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Ho amato fino a morirne
di Massimiliano Città
Pubblicato su SITO


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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

La notte disegna strane figure dietro la mia ombra che barcolla come non mai. All’angolo della solita strada la tromba lamenta la fame del suo padrone e una vecchina mi sorride, ma denti non ha. Né pane da spezzare, né vino per brindare all’uomo che muore. Niente che mi trattenga per più di qualche istante in questo sogno confuso.

Meglio lasciare.

Le luci della sera conducono i miei passi e i rumori della città nascondono i pensieri della mente.

Talvolta torna in me il ricordo di lei.

La sua voce, come mi stesse qui accanto, ancora adesso sulle mie ginocchia, così reale.

Ne avrei cose da ascoltare.

Meglio lasciare.

Abbandonare il suo ricordo per quanto sia possibile. Da qualche parte, sono certo, la sua voce ristora le orecchie di qualcun altro e il suo corpo rafforza il tepore di una coperta d’albergo di periferia.

L’ho amata fino a morirne.

Meglio lasciare, meglio lasciare in tempo, prima che il sole ti bruci la pelle facendo evaporare l’anima.

Il tizio m’ha portato fino a qui. Il posto non è male. Qualche sedia lasciata al suo destino e il bancone che profuma di whisky, potrebbe essere migliore ma a me basta, almeno per stanotte. Il soffitto così cupo nasconde le stelle con disegni che l’acqua ha tracciato lentamente, da anni impegnata in questo strabiliante affresco. Mi siedo ad ammirare il dipinto della natura e mi ritrovo a scorgere volti passati di moda. Passati via nel volgere di un giorno. Passati e incontrati comunque da qualche parte, in qualche luogo di passaggio di certo. Volti che avevo riposto in anfratti perduti della memoria, e adesso, immobili, mi fissano come potessi dare loro risposta alle domande che li bloccano lì, di fronte a me.

Ma risposte non ho e neppure molte domande a dire il vero.

Mi rimane lo sguardo dell’uomo che mi portò via, con i suoi occhi decisi che mi strapparono alla campagna, pieno zeppo di soldi, da schifo. Mi sventagliò carte da cento sul viso dicendomi che non avrei potuto resistere, e così è stato.

Nessuno resiste, nessuno lo vuole fino in fondo.

C’è sempre una soglia da oltrepassare, in tutto, in tutti.

Qualche ventaglio m’ha strappato alla mia infanzia.

 

“Cosa prendi ragazzo?”

“Cos’hai da offrire vecchio?”

“Non ho tempo da perdere, vuoi bere?”

“Non ho fretta, ne ho di tempo da bruciare, ho l’eternità!”

“Beh allora aspetta quanto vuoi che io c’ho gente.”

“Tanto tornerà, anche a trattarla male.”

“Dici?”

“Tornerà.”

“Anche tu allora!”

“Non ne sono sicuro. I sogni non sono mai gli stessi.”

“Ah, ah, ah bene, bene figliolo mio questo è il tuo sogno o l’incubo che ti sei scelto?”

“Proprio così!”

“Roba da pazzi!”

 

Dire forzatamente cose fuori dall’ordinario. Ad essere pazzi ci si stanca, meglio accodarsi, o lasciare.

E pazzo lo sono stato un tempo, e non ricordo quanto, né quando.

Andavo per la mia strada, senza nulla da fare né luce negli occhi. Qualche spicciolo per la roba, e qualche canzone nella mia testa. La mia voce m’ha tenuto a galla per qualche tempo, prima che le sigarette raschiassero le corde così a fondo da non cavarci nulla. Prima che il whisky scendesse come lava incandescente giù per la mia gola tracciando il cammino. Prima che incantevoli polveri bianche bruciassero l’ossigeno che danzava intorno a me.

Adesso qualche lamento, niente di ché.

Nulla che mi possa far presentare al bancone del padrone per richiedere la paga, come accadeva allora.

E la pelle che cede il passo al tempo che muore e l’uomo con lui.

