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Perché non tornava? Erano ore sembrava ormai che fosse fuori e sola, lei, in quel cubo asettico che neanche ermetico riusciva a essere, rattoppato com’era tutto di carta e plastica che si gonfiavano a vele insufflate dal vento e poi si strappavano in slabbri di squarci o scoppiavano a sfiligrana, che a aver voglia mai si poteva smettere di correre e pezzare, e di nastro isolante supposto adesivo, che si scollava però, secco, perso ogni collante ridotto a qualche bolla raggrinzita o sfilaccio grumoso gialli opachi appena visibili sul bianco sporco della tela, che si afflosciava e cadeva stanca dopo una discesa morbida a onde rallentata a quella gravità leggera, non riuscendo a aderire robusto il nerbo di cera solida alle fessure che sfrigolavano ai soffi allora - e rasoiate erano ai timpani i cozzi di lame che ti aggredivano da ogni lato - e tu sobbalzavi ogni volta - senza affilarsi mai così da sfiorarsi appena, gracchiando stridori acuti che aggricciavano la pelle che lanciava i peli dritti via via, lontano da sé nell’aria nel trasudore di gocce di ghiaccio - seghe affilate e rugginose, testarde che insistevano a sfidarsi a dentate di metallo, che ti infilzavano, sciame compatto di spine soffiate da frecce nascoste o lontane e agguerrite - pali di lampi che miravano dritti e precisi il coltello di luce che ti penetrava nel centro - e tu, puntino luminoso trafitto attraversato dalla scossa, elsa sgomenta di una spada incandescente -. Perché piene di fessure erano le pareti male incastrate agli angoli e tutte aperte ormai nelle giunture non saldate o troppo alla grossa o in fretta per reggere ai colpi del vento furioso là fuori - si sentivano, mai in tregua, i suoi massicci mantici soffiare e sbuffare collera e urlare e con che furia all’urto col cubo inevitabile nel corso delle loro eterne ruote a spirale lungo la colonna tra le mura dei quattro sovrapp giunti a quadrato - battevano agli oblò le squame della loro pelle spessa di serpenti, e alle superfici ondulate delle pareti anche - che scorrevano giù fino al fondo più fondo da cui risalivano poi a volte di chiocciola, mentre un altro di vortice iniziava la discesa - scorreria ininterrotta di pirati all’erta e in guardia - che si infilavano da quell’esterno subdolo inchiodando le ginocchia e le braccia tremanti per il freddo e inutilmente strette disperate in un abbraccio che mai avrebbe potuto riscaldare. Persa si sentiva lei, e sola. Quel sovrapp… dove vivevano da poco - ma lì il tempo… - però già ci si era abituata, lei - con la mamma che aveva sperato che infilate in un condom di piani infiniti di cubicoli minuscoli sarebbe stato facile nascondersi, sgusciando via rapide a ogni sguardo, giù chine a angolo retto al passaggio sotto le finestre tonde che chiudevano all’esterno bianco fitto e denso, dove il vento invisibile schiumava - robotico anche lui? perché prendevano vita a tratti cerchi di labbra che sbuffavano un fumo che si espandeva e subito si disperdeva. O era solo vuoto? là tutto intorno… Un’illusione? e il loro approdo un abbozzo di mondo ancora da completare, svariare e colorare dall'intelligenza sconosciuta che le aveva messe in salvo? Perché di un salvataggio si era trattato, a quanto sapeva Lara; ma quello che sapeva lei, la mamma lo smentiva. E la sua confusione si gonfiava... Ora poi che era sola, persa… Perché solo alti altissimi e fitti condoms che sghembavano a destra o a sinistra quasi a caracollo vedeva la bambina, che anche adesso sbirciava a mezz’occhio, ammutolita e attonita, là fuori dall’oblò della sua camera rifugio, dove cucciolata come una gattina, la testa sulle braccia stese e le gambe ripiegate, si riposava o, coccolata da quell’unico piccolo spazio riscaldato dal suo fiato di sei passi per otto, svagava il tempo ritagliando le foto colorate delle riviste lanciate dall’elimissile che compariva blu di lapislazzulo, lampeggiando un istante nel bianco accecante del cielo, alle tre di ogni martedì di ogni settimana; vecchie un po’, le riviste, diceva la mamma - certo - ma piene comunque di volti e di vite lontani e altrimenti come concepibili da Lara? che quasi nulla ricordava del tempo precedente