa, capirono quanto inutile e dannosa fosse la guerra. In quei giorni di confusione e incertezza solo una cosa apparve gli chiara; che quel conflitto era proprio una gran porcata. Videro villaggi ridotti ad ammassi di pietre e cenere, città distrutte dai bombardamenti, strade diventate impraticabili per i mezzi di trasporto, mucchi di cadaveri che venivano bruciati, ponti crollati sotto le bombe dei nazisti, o fatti saltare in aria dai sovietici per rallentare l’avanzata del nemico. Ma la cosa che più li colpì fu l’umanità di quella gente che li aiutò sempre, senza esitazioni. Russi, ucraini, ungheresi, che solo poche settimane prima non avrebbero esitato a sparargli addosso al solo vederli, dopo i primi attimi di incertezza li abbracciavano e li accoglievano nelle loro case con calore. Forse perché vedevano in quello sparuto gruppo di sciagurati mal vestiti e malnutriti, qualcuno ancora più miserabile di loro. Insomma, dopo tre mesi di marcia, quasi tutta a piedi, la mattina del 31 dicembre arrivarono a Rimini, e lì Eugenio si separò dai suoi compagni di viaggio con grandi abbracci, pacche sulle spalle ossute e anche qualche lacrima di commozione. I tre commilitoni, essendo uno di Ascoli e gli altri abruzzesi, si diressero verso la stazione ferroviaria, sperando in qualche convoglio diretto al sud. Eugenio si avviò verso l’interno, imboccando la camionabile che da Rimini portava ad Arezzo, speranzoso di riuscire a coprire quella settantina di chilometri che lo separava da casa sua entro la giornata, magari sfruttando uno dei rari veicoli di passaggio. Fu fortunato; giunto nei pressi di Corpolò, vide sopraggiungere un vecchio autocarro che al suo sbracciare in mezzo alla strada si fermò. Ma il destino aveva previsto una sorpresa per Eugenio. Sul cassone del camion c’era Achille, un suo vecchio amico delle Balze, anche lui sbandato e di ritorno dal fronte. I due si riconobbero all’istante, malgrado il loro aspetto fisico fosse molto diverso dall’ultima volta che si erano visti prima della guerra. Si abbracciarono vigorosamente in piedi sul tavolato di legno del cassone dell’automezzo prima ancora di proferire parola. Poi, quando l’autista ingranò la marcia e il camion sobbalzò, i due amici ritrovati si sedettero sopra un sacco di juta piegato in due e appoggiarono la schiena alla cabina. Per meglio proteggersi dal freddo pungente, si misero spalla a spalla e si coprirono con il grosso pastrano grigioverde di Eugenio. I due si conoscevano da sempre ed erano stati buoni amici, da ragazzi avevano passato insieme interi pomeriggi a cercare nidi di quaglia nei campi appena falciati o a piazzare trappole per le lepri. Erano anche andati a donne insieme, fino a quando, qualche anno prima, si erano disputati abbastanza apertamente i favori di Angela. Fino a quando la mia futura mamma mise fine alla disputa e scelse di fidanzarsi con Eugenio, il mio futuro babbo. Achille all’inizio non la prese bene, poi col tempo se ne fece una ragione, si trovò un’altra ragazza e rinsaldò la sua amicizia col vecchio compagno di sempre. Sopra quel camion, che a fatica procedeva lungo la camionabile che corteggiava i fianchi scoscesi del’Appennino seguendo il corso del fiume Marecchia, i due ex soldati si raccontarono le loro rispettive esperienze di guerra. La compagnia di Achille era stata inviata sul fronte greco, ma dopo qualche scaramuccia con gli inglesi, Achille era stato fatto prigioniero e spedito in un campo di prigionia in un’isoletta vicina alla costa occidentale della Grecia. Dopo l’armistizio gli inglesi avevano liberato tutti quegli italiani che avevano abiurato il fascismo e li avevano lasciati partire. Achille confessò a Eugenio che piuttosto di rimanere prigioniero un giorno in più, lui avrebbe abiurato anche Gesù Cristo e la Madonna, non solo il fascismo e quel bischero di Mussolini. Si fecero finalmente qualche bella risata, e per un paio d’ore parlarono di diverse cose, ma soprattutto di quello che avrebbero fatto adesso che la guerra era finita. Quando Eugenio disse che non vedeva l’ora di vedere per la prima volta suo figlio, che se non si sbagliava, doveva avere poco più di un anno, Achille si rabbuiò per un attimo, e poi confessò all’amico che anche a lui sarebbe piaciuto avere dei figli, ma che prima avrebbe dovuto trovarsi una moglie. Poi spiegò che durante la prigionia aveva saputo che la sua ragazza di un tempo era partita con i suoi per la Maremma, dove al babbo era stato assegnato uno dei poderi della bonifica. Ma lui, Achille, di lasciare le Balze per andare a vivere in Maremma non ci pensava neanche da lontano. Di Angela non parlarono, forse per una sorta di pudore da parte di Eugenio, che non voleva rischiare di riaprire qualche vecchia ferita