Questo sogno è davvero strano, mi tiene qualche passo sopra il pavimento, movimenti leggeri e rapidi, rapaci talvolta, come in preda ad un ebbrezza fantastica che nessuna droga o whisky potrebbe mai darmi.

È l’ebbrezza della mente.

La più pericolosa, la più potente.

Ma in tutto questo la voce non torna, è bella che andata. Lentamente le urla e l’entusiasmo si sono affievoliti fino a scomparire oltre il palco, e l’occhio di bue, ormai cieco, non ha nulla da vedere né mostrare. Hanno spento le luci su di me e lavorano a fondo sulla carcassa, succhiando midollo da ossa ormai in decomposizione.

Altri ventagli sventolanti.

Ho cantato fino a morirne.

Picchia sui tasti di un altro piano, il nostro è scordato, il vino e le tarme rosicchiano le corde, e con loro il ricordo più intenso di quello che è stato.

Meglio lasciare, meglio nascondersi.

Ma avercene di posti in cui nascondersi.

Io ho qualche ricordo che ritorna a me quando più gli pare, qualche ricordo anarchico, fuori controllo. In fondo m’accompagno al nulla. Ne avrei cose da dirvi ma ormai il mio pubblico s’è sparso per altre vie, inseguendo il fighetto alla moda, quello che strimpella canzoni già cantate, quello che zampetta sul palco più di quanto facevo io, almeno crede, quello che più di me inganna.

Ne avrei cose da cantare, ma la musica è cambiata.

Le mie canzoni torneranno a me, al mio melanconico silenzio. Accompagneranno i miei passi in un altro, rinnovato sogno. E forse ad attendermi ci sarà la ragazza tutta tette sode con la candida maglietta attillata, macchiata dalle gocce di gelato che scendono sensuali dal cono estivo, e non la vecchina che denti non ha. E forse guiderà i miei passi il suono vissuto della tromba del vecchio Louis e non il gorgoglio dell’uomo morente. E forse verrà nuovamente a me con la sua voce che sussurrava parole d’amore e qualche rimbrotto che m’avrebbe salvato.

Ma ho amato e vissuto fino a morirne.

In fondo è il mio sogno e non quello d’un altro qualsiasi.

L’incubo d’una vita.

 

“Allora bevi o no?”

“Cos’hai da offrire?”

“Tutto! Tutto quello che vuoi basta che parli! E non continuare a fissarmi con quegli occhi come se volessi chissà cosa da me. Posso solamente darti da bere se ti decidi a chiedere!”

“Sono i miei occhi, non ne ho altri.”

“Allora guarda altrove, ragazzo!”

“L’ho fatto per una vita, e alla fine ci si stanca, t’assicuro.”

“Fatto cosa?”

“Ho guardato oltre.”

“Ah, ah... e sentiamo ... dimmi ragazzo cosa avresti visto in questo tuo altrove?”

“Non scherzare vecchio!”

“Affatto! Non scherzo affatto, su ragazzo dì? Che hai visto?”

“Rigurgiti della pazzia segnare territori invalicabili e colorare bandiere, centinaia e centinaia di bandiere dai mille colori, migliaia di bandiere di nessun colore eppure scintillanti e bell’in vista. Bandiere di cattivo gusto. T’assicuro.”

“Interessante e poi?”

“Donne urlare, urlare a squarciagola in lingue incomprensibili, parole incomprensibili che a detta di chi ha viaggiato con me gridavano una cosa soltanto.”

“E cosa gridavano di così incomprensibile e atroce?”

“Il sangue dei miei figli versato invano. Ecco cosa!”

“Ah, ah, ah, e poi?”

“Non c’è da ridere vecchio!”

“Beh sono anni che lo faccio, e il mio modo di vivere che vuoi farci, e a veder bene io vecchio lo sono diventato ridendo caro mio. Sorrido alla vita ebbene si, e non vedo proprio altro modo di vivere, e tu giovanotto cos’è che hai visto ancora in quel tuo altrove?”

“Case frantumate e tempeste di proiettili sibilanti come folate di vento che attraversavano villaggi inermi.”

“Tutto qui?”

“Ti sembra poco?”

