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Mario sedeva sul cofano della Panda incurante delle urla che provenivano dalla villetta. Con lo sguardo perso nel cielo tra le lingue di fuoco fumava una sigaretta. La stringeva tra l’indice e il medio in una mano tutta tesa. Non fumava da quando suo padre, tanti anni prima, l’aveva beccato con una sigaretta. L’aveva spedito all’ospedale dove gli avevano piazzato sette punti sulla fronte. Dal tempo dei sette punti fino a qualche ora prima aveva stretto di tutto tra i denti: tappi di penne, rametti di aiuole, stecche da ghiacciolo, chiavi, matite consumate e quant’altro di corto e cilindrico gli era capitato tra le mani. Poi quel pomeriggio Mimì il macellaio l’aveva chiamato per il solito lavoretto e lui, forse per abitudine, forse per paura di deluderlo, gli aveva subito risposto di si. Appena riattaccata la cornetta però si era chiesto che cazzo ci andava più a fare. E così, assalito da una profonda inquietudine, durante la strada si era fermato al primo tabaccaio e aveva comprato il suo primo pacco di sigarette. Marlboro rosse per l’esattezza. Quelle del padre. Nei venti minuti successivi era giunto già a tre sigarette. Avrebbe voluto fumarle tutte prima di iniziare il lavoro. Infatti ne aveva accesa una quarta quando compara Luisa si affacciò per urlargli che era tutto pronto. Mario gettò la sigaretta alle spalle e seguì la donna all’interno. Si arrestò appena oltre la soglia, nel buio, travolto da una tempesta di urla e pianti. Le parole singhiozzanti e straniere di una donna, provenienti da oltre lo spiraglio di luce che avanti a sé squarciava il buio, si incastravano negli incessanti e più vicini gemiti di un neonato. Erano come due melodie che cercavano disperatamente di fondersi in una sola. Compara Luisa, un po’ più avanti alla sua sinistra, gli indicò un vecchio tavolo di legno sul quale era poggiata un cesto di paglia. Mario si lanciò alla volta del tavolo, agguantò il cesto per il manico e dopo un cenno di saluto col capo a compara fuggì via. Non si poteva proprio stare lì dentro. Ma di quell’inferno dovette portarsi una porzione. Il neonato nella cesta continuava a piangere. I suoi gemiti non solo coprivano le urla della donna ma erano così irritanti che li avvertiva sin nello stomaco. Guadagnò l’auto, posò la cesta sul sedile posteriore e partì a fari spenti. Nell’abitacolo i gemiti, amplificati dallo spazio chiuso, gli martellavano il cervello. Pensò però che a breve il piccolo avrebbe smesso di piangere. I movimenti della vecchia Panda l’avrebbero cullato a dovere. Succedeva a tutti così. E così fu.
La strada del destino.
Così la chiamava. Era una via di campagna, ridotta ad un sentiero, lungo la quale non passava mai nessuno. Forse di giorno doveva essere frequentata da contadini, ma alla sera diventava deserta. La faceva più volte in un mese da circa sei mesi. Niente di nuovo a parte il fatto che quello era il primo trasporto da quando sua moglie aveva avuto l’incidente. E non era poco dal momento che i sensi di colpa, come lupi affamati, avevano preso già ad attaccarlo.
Fino alla volta precedente, a mo’ di scudo contro quei lupi maledetti, si era appellato ad una semplice filosofia, così lui la chiamava. Diceva che se non lo avesse fatto lui lo avrebbe fatto qualcun altro. Ed era vero. Quindi meglio lui. Quantomeno la paga serviva a rendere felice un bambino. Uno su mille, cantava Gianni Morandi. Il suo. Ma ora non poteva rifugiarsi nella solita filosofia.