nel compagno. E non si sbagliava. Infatti Achille non chiese niente di Angela perché, nonostante fosse passato tanto tempo e fossero successe tante cose, tra le quali una guerra, ogni volta che pensava ad Angela sentiva una specie di morso dentro lo stomaco. Quindi anche lui, per non riaprire la ferita mai cicatrizzata del tutto, non nominò mai la moglie del suo amico. Mano a mano che risalivano la vallata la temperatura scendeva e il cielo grigio e minaccioso si abbassava a coprire le cime delle montagne a nord. Quando superarono Badia Tedalda iniziò a nevicare, e quando il camionista li lasciò alla Svolta del podere, la nevicata si era trasformata in tempesta. I due ringraziarono il loro benefattore, che continuò il suo viaggio verso il passo di Viamaggio e Sansepolcro, e imboccarono a passo relativamente spedito la mulattiera per le Balze, che era già ricoperta da uno strato di neve vergine alto una ventina di centimetri. Poco dopo si resero conto che la situazione stava peggiorando di minuto in minuto, così decisero che sarebbero arrivati fino a Pratieghi, a soli cinque chilometri dalle Balze, e avrebbero pernottato lì per poi concludere il viaggio il giorno successivo. Adesso il vento soffiava da nord, in senso contrario alla marcia, e i fiocchi di neve trasformati dal freddo in aumento in duri proiettili di ghiaccio, bersagliavano i loro visi rendendo difficoltosa la respirazione e quasi impossibile tenere gli occhi aperti. In certi punti il vento e la neve, uniti nel rendere la vita difficile ai due fuggiaschi, avevano formato refani alti fino alla cintura, cioè vere e proprie dune di neve simili a quelle che il vento in combutta con la sabbia forma e modella nei deserti. A volte riuscivano ad aggirarli, i refani, ma nei tratti dove la mulattiera era protetta da alti muri a secco o da siepi di rovi, non potendo uscire dal sentiero erano costretti a sfangare le dune con enorme fatica e perdita di tempo. Nella neve alta le gambe si facevano pesanti come tronchi appena tagliati, e i vestiti bagnati che si ghiacciavano addosso rendevano lo sforzo sovrumano. Ma il viaggio sul camion aveva fatto loro risparmiare energie, e la determinazione era tanta, così come la voglia di ritornare a casa. Eugenio e Achille, uno dietro all'altro, continuarono a camminare a testa bassa, senza parlare per risparmiare fiato, e dandosi il cambio davanti ogni volta che il più stanco dei due cedeva. Arrivati a Pratieghi si diressero verso l’unica locanda del paese, dove Oscar, il proprietario, e la moglie li accolsero richiudendo alla svelta la porta dietro di loro per non fare entrare il freddo. Messi i vestiti irrigiditi dal gelo ad asciugare su alcune sedie disposte intorno al grande camino della locanda, i due uomini, in mutandoni e maglia di lana, assorbirono fino alle ossa il calore del fuoco di legna, girando su se stessi di continuo, come infilati su uno spiedo verticale, per non cuocersi solo da una parte. Poi si rifocillarono a pane, formaggio pecorino e vino rosso offerti da Oscar, che dati i tempi di magra e la visita a sorpresa, non poteva certo proporre niente di meglio. In cambio di quella frugale ma generosa accoglienza, che Eugenio e Achille onorarono come si trattasse del miglior pasto della loro vita, Oscar chiese ai due balzerani il resoconto delle loro peripezie. Il locandiere e la moglie ascoltarono con attenzione e interesse il racconto dei due sbandati, accompagnando la narrazione con ampie oscillazioni del capo e monosillabi di incredulità, sorpresa, disgusto, orrore, apprezzamento, a seconda dell’occasione. La conversazione si protrasse fino a metà pomeriggio, e siccome parlare accanto al fuoco secca la gola, e il formaggio di pecora chiama il vino rosso come le campane della chiesa i fedeli, Eugenio e Achille, incoraggiati e aiutati da un sollecito Oscar, si scolarono un paio di fiaschi di Chianti. Nel frattempo la tempesta aveva accennato a calmarsi, e visto che c’erano ancora un paio d’ore di giorno da sfruttare, i due amici dimenticarono il saggio proposito di pernottare a Pratieghi e decisero di continuare la loro marcia, ché in fondo si trattava solo di pochi chilometri, e cos’erano pochi chilometri in confronto a quelli che avevano percorso fino ad allora? Oscar cercò di dissuaderli ricordandogli che la distanza relativamente breve includeva l’attraversamento della famigerata Serra, il crinale che divideva la vallata del Marecchia da quella del Tevere, una zona particolarmente esposta ai venti. Un tratto di strada che tutti i viaggiatori evitavano come la peste quando c’era in corso una tempesta di neve. Ma i due amici, ricaricati in energia dal formaggio e dal calore del fuoco, e resi spavaldi dal vino, rifiutarono ogni