“Figlio mio la realtà offre di più, t’invito a scendere qualche centimetro a terra per tastarne il terreno, la realtà offre molto di più. Altrove, il posto da cui vieni non è poi granché!”

“Ma è il mio sogno!”

“Ce n’è di migliori! Cosa bevi?”

“Forse l’ho già fatto ma non lo ricordo più.”

“A me non sembra, non t’ho portato nulla.”

“Non qui.”

“Ah, ah, l’avrai fatto altrove certo, si, si!”

“Ho bevuto tutto e l’ho fatto altrove.”

“Allora ritornaci che sto perdendo il mio tempo.”

“Ne avessi anch’io da perdere.”

“Lo stai facendo eccome!”

“Non è come credi.”

 

Vorrei averne di tempo da perdere. Il mio è già scaduto, l’ho consumato fino a morirne. Vorrei averne ancora, avere a mia disposizione qualche minuto da spendere, o perdere, sia come, sia. Qualche canzone nuova beh, perché no, mi tormenta da secoli, potrei cantarvela, non è per niente male.

Molto meglio di ciò che si sente in giro.

Datemi un microfono e un palco, non chiedo molto.

 

“Vecchio avresti un microfono?”

“E che cocktail è? Mai sentito!”

“Un microfono, un microfono e un palco.”

“Ah, ah, ah, e ti sembra questo il luogo?”

“Perché no?”

“Figliolo sei capitato in una bettola. Ritorna da dove sei venuto. Ritorna al tuo altrove e guardati in giro. Qui sei in una bettola.”

 

E di bettole ne ho viste tante nella mia vita, stamberghe cariche di viandanti fino a scoppiare, come battelli a vapore, e gente immobile china sulle ginocchia schiacciata dalla propria vergogna. Culi a terra e schiene spezzate, figli del vento evaporati prima dell’ultimo drink. Macchie di luce in desolanti tinture di grigio, speranza andate, mai del tutto afferrate forse, petali di rose marciti su labbra scalfite dall’alcol e la luce del sole che tasta la pelle e non trova nulla.

Meglio lasciare andare.

 

“Che scrivi figliolo?”

“Di me.”

“Ah, e pure del tuo altrove forse?”

“Anche.”

“Sei stato via tanto?”

“Forse non abbastanza.”

“Abbastanza per cosa?”

“Per fare quello che avrei voluto fare.”

“Eh caro mio ascoltami, t’assicuro che non è mai abbastanza. Per tutto. Ti mancherà sempre il tempo per qualcosa, che tu lo voglia o no.”

“E qualcosa mi manca davvero vecchio.”

 

Mio padre era morto che non lo ricordo.

Lavavetri di periferia, all’angolo dei semafori che singhiozzano fumo e ruggine, e indifferenza agli sputi.

La città corre di giorno e di notte dorme. Potessi farlo anch’io.

Ma l’eternità non riposa, t’assilla come un chiodo conficcato sul palmo della mano, e brucia e lacera, ma non muore.

Mio padre si.

Andò via una notte di primavera quando la temperatura s’alza e il vento s’appiccica e non ti lascia che sudore e puzzo d’alcol intorno. La mia prima casa è stata la stamberga che accolse mia madre con le sue doglie e il suo dolore. Sputato al mondo come vino andato a male. Senza padre, né nome. E uno straccio che avvolgeva il cartone di birra arrivato lì, lì che riscalda la prima notte di vita. Quella che non scorderai perché non l’hai vissuta.

Andò via che non ricordo.

Me lo racconta il barista che prese mia madre già il giorno dopo e ne fece la donna delle sue notti. Occhi piccoli e sguardo feroce, mani tozze, forti, nervose, spesso impresse sulle mie guance e stivali che stracciano le mie gracili gambe. E qualche canzone che ancora adesso, in quest’eternità, m’accompagna.

Meglio dimenticare.

 

“Come ti chiami figliolo?”

“Che importa?”

“Beh è buona maniera presentarsi no?”

“A te basta qualche biglietto colorato sbattuto su questo bancone unto, non ti serve il mio nome, il mio nome non paga.”

“Ma a te servirà un maledetto nome o no?”

