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di Alessandro Mantegna
Pubblicato su SITO


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Come tutte le mattine si era infilato assonnato in macchina. Sameer lo aveva accolto con il solito sorriso sommesso e gentile fino all’eccesso.
“Good morning Sir, how are you?”
Temeva sempre quella domanda, soprattutto a quell’ora. La riteneva del tutto superflua, per di più se rivolta da un autista. “Fine, thank you” rispondeva frettolosamente con un sorriso di circostanza che non pareva corretto negargli.
Ci erano voluti un paio di mesi per imparare a memoria il percorso che lo portava al lavoro. Si attraversava tutta la città, da nord a sud, passando nel lato periferico est che permetteva di evitare il traffico delle minuscole viuzze del centro. Con il tempo aveva imparato a dormire, ma per chi vi si avventurasse per le prime volte, era difficile resistere allo spettacolo che si poteva osservare attraverso i finestrini.
La cosa che colpiva di più era la mescolanza di antico e moderno. La tecnica stava lentamente cercando di cancellare le tracce di una povertà secolare che erano però ancora affatto visibili.
Nella prima parte del percorso si attraversava il quartiere residenziale in cui abitava. Solo avendo in mente quanto sarebbe venuto dopo si poteva apprezzare la ricchezza di quel luogo. In quell’area erano sorte costruzioni che la stavano rendendo irriconoscibile per chi fosse mancato da qualche anno. Hotel a cinque stelle, ipermercati, grandi banche e negozi di noti marchi di abbigliamento. I prezzi degli appartamenti si avvicinavano ormai a quelli delle città europee. Attraversando la via centrale si potevano vedere uscire dalle stradine laterali macchine lussuose guidate da autisti in divisa.
Al primo semaforo, che era anche il limite sud di quel quartiere, si veniva sempre affiancati da qualche mendicante. Il confine della zona più ricca della città era sicuramente il posto giusto per questo tipo di attività. Chi vendeva oggetti di ogni genere, chi metteva in scena un improvvisato spettacolo da saltimbanco, chi, più semplicemente, chiedeva l’elemosina mostrando quanto di meglio potesse alzare il basso livello di empatia della popolazione benestante di quel quartiere: un bambino magro e immobile, un arto menomato o semplicemente un viso disperato.
Col tempo ci si abituava e in genere si prestava ben poca attenzione a queste persone, inserendole nel panorama complessivo della città e ogni tanto, qualora il semaforo segnasse troppi secondi allo scattare del verde, liberandosene distrattamente aprendo il finestrino ed allungando una banconota da dieci rupie.
Per un certo periodo al medesimo semaforo si poteva vedere quella che era stata soprannominata la bambina cane. Poteva avere quattro anni, ma aveva dimensioni ridotte per la sua età. Aveva decisamente un bel viso, era una bella bambina con la carnagione piuttosto scura e i capelli ricci.
Purtroppo aveva una gamba menomata, la doveva trascinare e non riusciva a stare in posizione eretta. La si vedeva arrancare procedendo a quattro zampe, passando tra una vettura e l’altra con il suo bel viso proprio all’altezza dei tubi di scappamento, battendo con la manina sulle lamiere delle macchine per segnalare la sua presenza. Faceva una certa impressione vedere un essere umano così piccolo aggirarsi in quel modo tra enormi fuoristrada e camion, e il primo timore era che qualcuno dall’alto della sua visuale potesse non accorgersi della bambina cane e la schiacciasse sotto le enormi ruote.
Per fortuna a un certo punto non la si vide più e tutto poté ricominciare come prima. L’indifferenza degli abitanti di Koregaon Park non era così forte per potere ignorare completamente la bambina cane.
Superato quel semaforo maledetto, si procedeva sul ponte che scavalcava la ferrovia e subito sotto, sulla sinistra, si poteva osservare una piccola tendopoli. Le abitazioni erano fatte da diversi strati di plastica bruciata dal sole e sorretti da paletti di metallo inarcati. Guardandole veniva in mente il fetore che si poteva sprigionare al loro interno, specie nella stagione calda, per non parlare dell’umidità’ durante i monsoni, quando si aveva il dono di tre mesi di pioggia ininterrotta. Minuscoli bambini correvano nelle stradine di terra nera che dividevano una tenda dall’altra, donne con vasi di rame sul capo si recavano a prendere l’acqua alla fontana vicina, gruppi di uomini trattavano chissà quale scambio di oggetti trovati nelle cataste di immondizia ai bordi della strada.