consiglio, ringraziarono calorosamente la coppia di locandieri e si rimisero in cammino. Gli ultimi cinque chilometri li avrebbero percorsi anche scalzi per rivedere i loro familiari la sera stessa. La marcia proseguì dunque a passo relativamente spedito per il primo tratto, ma appena giunsero all’altezza del bivio per Colorìo, a metà strada circa dalla meta, il vento aumentò d’intensità, e col vento aumentò anche la quantità di neve da esso trasportata. Ma i due non si persero d’animo e continuarono a sfangare la neve che sembrava crescere a ogni passo. Nonostante la consapevolezza di avere sovrastimato le loro forze in un momento di esaltazione, si resero conto che oramai tornare indietro sarebbe stato più difficile che proseguire. E quindi proseguirono, muti e a testa bassa, verso la tragedia ineluttabile. Un movimento scomposto e il piede destro di Eugenio sprofondò nella buca scavata da qualche animale, perse l'equilibrio e cadde faccia in avanti. La stanchezza e l'estrema debolezza non gli permisero di controllare adeguatamente la caduta. Il peso del corpo gravò sulla gamba che fece leva contro il bordo ghiacciato della buca e si spezzò. Gridò per la sorpresa, ma non per il dolore, che non sentì, perché aveva le gambe intirizzite e rese insensibili dal freddo. Achille, che in quel momento era davanti a lui solo di pochi passi, non vide né sentì niente. L'urlo del vento della Serra copriva ogni altro rumore e il freddo era l'unica cosa che sentiva e che gli faceva capire di essere ancora vivo. La testa gli ronzava come se al suo interno si fosse rifugiato uno sciame d'api, e non riusciva più a pensare in maniera coerente. Non sentiva più le mani, i piedi non gli rimandavano la sensazione del contatto con gli scarponi e con il suolo, gli sembrava che il cuore battesse fortissimo, ma non lo sentiva veramente, era solo una sensazione. Achille avanzava lentamente, un breve passo dopo l'altro, con gli occhi quasi chiusi, il corpo spinto in avanti a contrastare il vento contrario, fortissimo e costante. Il viso, semicongelato in una smorfia di sofferenza, subiva passivamente l'impatto gelido della neve senza più sentirlo. Eugenio provò a rialzarsi, ma la gamba rotta cedette e lui cadde nella neve. Alzò la testa e vide l'amico allontanarsi lentamente fino a dissolversi nel grigio denso della tempesta. Gridò aiuto, o almeno credette di farlo, ma la mandibola aveva perso la sua capacità di movimento e sembrava saldata alla mascella. Quando nell'ultimo attimo di lucidità capì di essere già morto, pianse lacrime che si ghiacciarono all'istante. Achille invece riuscì a salvarsi perché sbagliò strada. Infatti, la stanchezza lo portò inconsapevolmente a deviare verso il basso, abbandonando la strada sul crinale in favore dei campi che scendevano alla sua destra. Così si ritrovò per sua fortuna nell'aia del podere delle Batticce. Arrancò fino alla casa, si appoggiò alla porta e con le ultime forze ci sbatté il pugno per un paio di volte. Poi cadde esausto sulla soglia quando da dentro aprirono la porta. Appena Achille si riprese quel tanto necessario per fare uscire suoni comprensibili dalla bocca, Domenico, il contadino delle Batticce, riuscì a capire dal suo delirio che là fuori c'era un altro cristiano in difficoltà, e subito mandò i suoi quattro figli alla ricerca di Eugenio. Ma senza indicazioni precise i ragazzi girarono a vuoto, fino a quando non sopraggiunse il buio e dovettero rientrare a malincuore senza averlo trovato. Il corpo congelato di Eugenio fu recuperato il giorno successivo da un gruppo di uomini radunati alle Balze e alla Falera, a trecento metri delle Batticce. Achille non si diede mai pace per quello che successe nella Serra, e si sentì sempre responsabile della morte di Eugenio. Qualche maligno e le pettegole insinuarono che lo avesse abbandonato apposta nella bufera, sperando che andasse come poi andò, visto che in seguito Achille si riavvicinò ad Angela e la sposò, diventando così il mio vero babbo. Angela, la donna di cui era sempre stato innamorato e che, sempre secondo le pettegole, Eugenio gli aveva soffiato. Su come andarono veramente le cose quel giorno é definitivamente scesa l'oscurità alla morte di Achille, il mio babbo zio, che già da qualche anno riposa a pochi metri dalla buca che ospitava le ossa del mio genitore naturale. Comunque sia, chi si ricorda della tempesta di neve del 31 dicembre 1943, sostiene che se in quelle condizioni il mio babbo si fosse fermato a soccorrere l'amico, sarebbero certamente morti in due, quel maledetto pomeriggio. E io non avrei avuto un babbo che dovevo chiamare zio, ma che mi ha amato e cresciuto come se fossi stato suo figlio.
©
Massimo Burioni
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