“Non adesso.”

“In qualche momento allora si?”

“In qualche momento.”

“Dove?”

“Che importa?”

“Per parlare, non vedi gli altri bivaccano sui tavoli sfiancati dal tempo ed io sono qui ad ascoltarti. Se qualcuno m’ascoltasse mi riterrei fortunato. Figliolo considera.”

“Un nome l’ho avuto.”

“Ecco, già è qualcosa. Quale?”

“Eh chi lo ricorda?”

“Come?”

“A caratteri cubitali, in prima pagina, sulle copertine, e locandine che coprivano intere pareti, interi viali, intere città. Il mio nome sbattuto qua e là, così in vista da essere dimenticato.”

“La gente non dimentica.”

“Lo dici tu.”

“Figliolo, la gente non ricorda, ecco il punto, è ben diverso dal dimenticare.”

“Il mio nome l’hanno dimenticato.”

“Non lo ricordano.”

“È lo stesso. Adesso sono tutt’uno con l’eternità. Come vedi ne ho di tempo da spendere, il mio l’ho bruciato in fretta come una sigaretta fumata di nascosto. Posso spendere il tempo di tutti. Comodo no?”

“Sarà, ma sei per sempre quello che il tempo ha fatto di te.”

“Ah si?”

“Direi!”

“Allora un fantasma. Ecco quello che sono.”

“A me sembri più sostanzioso di un fantasma.”

“Un fantasma di ricordi e suoni e acuti persi nel tempo.”

“Tutto in fondo si perde nel tempo.”

“Ecco dici bene, allora a che pro?”

“E perché non il contrario.”

“Cioè?”

“Perché non giocare la mano fino in fondo, sfruttare le possibilità delle tue carte, delle carte che la sorte ha distribuito?”

“Non m’è mai piaciuto quel tavolo da gioco.”

“Ma l’hai frequentato anche tu, e se lo fai perché non farlo al meglio?”

“Ma al meglio di cosa?”

“Delle tue possibilità.”

“Delle mie possibilità che bruceranno nel tempo senza lasciar traccia?”

“È per tutti.”

“Non doveva esserlo per me.”

“Ah, ah, ah.”

“Cos’hai da ridere vecchio.”

“È per tutti.”

“Cos’è per tutti?”

“D’aver paura.”

“Non ho più tempo per aver paura.”

“Ma t’è rimasta la traccia di quella paura.”

“Farnetichi.”

“Sarà, ma a me così sembra.”

“Farnetichi.”

“Eppure sei convinto di venire d’altrove.”

“Vengo da li!”

“Forse avresti dovuto trascorrere più tempo in questo mondo.”

“Ne sarei morto.”

“Lo sarai comunque, ovunque. È per tutti.”

“È per questo che sono fuggito altrove.”

“Non puoi fuggire dalla strada che il tempo ha tracciato per te.”

“Posso provarci almeno.”

“Sarà...”

“L’ho fatto...”

“Ma adesso sei qui. Come tutti. Seduto di fronte al mio bancone con la voglia repressa di un altro sorso del mio whisky comune.”

“Passavo per caso, il tizio m’ha portato qui, non volevo.”

“Quale tizio?”

“Quello che è entrato con me.”

“Io non ho visto nessuno con te.”

“Ma c’era.”

“Sono già secoli che sei li, solo e seduto ad attendere il mio whisky.”

“Ti sbagli, mi confondi con qualcun altro, sono appena arrivato ed ero in compagnia.”

“Figliolo ne ho visti di occhi ma non come i tuoi, i tuoi non li dimentico come credi.”

“Sono occhi comuni, non pensare, occhi con i quali vedere il mondo.”

“Forse perché hai provato a guardare altrove, beh forse è per quello che i tuoi sono marchiati.”

“Marchiati da cosa?”

“Ancora non so è per questo che t’osservo da secoli.”

“Farnetichi vecchio pazzo.”

“Lo credi?”

“Forse.”

