La conoscevo bene, ovvero credevo di conoscerla bene, il suo corpo disteso in quella stanza d’albergo sembrava una balena arenata sulle spiagge della Polinesia.
Cerco di ricostruire gli ultimi giorni ella sua vita, gli spostamenti, i contatti, dove ha cantato le ultime notti ma è difficile, con lei non potevi fare un programma, pianificare una giornata. Quando la incontravo per caso, le chiedevo perché non si facesse mai trovare ma lei aveva sempre la risposta giusta, era dalla manicure, da Willy, a provare, e concludeva che era così tanta, che poteva essere ovunque.
Certo che il mio è proprio un mestiere di merda! Tutto il santo giorno in giro tra le strade a chiedere informazioni ai barboni, ai ruffiani con tanto di cappello e sigaro, porci, ai piantoni d’albergo solo per trovare una storia losca da raccontare e darla per pochi dollari al giornale.
Questa è dura, Bertha Jefferson era mia amica.
Al Saint Louis Blues da Garret, quando intonava “Sta alla larga da me perché sono tutta un peccato, se questo posto crolla è colpa mia e del gin che ho in corpo…”, la sala si zittiva, quelle facce nere si schiarivano dalla passione e lei, imponente, la voce tremante, l’abito di lustrini smeraldo godeva della propria magia. Aveva appunto cantato da Garret, quella notte, si era riempita di gin end soda tanto da non reggersi più in piedi.
Al locale mi hanno riferito che l’avevano costretta a mangiare uno spiedino di pesce, fottuto pesce marcio, le avevano allungato le gambe su una poltrona e Garret le aveva fatto bere quella cazzo di pozione antisbronza. Saranno state le quattro del mattino quando chiamarono un taxi dando al tipo l’indirizzo di sua sorella. Non arrivò mai da sua sorella. E’ morta in uno squallido albergo a ore, per essere precisi, sulla Rampart Street.
Bertha aveva amato alla follia Jo Thomas, il pianista. Bel tipo, coglione ma un bel tipo. Bertha sarebbe dimagrita di trenta chili per il suo amore, ma lui le diceva che era bella così, aveva talento eccetera e intanto uscito dal locale andava a scopare quelle col culo secco, tutte denti e unghie. Lei lo sapeva, se ne infischiava altamente, perché lui tornava sempre. Ti scarto, caro Jo, coglione, non vali neanche un articolo scritto da me!
Tre giorni fa Bertha andò dal parrucchiere con sua sorella Betty.
Nel piccolo salotto dove Betty mi accolse, nella casa più pericolante del quartiere francese, le tende tirate, musica blues sul grammofono, due tazze di the fumanti, mi disse che dal parrucchiere si erano divertite un fracco perché la coiffeuse provava parrucche a Bertha, - Sai, per cambiare, per nascondere i ricci…ed a ogni cambio lei si alzava e cominciava a cantare per poi convincersi che era meglio la solita parrucca acconciata in su con un fiore di lato. –
Mi disse anche che un giorno Bertha le confidò che si era invaghita di un uomo per bene, con automobile, vestito doppiopetto, scarpe lucide, -Sai, Louis, quel tipo di maiale che si fa lustrare le scarpe da un moccioso nero come lui, mm, mi da’ sui nervi! Però quando chiesi al piccolo Tom che ci trovava di così bello a fare il lustrascarpe, a stare in ginocchio davanti ai signori, lui, sai cosa mi ha risposto? Di bella, io ci sputo sopra le loro scarpe! –
Se Bertha era grassa, Betty era eloquente, anzi asfissiante. Un pomeriggio con lei voleva dire che sì, rispondeva alle mia domande ma in mezzo mi raccontava la vita del quartiere. Ci mise mezz’ora prima di ritornare all’ultima fiamma di sua sorella per poi dirmi che non ne conosceva il nome ma che era certissima che l’auto fosse una Chrysler. A New Orleans le Chrysler si contano con le dita di una mano. Quando salutai Betty la vidi piangere per la prima volta. Vita di merda.