Le cose erano andate in questo modo. Dal giorno in cui si erano sposati Mario e Francesca avevano desiderato un bambino. In dieci anni le avevano provate tutte: dottori, maghi, preghiere a San Giacomo. Ma ogni tentativo era valso a nulla. Di adottarne uno non se ne parlava. Chi avrebbero dovuto adottare. Un negro? Un polacco? O un figlio di puttana, per giunta rumena, come quello che aveva dietro? Niente da fare. E poi lui era figlio unico. Chi altro, se non lui, doveva perpetuare il sangue della famiglia? E poi sin dai primi mesi di matrimonio le parole della vecchia madre gli erano ritornate in mente incessanti: Quando mi dai il nipote? Poi all’improvviso era giunto il miracolo del Signore. Francesca aspettava un figlio. E fu proprio lei a decidere che sarebbe andata ogni giorno in chiesa a rendere grazie al Signore per tutto il tempo della gravidanza. Ma Francesca era una donna grossa. Infatti qualche tempo prima aveva avuto dei seri problemi alle gambe proprio a causa del suo peso. Così al sesto mese, con il pancione ormai evidente, il peso sulle gambe era diventato gravoso. Quel pomeriggio era uscita a far due passi con la sua amica di sempre. Una passeggiata che avevano subito interrotto a causa di un cielo purpureo che dall’alto della sua potenza tuonava tremendi ruggiti. Onde evitare di trovarsi sotto un acquazzone avevano optato per una repentina ritirata. Francesca però, passando avanti alla chiesa, non denigrò l’idea di un furtivo ringraziamento al Signore per rispettare il voto. Con passo affettato prese a salire la scalinata. All’ultimo gradino si sbilanciò all’indietro e rotolò giù.
Silenzio.
Procedeva nel buio a fari spenti, scorgendo i cigli della strada che emergevano dall’oscurità e la pianura deserta che veniva inghiottita dalla notte. Si dice che il territorio delle Murge, in gran parte arido e pianeggiante, sia simile a quello lunare. Ed era vero, specie di notte, quando tutto perde il suo colore originario riducendosi ad un nero insondabile o ad un grigio argentato. La desolazione e la quiete di quel posto gli evocavano tanti pensieri. Nessun uomo è capace di resistere ai pensieri se messo lì, di notte, in piena solitudine. Secondo Mario tutti hanno un destino segnato. Dio assegna un destino ad ognuno di noi e nessuno può opporsi. Il destino dei bambini che portava con sé era quello di finire in una famiglia estranea o di diventare quelli che Mimì chiamava pezzi di ricambio. Ma suo figlio non sarebbe stato certo tra loro e, per di più, fino al trasporto precedente si era convinto che suo figlio avrebbe avuto un grande destino. Ne era stato certo perché se l’era sentito. E per tanto avrebbe fatto di tutto per dare a suo figlio tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno. Deve essere il bambino più felice al mondo, si era ripetuto fino a qualche tempo prima. Doveva avere una bici rosso fiammante, doveva avere la possibilità di studiare, magari, farsi un futuro, doveva avere quelle attenzioni che suo padre non gli aveva mai dato. Ma quella notte a fargli compagnia non ci furono i suoi sogni e i sensi di colpa lo aggredirono come lupi affamati. Avrebbe dovuto rifiutare. Ormai non aveva più un bambino a cui pensare. Né ora né mai. Il dottore era stato chiaro. La caduta aveva combinato un macello nella pancia della moglie a tal punto che non avrebbe più potuto generare figli. Insomma, il suo futuro era andato a farsi friggere e per tanto non ne valeva più la pena di girare di notte per la murgia, con un neonato destinato a diventare figlio o pezzo di ricambio di chissà chi e con un senso di colpa che gli logorava il fegato. Era un lavoro del cazzo e San Giacomo, appiccicato sul cruscotto, lo rimproverava continuamente. Cercava di ignorarlo ma avvertiva il suo sguardo fisso su di sé. Magari lo stava già punendo. Era insopportabile: il suo sguardo gli traforava la pelle e giungeva sin nelle budella dove la gastrite gli provocava un dolore lancinante. Pensò di fermarsi sul ciglio della strada e stracciare l’adesivo. Ma rigettò subito l’idea chiedendo scusa a San Giacomo. Va bene, disse fra sé e sé, Questa è l’ultima. Appena cedo il bambino ai rumeni vado dritto da Mimì e gli dico: Senta, mi dispiace ma non vorrei più fare questo…