 

Da bambino risalivo lungo la collina aldilà di sguardi indiscreti, lontano dalla portata degli stivali del buon Billie che marchiavano le mie natiche. Mi fermavo per ore a fissare le luci sfuggenti della città, mai e per niente immobili, e osservavo. Prima che il sole corresse a nascondersi nella notte, tuffandosi in mare, i colori della metropoli scivolavano verso il grigio inglobando i palazzoni affollati di gente che inseguiva qualche banconota svolazzante. Quei palazzoni così forti delle loro sporche pareti sembravano vacillare, la notte avrebbe potuto inghiottirli, ma la luce dei lampioni li rimetteva in piedi più alti e slanciati che mai.

Correvo lungo la collina con la voglia d’inseguire le folate di vento caldo che schiaffeggiavano i miei pensieri, mai una volta che sia riuscito ad afferrarlo quel maledetto vento, così libero d’andare e sempre senza meta. E ne ho viste di puttane e vergini cavalcate sul bordo della strada e lampi di luce conficcarsi sulle braccia di gracili adolescenti e ne ho tirato fuori di aghi dalle mie.

Da non credere.

Poi ho fermato le mie rincorse e mi sono seduto su una pietra umida.

Sotto la vecchia quercia che di storie da raccontare ne avrebbe se potesse parlare, coperto da quella fronda immobile da secoli, ho fermato per un attimo le folate e sono rimasto quieto ad ascoltare la mia voce. Nell’eco dei passi di automobili rombanti, di ritorno verso casa, al caldo di vogliose e frementi cosce aperte, perdevo la mia voce in gorgheggi che il vento strappava dalle mie labbra senza restituirmeli più. Qualcuno dall’altro capo del mondo avrà ascoltato il mio canto senza sapere di chi fosse quella voce portata dal vento.

 

“Ragazzo cos’è che fai per vivere?”

“O per morire?”

“Ah, ah, ah! Dammi quel bicchiere vuoto che mette tristezza… Allora cos’è che fai?”

“Sono stato un cantante.”

“E adesso non lo sei più?”

“Non più.”

“Perché?”

“La voce m’ha tradito, fottuto, andata con qualcuno più giovane e più aitante di me.”

“Succede. Come con le donne. Quando pensi d’aver raggiunto la serenità, quando pensi d’essere approdato al porto giusto, pronto per ancorare, beh, soltanto allora, quand’hai messo giù i bagagli e il fagotto di memorie che porti con te, t’accorgi che quel porto non fa al caso tuo o peggio ancora l’hanno spostato senza dirti nulla.”

“Proprio così! La voce è una donna, è stata la mia donna per più di vent’anni. Abbiamo condiviso tutto. Fin quando una notte, d’improvviso, m’ha lasciato nudo tra le coperte di qualche alberghetto mordi e fuggi. Nudo come un verme. Ma non puoi immaginare davvero!”

“Cosa?”

“Quello che abbiamo fatto insieme!”

“Allora racconta!”

“Beh tenevamo in pugno la gente. Stava qui, proprio qui sulla mia mano, bastava stringerne il palmo che veniva tutta giù come una pioggia di diamanti. E il cielo l’ho squarciato davvero con la mia voce, ho potuto farlo, farlo davvero, ho sfiorato le sue orecchie senz’alcun risultato, visto che sono qui. E poi la gente e ancora tanta, stringerla in un abbraccio mortale per alcuni secondi, stringerla tutta fino in fondo e sentire il suo canto dentro me.”

“Ne è valsa la pena figliolo, ne è valsa la pena se è come tu dici!”

“Non è stato facile, per niente, non immagini quanti chilometri a perdere, giri intorno alle città che ti chiudevano le porte in faccia, e di soldi giusto per pagarci qualche panino freddo imbottito con salse andate a male, verdognole e così via. Ma ne è valsa la pena, davvero.”

“Non sei poi così sconfitto come dai a credere!”

“Puoi vedermi? Solo con un bicchiere in mano, senza la mia amante, e con qualche parola che gracchia nelle mie orecchie e forse in fondo qualche canzone. Sì, ancora forse ce l’ho, ma pensi comunque che vada alla grande dimmi? Dimmi va alla grande? Guardami?”

“Ne è valsa la pena figliolo.”

“Ma è il passato?”