alla sua entrata nel condom; e studiando anche, sui libri elettronici che la navescuola preannunciata dalla campanella-corno depositava gratuitamente sui davanzali degli oblò dei cubicoli in cui vivevano bambini o adolescenti e che materializzava, trasparenti e stemperati, un maestro e una maestra agghindati di tenui rossi e verdi, lui amidato colletto a farfalla, lei trecce fissate sulle tempie a cercine, per le lezioni di geografia astronomica e di chimica, e a cui la bambina parlava mentre danzavano nel vuoto, così ridicoli e molleggiati quei traslucidi ologrammi all’acquerello, che però spennellavano un po' almeno di quel cielo così nudo… fino a quando, svolto il compito, sorridendo si dissolvevano lentamente… e oh quanto dolcemente… nel vuoto. Ma dov’era la mamma? Nel fitto del latte, nulla… nulla… - e ancora cercava nello spazio spoglio oltre l'oblò della sua stanza - intravedeva che somigliasse alla figura nota sfrecciante nell’aeromobile rosso rubino verso l’autoentrata dei sottoparcheggi. Stirandosi a attraversare il sottile varco piramidale che separava la sua cameretta degli svaghi e dello studio dal corridoio a tunnel su cui si aprivano i piccoli altri ambienti di quella che doveva essere una nuova casa - com’era diventata brava adesso, Lara, a scivolare, impicciolirsi e assottigliarsi per sgusciare tra le fessure e i fori che immettevano da un vano all’altro! -, provò a chiamare e poi a urlare “madre”, ma solo un’eco lamentosa e affievolita le rispose, che sgusciò via presto rapida tra le pareti del corritunnel. E un po’ inquieta stava adesso diventando la bambina, che per non pensare si mise in moto mentre un buco di vuoto sconosciuto fino a allora piano piano le cresceva dentro un feto - lo sentiva schiacciare e incavare e increspare l’intorno pressato - e era come un incendio per lo stomaco e i polmoni, già indeboliti dallo shock del divampo assordante dei fuochi di allarme scoppiati forse due giorni prima su ordine del Governo, quando anche il cuore al doppio le si era pompato nel piccolo petto che aveva gemuto di un che di ronfìo doloroso - di vita come esplosa e poi ribloccata, incastrata lì, nell’anfratto sbagliato - e ne era uscito anche uno zufolo strozzato e strano. “Vietato uscire dalle proprie abitazioni”, era stato annunciato nel vuoto, amaranto nel dolce tramonto serale. E “Pericolo terroristi”, anche. Ma la mamma - i capelli che le crescevano sempre più crespi e ispidi con quella riga grigia che si smangiava in alto l’originario biondo che le aveva illuminato un tempo il viso, ora sempre più ossuto e straniato dagli zigomi a triangolo sporgenti dalla faccia magra che sembrava cera - lo aveva ben sentito, Lara, quella volta che aveva provato a carezzarla, per calmarla, che lei era fatta della sostanza del mobilio del sovrapp -, gli occhi sempre più infossati e accesi, la pupilla rientrata un fuoco pazzo -, che non credeva alle fandonie fanfarate per tenere tutti quanti prigionieri in quell’hangar sospeso venduto per oasi di pace, si era affrettata a uscire, proprio per sfida, solo sperando che le aeromobili private non fossero già state circuitate da uno dei soliti Ordini Perentori Governativi. E lei, dall’oblò del bagnetto in cui era intenta a mettersi in resta i riccioli biondi che le piaceva veder raggiare intorno alla testa e svirgolare sulla fronte e sulle guance ancora rosse e dall’aspetto paffutello, l’aveva vista che si allontanava e rimpiccioliva fino a diventare un punto troppo velocemente inabissato verso l’alto... Nemmeno l’aveva salutata, mamma, nella furia che l’aveva invasa mentre urlava parole mai sentite, le punte dei capelli che ondeggiavano agitate sopra la testa e sopra le spalle e che sempre sferzavano Lara sfiorata dalle corse folli della madre per le stanze del sovrapp percorso inseguita da quei cordami spezzati e sbattuti di nave in tempesta e alla deriva che stagliava le sue ombre cupe e ingigantite sull’intonaco della parete del soggiorno posta forse a nord attraverso cui la donna, nei momenti di requie rara, fissava il pluriverso invisibile agli occhi sfiorando con le dita sottili di un’amante che annega in una qualche sua cieca e segreta nostalgia il muro che si apriva, fantastico