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Non ricordo quanti anni avessi, se tredici, quattordici, o quindici. Le automobili avevano ancora il colore del tabacco e sembravano pacchetti di sigarette, inscatolati nelle loro linee squadrate e secche. I vestiti avevano ancora pochi nomi e i baffi tante forme. Era un soleggiato pomeriggio di maggio ed io mi trovavo nella mia più piena pubertà. Le strade erano arancioni, i palazzi gialli, le ombre corte dietro alle persone, le gelaterie affollate. Stavo camminando con i miei genitori in direzione di un mercatino dell'usato nei pressi di Porta Genova, a sud della città. Non che i mei vecchi avessero particolare interesse a portarmi ad un mercatino dell'usato, ma ci eravamo trasferiti da poco ed ogni singolo angolo ed ogni vietta, ogni viuzza o ponte o chiesa o chiostro del nuovo quartiere doveva essere scandagliato a fondo e a tutto tondo, per bene, da persone per bene. Avevamo lasciato un appartamento grande e luminoso in un maestoso palazzo nel centro della città. Abitavamo all' ottavo piano, c'era sempre molta luce e non c'era mai rumore, c'era sempre molta pace e il cielo era basso sopra i palazzi colorati. In cucina c'era un balconcino e bastava sporgersi di poco ed allungare un dito per bussare alle finestre della Torre Velasca. Abitammo in quella casa per tredici, quattordici o quindici anni. Poi ce ne andammo, nel giro di una settimana impacchettammo tutto, anche il cane, per sbaglio, e ce ne andammo. La casa dove traslocammo non era grande e non era piccola, ma aveva quelle tipiche dimensioni che non permettono di definirne la grandezza. La palazzina era vecchia e si affacciava su una piazza dove confluivano i capolinea di quattro tram: - Starò bene, qui - pensai, la prima volta che andai a vederla. Mi affacciai al balcone. Era una sera colorata di rosa. Erano le dieci e i tram scivolavano sui binari come salsicce meccaniche crepitanti. Emettevano le ultime grida della giornata. Poi si sarebbero spenti. Si sarebbero rimessi in moto, lenti e nevrotici, come in quella mattina, tra le strade affollate. Prima di uscire di casa passammo a salutare i vicini, una coppia di mezza età che gestiva una agenzia assicurativa al piano sotto il nostro. La conversazione durò pochi minuti. Dissero che avevavo un cane di nome Luna, che gli affari andavano bene, che non volevano figli. Odiamo la musica, dissero infine rivolgendosi a me: - Ah si ? - Si - risposero entrambi e mi accarezzarono la testa. Dopodichè ci salutammo ed uscimmo. - Sembrano brave persone - disse mia mamma. Mio papà rispose che Luna era un bel nome e io dissi che mi sarebbe piaciuto avere uno stereo. Visitammo così il ponte di ferro, visibile dal mio balcone, e la stazione ferroviaria, visibile anch' essa dal mio balcone. Andammo al famoso mercato di San Agostino, dove mio padre si perse, io mi persi e mia mamma rimase sola. Ci ritrovammo davanti a quattro senegalesi che vendevano ombrelli e papà e mamma mi chiesero per quale motivo fossi scappato. Passammo davanti alla trattoria Tano, passami l 'olio, e ci fermammo a guardare sulle tabelle degli orari dei tram quante fermate distavano dal centro; - Sono tante. Pensavo fossero meno - disse papà. Visitammo la darsena, dove due cani si azzuffarono tra l' erba alta e mia mamma ci fece notare che avevamo fatto bene a lasciare a casa Giulio - Giulio era un boxer particolarmente incline alla violenza. Aveva due anni ed era completamente pazzo. In realtà era un cane molto buono, solo molto sensibile e con un gran senso del dovere. Arrivammo finalmente alla fiera di Senigallia, mercatino dell'usato famoso in tutta la città, quando, dopo aver fatto pochi metri, mi fiondai su una cassetta della frutta dove giacevano alla rinfusa diversi numeri di Urania, una collana italiana di fantascienza. Stavo guardando le illustrazioni di Karel Thole, che ne disegnò le copertine per quasi vent'anni, quando mio papà mi prese per mano e disse: - Guarda quella ragazza. Avevo allora tredici, quattordici o quindici anni, pochi amici, tanta acne e diversi giornalini porno nascosti in un libro di dinosauri. Pensai che dovesse parlarmi di qualcosa di importante o di qualcosa di poco importante ma interessante. Guardai in mezzo alla folla, non vidi niente e guardai mio padre: - Ho visto. - Secondo te quanti anni ha ? - Trenta. - No - rispose - Guarda meglio. Secondo te, quanti anni ha ? - Ventotto ? - Ne ha pochi più di te. - Ah si ? - Si. - Guardala. - L'ho vista papà. - Sembra vecchia, ma ha poco più della tua età. - Stai lontano dalla droga - disse mia mamma