“Quella malinconia che riemerge con storie andate, se la guardi bene, negli occhi, affondo, figliolo, quella malinconia ti dice che ci sei stato. Davvero credimi ne è valsa la pena.”

“Ma è triste, è una malinconia triste, perdente. Perduta.”

“È un blues piccolo, una voce che s’insinua malinconica tra le note del tuo pianoforte. Adesso ascolta ho qualcosa per te. Vedi in fondo quel juke box? Beh sono secoli che non risuona più, prova ad attaccare la spina.”

“E perché proprio io.”

“Perché era te che aspettava.”

“Non capisco.”

“A volte non è necessario capire, basta agire.”

 

Erano secoli che non agivo. Giorni e giorni. Giorni infiniti senza muovere un dito. Giorni infiniti e infinite notti lasciate scorrere come le lacrime di un bimbo che scendono lente e pesanti sulle gote e nessuna carezza gentile che le cancelli via, almeno per un attimo, quello.

Qualche carezza gentile m’avrebbe risparmiato fredde strisce di polvere e narici fumanti e bicchieri raschiati al fondo. Le coperte mi avvolgono strette e mi nascondono alla luce del sole ma soltanto per poco, che la luce invadente filtrerà da qualche altra parte scoprendomi vivo nella mia inerme nudità.

E il ricordo di lei viene a me, leggero come una foglia che scivola via dal suo ramo, s’avvicina e sussurra parole dolci da sentirle davvero.

Vicine.

Potrei toccarle se solo alzassi le mia braccia, ma l’eternità m’ha fiaccato del tutto. Potrei toccarle, dunque, ma rimango ad ascoltarle, delicate e suadenti, morbide e calde, come le labbra dalle quali nascono, ma è il ricordo di lei, soltanto il suo ricordo che viene a me.

L’ho amata fino a morirne…

 

“Va ragazzo, che aspetti eccolo lì, qualche metro più in là. Ecco, mettilo su, quel disco proprio quello. E voi li sotto che cazzo avete da blaterare, silenzio per favore, continuate nel vostro sordo silenzio!”

“Fanculo!”

“Fottiti e riempimi la brocca idiota”

“Vecchio merdoso dammi da bere e non rompere i coglioni”

“Io ti pago tu mi dai da bere! Niente ordini vecchio! Ho bruciato la mia vita merdosa ad eseguire ordini e qua e là, e spara e scappa, striscia, nasconditi e respira ma non abbastanza da far rumore, urla in silenzio! Che ne sai di ordini ed esecuzioni vecchio merdoso! Dammi da bere e non provare a darmi ordini, è una vita che ne ricevo!”

“Forse non vogliono ascoltare il tuo malinconico blues vecchio mio.”

“A pensarci bene figliolo se tutti avessero ascoltato la musica che volevano Beethoven sarebbe morto in silenzio.”

“Perché dov’è che sta adesso? Requiem.”

“Ah, ah, ah figliolo il silenzio quello li, come altri del resto, l’ha proprio cancellato, credi a me, finché ci sarà qualcuno ad ascoltarlo non sarà morto nel silenzio, il resto è altro e non è per noi.”

“Sarà!?!”

“Allora che aspetti! Ti sei bloccato di nuovo? Ragazzo mio quattro stracotti che imprecano e bestemmiano hanno il potere di fermare i tuoi passi?”

“Beh...”

“Allora va e metti su quel disco.”

“…Another party’s over …”

“Ma… ma…”

“Ma cosa?”

“Quella voce?”

“Sono vecchio si, ma non abbastanza da non sentirci, la sento anch’io caro mio.”

“Io… io la conosco… la conosco quella voce!”

“Ma dimmi un po’ figliolo, è la tua per caso?”

“Si! Almeno credo, si credo sia proprio la mia.”

“Guarda la in fondo, guardali!”

“Chi?”

“I nostri bestemmiatori, guardali che s’alzano e rimettono su il tuo disco. Figliolo mio che ne pensi? Io continuo a dire che ne è valsa la pena, ne è valsa la pena amare fino a morirne.”

© Massimiliano Città





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