Più avanti, su entrambi i lati, si potevano scorgere antiche ville coloniali nascoste dietro schiere di alberi, dai quali scendevano lunghe file di liane, gli stessi che si potevano vedere sui libri di Salgari, torinese di adozione, che in India non ci era mai stato. Le strade erano qui ancora ampie, seppur spesso interrotte da disconnessioni del terreno e buche che costringevano le vetture a improvvisi scarti o rallentamenti.
In questo tratto a un certo punto le file di case erano interrotte sulla destra da una pozza d’acqua semistagnante, formata da un piccolo rivolo, sempre affollata da persone che lavavano veicoli di ogni tipo o si facevano più semplicemente il bagno.
La strada proseguiva in un panorama che si faceva sempre più povero, sparivano le case e si vedevano solo grandi campi brulli, talvolta calpestati da maiali che mangiavano la poca erba resa gialla da mesi di siccità. Poi, d’improvviso, l’ultima curva a sinistra introduceva una brusca soluzione di continuità, uscendo dall’estrema periferia della città, ormai quasi deserta, per condurre in un sobborgo affollatissimo dal nome esotico, in cui si veniva spediti indietro di almeno cento anni.
La strada si restringeva e subito a sinistra si scorgeva quello che a prima vista pareva un tombino fognario rimasto aperto ma che in realtà era un pozzo di approvvigionamento di acqua, davanti al quale si formavano file di persone che al loro turno vi scomparivano dentro per poi uscirne con una brocca piena di prezioso liquido.
Poche decine di metri dopo si entrava in quello che era poco più di un vicolo. Su entrambi i lati file di baracche metalliche ospitavano piccoli esercizi commerciali di ogni genere. Insegne scolorite scritte in Hindi, dipinte sulle lamiere, risalenti a chissà quale decennio del secolo scorso, si alternavano a sprazzi di modernità, rappresentati da cartelli con noti marchi di compagnie telefoniche.
In certi istanti la vettura rallentava a causa di qualche persona o animale che attraversava la strada o del traffico che si accumulava in corrispondenza delle numerose strettoie che rendevano ancora più difficile evitare chi veniva in senso opposto. Era allora che si riusciva meglio a gettare lo sguardo dentro qualcuna di quelle botteghe buie anche in pieno giorno e a malapena si riuscivano a scorgere fabbri intenti a battere il ferro rovente, donne chine sul pavimento che preparavano impasti di chissà cosa, arrotini, ciabattini che ricucivano a mano vecchi sandali.
Ai lati della strada, l’avanzare del veicolo faceva scorrere un flusso continuo di umanità. Se a prima vista si veniva colpiti da quanti camminavano ovunque, intenti ad andare, con diverso passo, chissà dove, uno sguardo più attento non poteva mancare di notare quanti fossero intenti a fare assolutamente nulla, seduti o in piedi, per strada o in quelli che potevano sembrare dei bar o delle tavole calde.
Aprendo il finestrino, l’odore stagnante di smog delle vetture veniva talvolta coperto dal puzzo intenso delle fogne che passavano poco dietro o dal profumo delle collane, fatte di coloratissimi fiori, vendute nelle bancarelle in occasione delle numerose feste religiose.
La vita umana era affiancata da una altrettanto intensa vita animale. Colpiva vedere con quale indifferenza mucche e capre rimanessero immobili, adagiate in mezzo alla circolazione dei veicoli che le evitavano senza mai nemmeno sfiorarle. Altre volte si formavano vere e proprie mandrie che procedevano in fila in mezzo al traffico, dirette chissà dove. Piccoli branchi di cani di media taglia trottavano sparsi sul ciglio della strada fermandosi qua e là a scavare dentro l’immondizia che si accumulava negli spazi privi di costruzioni. Era qui che talvolta si vedevano, accanto alle poiane, esseri umani magrissimi che selezionavano accuratamente quanto poteva essere ancora di qualche utilità.
Costantemente, per tutto il percorso, una cosa a cui non si poteva rimanere indifferenti era la circolazione dei veicoli. Era impossibile capire come in mezzo a quel caos tutto sembrasse procedere, a suo modo, in maniera ordinata. I pedoni attraversavano la strada infilandosi tra un treruote e un camion senza scomporsi minimamente di fronte ai continui rumori di clacson e alle macchine che sembravano ignorarne la presenza, ma in qualche modo riuscivano miracolosamente a schivarli. I sorpassi avvenivano ovunque, i veicoli arrivavano quasi a sfiorarsi o a scontrarsi eppure, in qualche maniera, ritornavano nei ranghi senza nessun danno.
Come sempre accadeva in India, alla fine tutto si sistemava, le cose più diverse riuscivano tra loro a stare insieme, quasi in armonia, come guidate da una forza che nessuno spiegava, ma che in qualche maniera tutti avvertivano.

© Alessandro Mantegna





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