sipario, a svelare quelle che lei diceva essere niuiorc, londra, mosca, sciangai, tochio, parigi… Le braccia e le mani invasate, le dita rigide a artiglio pallidissime, vive solo per il verde dello smalto anti-incendiario, allora mamma era sgusciata invece attraverso la porta dell’ingresso; e ancora non era tornata. Lara aveva sentito il discensore precipitare col suo sibilo frenetico anche lui rovinando verso il basso, attutita solo la caduta da - le aveva spiegato la madre - un sistema di carrucole e pulegge calibrate al micrometro a atterrare i trasportati su un tappeto morbido di cuscinetti a gomma. E poi più nulla. Solo aveva guardato l’aeromobile sfrecciare indemoniata con dentro la donna di cui le era sembrato di vedere attraverso i finestrini oscurati dal fiato le chiome scomposte aleggiare, stracci di vele lacerate ma con vertici di punte aguzze di tenaglia pronte a colpire di veleno. E adesso, dunque, lei era sola. In quel cubicolo di soli venti passi per venti, tutto bistrato di un bianco che di giorno confondeva col latte del mondo là fuori, cominciava anche a temere che fosse accaduto qualcosa, che un terrorista o, peggio, una qualche Autorità l’avesse bloccata, la mamma, col lazzo di ferro in pieno cielo, e allora dove l'avrebbero portata?, o che, poco lucida e abbagliata dal fulgore, si fosse imbottigliata, la donna, in qualche varco troppo stretto tra i condoms e nell’impatto violento fracellata insieme all’aeromobile, e forse le membra del suo corpo galleggiavano già sperdendosi…, o riposavano ormai in pace finalmente su un terreno che, se anche invisibile da dove Lara si trovava, doveva esistere a punto d’appoggio di quegli edifici che si innalzavano, infiniti sembrava, ma non poteva essere…, nel cobalto del cielo nell’istante quasi notturno in cui Lara sbirciò di nuovo oltre la finestra a bottone della cucina, dove le ombre stavano calando dense, minacciose per lei ora, rivestendo il cielo con la loro familiare fitta ragnatela di fuliggine e catrame. Decise comunque di cercare di dormire. Raggiunse il letto, si levò la tutina argentata, indossò la vestaglietta grigia della notte, si adagiò sulla plastica ad aria, e si addormentò, finalmente... E profondamente... Sognando di nuotare nello spazio infinito di un’immensa e iridescente dai mille incredibili colori bolla d’acqua, che la cullava dolce, mentre lei giocava a rimbalzino sulla sua gomma resistente e morbida. E ancora, la mattina, al risveglio, nessuna traccia della madre. Ma lo sguardo di Lara era cambiato. Qualcosa era accaduto. Uno squarcio forse in lei. Una piaga, apertasi, profonda. Per quel feto? Perché ora tutto le sembrava più opalino, e il barbaglio del mondo attenuato, e gli oggetti alleggeriti, sfumati, allontanati, come se un velo si fosse intrufolato tra lei e loro, una pellicola di nebbia calata sui suoi occhi che lei non riusciva a liberare, anche se ci provava, eccome!, sfregandosi e sfregandosi le palpebre... Finché smise. In fondo, ci vedeva ancora… Mentre sentiva che per il corpo iniziava a scorrere il nutrimento liquido attivato dal microchip nucale, andò in bagno, si sedette ancora assente e stordita sul gradino poroso che alla pressione fu inondato dalla pioggia mattutina, standosene lì un po’, a rivoltolarsi come non poteva quando c’era mamma, fin quando la pelle delle sue dodici dita fu così raggrumata che quasi si sfogliava. Si sollevò allora dal poggetto tiepido, già rimpiangendo l'acqua che solo il giorno dopo l'avrebbe potuta rilavare. E girovagò per casa, non mancando, di tanto in tanto, di lanciare uno sguardo di là dagli oblò per controllare l’ora, ma già quasi non aspettando più nessun ritorno. Il pensiero che qualcuno vivesse in un cunicolo vicino e potesse darle aiuto, nemmeno la sfiorò. Pensò solo a camminare, per giorni giorni e giorni, mentre il cielo trapassava da arancione a amaranto ad antracite secondo il suo ciclo stabilito. Girovagò fino a quando udì uno struscio che sembrava provenire dal pavimento sopra il suo sovrapp; era un frusciare lento e affaticato, come per un affanno senza tregua, interrotto solo, di quando in quando, da un lamento fievole fievole: un uggiolìo? un grido soffocato? Poi più nulla, all'improvviso, e