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Sul mio corpo ruderale non cresce l’erba. Con questa consapevolezza, stamattina, mi sono insinuato di nuovo nei vicoli stretti di una città qualsiasi affacciata sul mare. Dentro ho l’ansia furiosa che cerca madonne antiche, di cappella in cappella, per strappare una grazia. Sto frugando tra i miei pensieri, nell’acqua sporca di ieri dove le donne lavavano i panni sporchi, strofinando pezzi squadrati di sapone, così grossi da enfiarmi la pelle fresca di bucato. Nella Chiesa del Carmine c’è un’aria stagnante di incensi, imputridita di litanie ripetute a bassa voce. Quando varco la soglia soprannaturale divento serio, l’ho imparato da mia madre, ma non ho ancora imparato a segnarmi: è un gesto talmente strano, come salutare un morto. Invece mi piace sedermi tra i banchi di legno, perché mi accascio e sonnecchio reggendomi la testa tra le mani. C’è il cristallo spesso, appannato, intorno alla teca, per proteggere la verginità di questa madonna dai fedeli, che depongono peccati rancidi, primizie marcite, ai suoi piedi. Vorrei incontrare i suoi occhi, almeno una volta nella vita, ma sono rivolti al cielo, scavati nell’incarnato cereo solcato da gocce di sangue grosse come grani; sono gli occhi sfuggenti della verginità che hanno orrore del peccato. Le madonne vere non fissano mai i loro sguardi nei nostri. Dentro il broccato prezioso degli abiti candidi la Vergine non sanguina, se ne sta in disparte, con il cuore già altrove fermo per sempre. All’improvviso, nel buio intriso di porpora, stinta da ginocchia umane, avverto la freddezza diabolica di quella forma in cera, prigioniera della sua santità: l’indifferenza fatale del piede che schiaccia il serpente. Provo pena per le spire esanimi del serpente, mi ci avvolgo, attorciglio e ne faccio un rosario. In fretta esco alla luce del giorno, che esplode nel buio oltre il confine della fede. - Mi lascio alle spalle la tua gloria, Madonna!, urlo. I lastroni di pietra nel cortile della Chiesa del Carmine scivolano verso piazza Mercato, stridente di urla forsennate, che strozzano i sensi. Precipito tra la folla, urtando corpi di carne scintillanti di sudore. Svolto in direzione della stazione degli autobus, palpando avidamente lo squallore del luogo. In un attimo mi assale lo sgomento del contrasto di colori, ma incontro occhi umani in quell’attimo di vertigine. Sono gli occhi della Madonna di strada, selvaggia nell’umanità nera dei suoi capelli scomposti, che non pretende preghiere. Lei mi parla col torbido linguaggio di movimenti languidi; già troppe volte ha abbandonato la verginità, sbattuta contro i muri della città, nel clamore dei vicoli. Spogliata delle virtù sovrumane, la Madonna di strada vive soltanto di virtù piccole, stringe i denti cattiva quando la adorano, sorride se la amano. L’ho vista fumare cento sigarette al bar della stazione, respirando fiati alcoolici al braccio di un barbone e l’ho riconosciuta così. Quando barcollo, avvicinandomi, mi si fa incontro e mi stende la mano. E’ calda ed ha il sapore di pelle viva, senza il profumo di santità scostante. Sono belli i suoi colori, gialli grassi e azzurri intensi, scrostata rozzamente sul selciato dalle mani spaccate dei madonnari anonimi. I madonnari sanno inginocchiarsi senza arroganza, senza adorazione, per disegnarla in fretta con quattro rapidi colpi di gessetto. E non c’è gloria, non c’è osanna nel suo colore, nessuna indifferenza nel suo dolore per noi. Mi fa cenno di seguirla. Mostra i denti tra la folla che la insegue. Quando restiamo soli mi parla. - Non mi piego sulle ginocchia, non lo faccio mai. - Perché? - Perché mi inginocchierei solo per dio umile, che non pretenda interessi usurari sulla sofferenza. Poi si siede sui talloni, sento di amarla, così vicina. - Vieni – mi dice. - Guarda! mi inginocchio davanti a te. - Ma ricorda! Sarò sempre solo una Madonna di strada.
©
Dario De giacomo
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