che si era tenuta al mio fianco tutto il tempo. Sfogliava delle riviste di giardinaggio, e quando alzai la testa non riuscii a vederne gli occhi, coperti com'erano dai lunghi capelli biondi. Era proprio una bella donna, pensai. - Stai lontano dalla droga - ripetè mio papà e mi strinse la mano. Papà mi stringeva sempre la mano, in tutte quelle circostanze che tacevano una certa strana alleanza o in uno scambio improvviso di cose banali, di cui, senza motivo, non si era mai parlato. Mi prendeva la mano e la stringeva, una, due volte ed aspettava che io rispondessi allo stesso modo. Così gli stringevo anche io la mano, una, due volte e lui mi rispondeva. E andavamo avanti così, fin quando uno dei due non si stancava, o si dimenticava, oppure il cane scappava e bisognava rincorrerlo. Un' estate, al mare, gli chiesi: - Papà, quanto pesa la terra ? - Attraversammo un viottolo terroso ed arrivammo al porto. Guardammo le barche e le nasse abbandonate sul molo. Quando tornammo a casa mi stava stringendo ancora la mano. Un' autunno, in montagna, gli chiesi: - Papà, quanti grilli ci sono per chilometro quadrato ? - Le colline erano tinteggiate di rosso e le montagne lontane. Cominciò a stringermi al mano e non la smise più. Mi voltai e cercai con lo sguardo la ragazza di cui stava parlando. Ero basso all'epoca - anche ora non sono molto alto - e l'unica cosa che mi parve di vedere fu un bellissimo sedere avvolto da un paio di collant neri, strappati in più punti. Ributtai le mani nella cassetta della frutta e tirai fuori un'antologia di Asimov. Asimov mi piaceva molto, mi piacevano soprattutto il suo nome e le sue principesche basette. Aveva definito, a seguito di una conversazione avvenuta con John Campbell attorno al 1940, le tre leggi della robotica, un codice di comportamento minimo che tutti i robot dei suoi romanzi e racconti dovevano seguire. L' infrazione a queste leggi e le ambiguità che ruotavano attorno ad esse permetteva allo scrittore di aver del materiale su cui scrivere. In fondo, nessuno scrive di quanto è affascinante seguire le regole. Anche la Bibbia sembra avere delle riserve a riguardo. Mi sentii stranamente felice quando scoprii, diversi anni dopo, che alcuni robot progettati da una ditta giapponese erano stati programmati proprio secondo queste leggi. Mia mamma disse che quel libro l'avevamo già, nella casa al mare. Avrei potuto leggerlo lì quando saremmo partiti per le vacanze, ad agosto. L' avrai anche sicuramente già letto, aggiunse. Io frignai, o almeno ci provai e mio papà pagò. - Papà, perchè ci siamo trasferiti ? - domandai quando le bancarelle cominciarono a diradarsi e il mercato era quasi finito. Non mi rispose, né mi strinse la mano, ma mi domandò se avessi fatto i compiti. - Saremmo dovuti venire prima - aggiunse voltandosi verso la mamma, che nel frattempo era rimasta indietro e si era fermata a comperare dei fiori - Non pensavo chiudesse così presto. Non è male come mercatino. Avvolti dall'afa, con i piedi che affondavano nell'asfalto molle, arrivammo a casa, tra lo stridere delle ruote d'acciaio sui binari d'acciaio e i clacson inferociti delle auto lente. Andai in camera e socchiusi le persiane, quanto bastava per poter leggere. Abitavamo al secondo piano e i cavi della tensione dei tram si trovavano poco sotto al livello del balcone, tesi da una parte all'altra della piazza, come un ragnatela elettrica. Molte cose erano ancora negli scatoloni che giacevano impilati, qua e là. L'indomani avrei dovuto sistemare tutto. Mi sdraiai sul materasso ancora impacchettato ed aprii il libro. La schiena aderì al celophan come un adesivo e cominciai a leggere. Mi ricordai i dialoghi, il ritmo delle pagine e le distanze siderali della galassia; rincontrai il Mulo, i cervelli positronici e la figura asciutta e gelida di Susan Calvin, robopsicologa d'eccezione che amava più i robot che gli esseri umani - perchè non mentono mai, diceva. Arrivai al primo capitolo, lessi il secondo e poi il terzo. Cominciai il quarto e decisi di andare in bagno poi rimandai e lessi il quinto, lessi il sesto ed il settimo capitolo. Quando decisi di alzarmi le parole cominciarono a cambiare. Cambiavano forma, mutavano posizione e dovetti rincorrerle con i polpastrelli unti che sformavano gli angoli delle pagine. Le parole si spostavano in massa e le lettere si separavano per poi riorganizzarsi come militari inesperti. Sulle mura bianche e spoglie si lanciavano le ultime alitate di sole: attraversavano le persiane, esplodevano in fasci caliginosi e si attaccavano alle pareti lisce in formazioni geometriche. L'attacco