i giorni corsero via uguali. Fu solo dopo alcune settimane, forse, che avvenne. Mentre la bimba si stava sbiadendo alle pigre e ripetute passeggiate, nel suo inascoltato da sempre mondo interiore sbocciò un'attrazione viva per le mura del sovrapp, che le era capitato più volte di sfiorare nelle sue volute per le stanze, e in quel rasentare fuggevole aveva cominciato a risentire non so quale senso di sollievo e piacere sconosciuto. Finché i granuli di stucco che strusciava a fior di pelle la fascinarono. E cominciò a fissarle bene, Lara, quelle minuscole sporgenze, a volte così avidamente da fermarcisi di fronte e appiccicarci addosso l’occhio imbambolato e tanto ingordo che sembrava ci volesse sprofondare. C’era un bubbone poi, vicino al varco nel tunnel per il bagno, tanto prominente e sgorbio… Con lui iniziò. Diede un nome a quel grumo e a tutti gli altri che perfettamente quasi ormai conosceva. E li salutava, all'incontro, soprattutto quel guercio che le sembrava proprio diventasse sempre più grande, sempre più grande… sempre più grande e vivo… e che si scrollasse in un saluto al suo passaggio in vestaglia per le stanze del sovrapp… Intanto, le membrane sugli occhi si ispessivano, un po’ di più ogni giorno, e le pareti si gonfiavano a pallone o si incurvavano a clessidra, da aver paura che lo avrebbero schiacciato quel corpo già tanto esile e sottile adesso. Ma era un bollire e ribollire che piaceva a Lara, perché la abbracciava la casa e respirava insieme a lei, che anche sé sempre più dimenticava in quel silenzio che non sentiva più bruciante e la scivolava verso un’altra vicinanza. Nella stanza dei giochi e dello studio, mentre resti di ricordi inutilmente scampanavano a svegliarla, scagliando i loro battagli di voci e di suoni contro i muri sordi, a volte, il noto perduto e l’ignoto impenetrabile che l'avevano respinta ghiacciavano e crollavano a pezzi irrecuperabili, liberandola alle ombre giocose e fantastiche che turbinavano lungo le pareti e la accompagnavano magicamente in un accordo di sfrusci e sussurri, contatti di amici impalpabili e mai inospitali. Dovettero passare altri giorni, molti probabilmente, prima che Lara si accorgesse, ma senza alcun timore, che il suo corpo si stava trasformando: la sua vita era quasi ormai una palla rivestita da una pelle sottile e tenerosa che tremolava al tocco, e agile per come sinuosamente si comprimeva nei varchi tra gli ambienti della casa percorsi come in danza dalla bimba che solo appoggiava per un istante delicatissima la punta dei piedi invisibili sul marmo livido. Ogni giorno, da quando se ne accorse, Lara registrò curiosa i progressi della sua trasformazione, che la incantava e sollevava. Fino a quando, una mattina, scoppiò la vestaglia che ormai non smetteva più e ne sbucò un ombelico a truciolo di un rosa pallido, e poi se ne uscì in fuori tutto il ventre, e allora infervorata la bambina si spogliò del tutto e prese a rotolare felice e sciolta da ogni impaccio tra cerchi e capriole attraverso le stanze con gli oblò. E rotolò e rimbalzò e rotolò ancora finché un vortice un giorno le si agitò dentro misterioso sommuovendole le viscere e scorrendo rapido le cavità piatte e i sottili condotti calcarei del suo corpo per esplodere infine dalle labbra che eruttarono un fiotto di fumo grigiastro e granuloso che si riversò all’intorno, accelerandosi nel vuoto e infrangendo un vetro opaco di fiato di un oblò che risucchiò la bimba in un gorgo di cielo verso l’alto, molto in alto… Là dove si perse, Lara, carta di lettere che mai nessuno avrebbe letto ma libere ora dal possibile e indiscriminabile ritorno dei vani echi fruscianti per le stanze abbagliate dalla solitudine e dal vuoto, dagli scoppi delle bombe degli sguardi indifferenti e ciechi, sfuggenti, astiosi o folli di sua madre, nella cupola bianca come il latte sgorgato appena allora dal seno di una grande e buona genitrice. La bandierina bianca si librò per un poco e, assottigliandosi impercettibilmente, vergine velo di piuma di cigno, si sciolse in pulviscoli di coriandoli dello stesso colore del cielo che di lì a poco li avrebbe assorbiti e dissolti.
©
Michela Matani
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