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Velocità ZERO
di Carla Montuschi
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Velocità uguale Spazio fratto Tempo.
Ricordo ancora il giorno in cui, al liceo, la professoressa di matematica ci spiegò il concetto di velocità. Blaterava a proposito di variabili primarie e secondarie, di rapporti causa ed effetto, quando il rumore di un aereo attirò la mia attenzione.
Mi affascinò il pensiero che, mentre noi eravamo fermi a discutere sul movimento in una dimensione che non stava andando da nessuna parte, esso stava sorvolando, inconsapevole, le nostre vite e perseguiva con sicurezza la propria destinazione.
Sono sempre stata incuriosita dagli aerei. Mi ha sempre attratto il frusciare cupo che fanno i motori, come se raspassero contro le nuvole. Il rumore precede e segue l’oggetto metallico, la scia che si disegna nel cielo e, allontanandosi, si frammenta in rimbombi che assomigliano a tuoni discreti.
Ogni singolo giorno della mia vita è stato attraversato dal rombo di almeno un aereo, che io ho sempre notato. La gente comune è naturalmente portata a guardare verso il basso… io no. Il rombo degli aerei, negli anni, è diventato un appuntamento quotidiano con il cielo, dunque con la parte sognatrice di me.
La prima volta che salii a bordo di un aereo avevo diciassette anni. Avevo vinto un viaggio premio durante una gara d’inglese. Destinazione… Londra!
Sento ancor viva, a fior di pelle, l’emozione del distacco da terra. Quel gigantesco uccello si posizionò all’inizio del corridoio di partenza, facendo manovra come un’automobile.
Si mosse goffamente sia a causa delle dimensioni ingombranti sia di quelle sue braccia aperte, spalancate in una posa rigida. Sembrava che, muovendosi, esso rischiasse di sfiorare qualunque cosa cui si avvicinasse.
Una volta raggiunta la posizione corretta, sostò fissando il corridoio avanti a sé, come se fosse in cerca di concentrazione. I motori andarono su di giri ruggendo, ed il rumore che produssero fece vibrare ogni cosa, dai sedili ai corpi dei passeggeri.
Prese la rincorsa. Le immagini ai lati degli occhi scorsero sempre più rapide, sino al momento in cui la corsa si fece salita e le ruote si staccarono dal suolo. Quel piccolo salto verso il cielo diventò immediato distacco, corrispose ad una sensazione di effimera leggerezza.
La velocità aveva permesso a quell’oggetto di raggiungere l’aria e di acquisire un senso, una fluidità che a terra esso non possedeva. La velocità era servita a comprimere il tempo al fine di coprire uno spazio altrimenti troppo ampio. La velocità aveva permesso di padroneggiare uno spazio diverso, quello dell’aria superando così in poco tempo ostacoli come mare, montagne, città…
Mormorai, al culmine dell’eccitazione:
«Velocità uguale Spazio fratto Tempo…»
Fu il principio di una decisione che riguardò da vicino il mio futuro: mi accorsi che volevo vivere con i piedi “per aria”, sorretta dalla velocità.
Mi iscrissi ad ingegneria aeronautica ottenendo ottimi risultati. In cinque anni coronai il mio sogno. Trovai lavoro, pressoché immediatamente, come progettista e per molti anni mi occupai di rapporti causa-effetto, di variabili primarie e secondarie.
La parte più gratificante del mio lavoro era legata alla fase di collaudo dei prototipi, facevo sempre in modo che durante i voli sperimentali vi fosse un posto anche per me.
Il momento che preferivo era quello dell’accensione motori: mi beavo nell’ascoltare la voce delle mie creature!


Velocità, Spazio e Tempo. Tre variabili che descrivono una condizione.
La Fisica tradizionale sostiene che la velocità viene descritta, e dunque in un certo senso esiste, in relazione al rapporto fra spazio e tempo. Einstein rivoluzionò questo concetto osservando come il tempo e lo spazio, ad elevatissime velocità non siano costanti, ma varino dilatandosi, comprimendosi.

Velocità, Spazio e Tempo.
Sono ancora variabili importanti che fanno parte della mia vita. Ma anche per me, come per Einstein, esse hanno assunto oggi un significato differente.
Oggi la mia vita scorre ad una velocità esagerata, tanto che posso affermare che essa mi stia sfuggendo, senza che però io riesca più a spostarmi.
Sono malata.
I miei motoneuroni invecchiano, degenerano ad una velocità folle. In questa nuova dimensione non c’è più spazio da percorrere, in quanto non riesco più a muovermi, ed il tempo si è dilatato in maniera intollerabile.
Dal momento che non sono più in grado di svolgere alcun compito pratico, vivo di senso di inutilità.
Chi assiste dall’esterno del mio deterioramento cerca di consolarmi, facendomi notare che mi resta lo spazio infinito del pensiero.
Già, ma che senso ha il pensiero, quando non può più essere tradotto in azione?
Mi dicono che la lucidità garantisce ancora una certa dignità al mio vivere.
Ma come si può assistere impotenti alla sepoltura della mente in un corpo che non si controlla più, in un corpo che deve essere assistito in ogni minima esigenza fisica?
Mi citano gli esempi di quanti, prima di me, hanno affrontato la malattia con coraggio, con un’indomita rassegnazione.
Ma io detesto con tutte le mie ultime forze gli eroi. Vorrei trovarmi di fronte uno di questi mitici egoisti, che con il loro esempio mi negano il diritto alla disperazione, per vomitargli in faccia tutta la mia rabbia.
Io non mi rassegno. A me non basta pensare.
Io che ho sempre vissuto sorretta dalla velocità, proprio non mi sarei mai aspettata che un giorno avrei affermato quanto segue.
Aspiro alla velocità zero, quella in cui, un giorno, sfuggirò al morso inesorabile della malattia. Alla velocità zero, potrò forse recuperare uno spazio entro cui muovermi ed un tempo in cui essere.
Oggi, quando sento il rombo di un aereo, volto gli occhi al cielo e mi sento… sbeffeggiata dalla velocità!

© Carla Montuschi





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