a Trantor ? Troppo presto. Quello sarà al nono, al decimo o all' ics capitolo. Sulle pagine caddero dei fili di tessuto nero. Le estremità erano sfilacciate. Si arrampicarono da dietro come serpenti su un muro e si riversarono dolci sulla cima del libro. Si inseguivano e si studiavano, attenti e contenti. Si salutavano e si guardavano come antenne oscillanti di scarafaggi lucenti e i gargarismi laceranti dei tram esultavano sulla scintilla blu, sopra i cavi della tensione. I fiori sono nel vaso in cucina. I cervelli positronici fanno le scintille blu ? Quanti grilli ci sono per chilometro quadrato, papà ? Calze a rete su Susan Calvin. Calze strappate e lacerate e i fiori della mamma secchi. Quante scintille ci sono per cervello positronico, Susan Calvin ? Pile di catologhi di cervelli positronici e due telai di tram saldati, papà, guarda papà, dissi. Papà, quanti telai ci sono per ogni notte quadrata, papà ? Tram carichi di libri; tram di carta, libri di legno, mia panacea, dentro questo forno vuoto, dentro questo forno vuoto spento da poco. Origami di parole che scrivono col sudore dietro alle orecchie. Guarda quella ragazza. Ho visto, ma di te non vedo niente se non una scintilla blu nell' aria gialla dove io sto a galla. Quanto durava il viaggio per andare al mare, quante le soste su quali coste e quante le spiagge ? Quali biscotti mangiavi ? Dov'eri quando avevi la mia età ? Al corso di nuoto, al corso di danza ? A guardare il vuoto che sempre più avanza ? Per le strade viola, a zonzo ? Nelle piazze all' imbrunire sulla panchine a vomitare ? I fiori della mamma, secchi sul balcone pennellato di arancione. Quanto pesa la terra, papà ? A meno che queste informazioni non contrastino con la prima e la seconda legge. Quando hai comprato i primi collant? Di quello che sei non mi interessa nulla, ma voglio vedere il tuo letto, la tua scrittura, le tue magliette sporche. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. Bla & Bla. Un robot non può recar danno a un essere umano né permettere che un cane abbai. Bau & Bau. Secondo te quanti anni ha ? Trenta. Il sedere della ragazza si affaccia alla finestra. Le sue cosce sul balcone pennellato di arancione. Le cosce si aprono. Trenta. Ah si ? Si. Dormi ? E' in tavola. Trenta, venti, dieci, zero: il sedere scompare, aspirato dall'aria gonfia e si sgonfia come un palloncino grinzozo. I cervelli positronici implodono e rotolano in un tombino. Hai ventotto anni, non puoi sempre dormire. Vieni. Forza, svegliati. - Vieni a tavola - I capelli sbiaditi e radi erano tenuti insieme in una coda piccola. Le spalle erano minuscole, i fianchi larghi e le gambe incurvate dentro i pantaloncini corti: - Vieni a tavola. E' pronto - disse mia madre e sparì sciabattando mentre il cane abbaiava. Mi alzai dal letto sfatto e mi asciugai con una mano la fronte bagnata. I peli sulle braccia erano incollati alla pelle. I cuscini erano flosci, intrisi di sudore, come due uova marce. Andai in cucina. Giulio si alzò dalla cuccia, a fatica, zoppicando. Mi guardò, provò a muovere la coda, chiuse gli occhi, si girò e smise di abbaiare. Erano le otto di sera e il cielo era rosa. - Vai a lavarti la faccia - disse mio padre. Mi strofinai gli occhi e andai in bagno. L'acqua fredda scorreva deliziosa. Sentivo la puzza dei miei piedi. Comparii all improvviso nello specchio: ero pallido e unto, la fronte lucida, le labbra secche, la barba rasata male. I capelli gonfi e disordinati appiccicati alle tempie. Tornai in cucina e mi sedetti a tavola. Giulio beveva rumorosamente dalla ciotola. Provai a mettere a fuoco il viso della telecronista. Provai a mettere a fuoco il piatto di fronte a me, poi il volto incanutito di mio padre. Il cielo era rosa e la luce era poca. - Dormivi ? - mi chiese aprendo una scatoletta di tonno. - Stavo leggendo. - Non fai altro che leggere quella robaccia. Cercati un lavoro. - Si. - Domani vai dal parrucchiere. - Domani è domenica. - Lunedì vai dal parrucchiere. - Non puoi andare in giro con quei capelli - disse mia madre - Non hai più tredici o quattordici... - ...o quindici anni - concluse mio padre - Ti sei lavato le mani ? Risposi di si e mi versai l'insalata. - Posso accendere la luce ? - La forchetta mi scivolò dalle mani umide e cadde rumorosamente sul piatto. Giulio si afflosciò sulla cuccia. Sembrava schiacciato dalla gravità. - Non serve. Si sta bene così. - No, non accenderla - disse mia madre - Così si sta bene.
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Riccardo Falletta terafina
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