Appoggiati alla balaustra de legno, due vecchi intonavano New Orleans Hop Scop Blues. Facce segnate dagli occhi dolcissimi, camicie a quadri, destini inevitabili ballavano, “…si fanno tante cose, le fanno anche i bianchi, e c’è un ballo che è una vera rarità…”.
Salgo su un taxi e mi faccio lascire in redazione. Due telefonate giuste ed ecco la lista dei proprietari delle Chrysler. Mi accorgo dai cognomi che sono tutti musi pallidi. E brava Bertha, ti mancava solo un bianco per finire in bellezza. Cazzo. E adesso che faccio? “Pronto, mi scusi signora, dove posso trovare suo marito? Potrebbe essere indiziato per l’omicidio di una cantante negra.” Cazzo, da dove comincio..
Lascio l’incarico a Katy, la più sveglia del giornale, se la caverà benissimo.
Faccio il giro dei night e parlo con tutti quelli che incontro, musicisti, barman, entreneuses, tutti mi dicono che Berta negli ultimi giorni non voleva parlare, non c’era con la testa, beveva e basta, anzi no, beveva e si cambiava d’abito quattro cinque volte al giorno, così anche le scarpe, la veletta e la collana.
Un musicista, un pianista, mi dice anche che la sua voce si era abbassata di tono, ma non certo di sonorità.
- Anzi, disse, mi piaceva quel tono che in certi momenti si confondeva col suono del pianoforte. Mai sentita così blues. Sai, nelle cantine si racconta che c’è un momento prodigioso nella vita di un cantante blues, un momento in cui la vita è così maledettamente identica ai testi della sua canzone, che vi si smarrisce all’interno. Trasmutazione. Sì, trasmutazione. –
Avevo buttato giù un paio di gin e ne avrei bevuti fino a dormire, ma…
Quando chiesi al piantone le chiavi della stanza di Bertha, senza alzare neanche la testa disse che la polizia aveva messo i sigilli e che quindi me lo potevo anche sognare d’entrare. Senza ma e senza se, lo presi dal colletto e lo tirai su. I suoi piedi non toccavano neanche terra tanto era piccolo, scalciava e la cicca che aveva in bocca le restò incollata al labbro inferiore, sporgente e giallo di nicotina. Visto che non scherzavo si arrese e mi lanciò le chiavi addosso. Verme schifoso.
Lungo il corridoio, a terra, una passatoia rossa e gialla, consumata, con macchie scure mi portò fino alla stanza 23. Lei non c’era, l’avevano portata via, però tutto era così come due giorni prima. Seduto sul letto, una lampada dalla luce fosca accesa, pensai a Bertha, alle sue notti canterine, le spalle tornite e scure, la nuca con quella piega di grasso dove le collane si nascondevano, - ma perché Bertha l’hai fatto, perché hai voluto finirla così con il mondo, perché non posso più sentire la tua voce! – Pensai alla leggenda del pianista, forse aveva ragione, forse hai voluto trasmutarti in blues. Cazzo.
Merda.
La notte qui a New Orleans o canti o bevi o ti ammazzi.
- O t’ammazzo! Che cazzo vuoi adesso? –
Il piantone si era fatto ancora più piccolo e la voce indugiava – Ci sono gli sbirri, giù, volevo solo avvertirti… -
Scendemmo le scale in fretta, urtai contro gli sbirri che salivano lentamente e e uscii.
“…datemi una paglia e una botte di gin
Uccidetemi, sono tutta un peccato,
uccidetemi, sono piena di gin.”
Tutti cantano in questa città, dalle finestre esce musica. Le ballate, in questa striscia di terra abbandonata da dio nascono come funghi. Quando la notte arriva, l’umidità della foresta e del Missisipi si fa strada a suon di banda, entra nei locali, nelle case, nelle lenzuola e ci va una donna che scaldi l’atmosfera, un bel sorriso, poppe generose, voce voluttuosa. Qui la gente non cammina per strada, balla. Qui la gente spera, s’illude che qualcosa cambi ma, potessi crepare se mento, noi non abbiamo speranza, a noi piace ridere del nostro amore corrisposto oppure tormentarci e rimanere dannati per sempre, fa lo stesso.
La mia amica Bertha Jefferson è di questa razza qua, ecco cosa scriverò domani.