Un tonfo e lo scossone della macchina gli spezzò il flusso di pensieri. Quella maledetta strada era tutta piena di fossi! Era stato così concentrato che non aveva più visto la strada. Un istante dopo il bambino scoppiò a piangere. I suoi gemiti esplosero nell’abitacolo insopportabili come prima. Fermò la macchina nel bel mezzo della strada. Tanto chi vuoi che passi adesso, pensò. Uscì nella notte e i gemiti del neonato gli risultarono più sopportabili. Anzi, deliziosi. Prese il bambino dal sedile posteriore e lo tenne come compara Luisa gli aveva insegnato: il braccio piegato e la mano spalancata come a far da culla. Un po’ impacciato e un po’ equilibrista si abbassò, agguantò il biberon sul sedile e lo diede a bere. Il neonato smise all’istante di piangere e il silenzio delle Murge si impose nella notte. Peccato, pensò Mario, Quei gemiti avevano donato un po’ di vita in quel deserto. Tutto intorno a sé, sotto la luce argentea della luna, gli appariva arido e vuoto… arido e vuoto come una donna che non può generare figli. Ma se faceva attenzione poteva scorgere qualche selvaggio filo d’erba che spuntava qua e là. Li intravedeva nella notte, oltre il ciglio della strada, appena scossi dalla brezza notturna. Quindi infondo c’era vita anche nelle Murge. Poi tornò a guardare il piccolo. Gli sorrise e sotto lo sguardo curioso del piccolo, prese a fare le faccine. Alzava le sopracciglia, allargava un buffo sorriso alla maniera di Stanlio, faceva la linguaccia. E’ bello quando c’è vita. Così, per qualche istante, si cullò nell’idea che quello fosse suo figlio. Infondo chi poteva vederlo laggiù. Quando finì, poggiò il bambino sul sedile posteriore e ritornò in macchina. Guardò San Giacomo e decise che quel trasporto sarebbe stato l’ultimo. Chissà, forse quella decisione gli avrebbe purificato l’anima. E magari Dio lo avrebbe premiato. Infondo anche sulla Murgia c’è vita…
Mario fermò l’auto d’avanti ai soliti ruderi. Si trattava di una costruzione quasi cubitale di due piani. Era l’unica struttura grossa della zona. Non era difficile individuarla. Lanciò un’occhiata per assicurarsi che tutto fosse tranquillo. Poi abbandonò la via e prese a procedere sul terreno, lungo il lato del casolare. Avanzò lentamente in modo da non offrire al piccolo nuovi scossoni. Aveva ormai maturato un piede di velluto. Girò l’angolo e come sempre trovò la Fiat Uno. Fermò di fronte alla Uno, tra il casolare e un’altra costruzione più bassa, forse una fattoria dove antichi signori tenevano le bestie. Era un ottimo punto che offriva ripari sia da una parte che dall’altra. Uscì dalla macchina, prese il cesto dal sedile posteriore e con delicatezza si avvicinò alla macchina. Non aveva mai capito di che colore fosse. Passò accanto al finestrino del guidatore e fece un cenno di saluto col capo. Mario non né poteva fare a meno dei saluti. Aprì la portella posteriore e poggiò la cesta. Gettò un’occhiata alle due sagome che, ferme come manichini, se ne stavano come ignari della sua presenza. Rivolse lo sguardo al neonato: Ciao piccolo, farfugliò come ogni volta. Ogni bambino aveva diritto ad un po’ di attenzioni. Chiuse la portella e si riportò nell’auto. Come d’accordo il primo che doveva ripartire doveva essere lui. Fece marcia indietro, lanciò un’ultima occhiata alla Uno e tornò sul viale.
E’ stata l’ultima volta, si ripeté mentre si allontanava dai ruderi. L’aveva promesso a Dio. E a San Giacomo, patrono del suo paese. Mimì doveva trovarsi un altro. Non doveva certo avere dei problemi a trovarlo. Poteva mettere uno di quelli che al tempo gli aveva fottuto il posto da Ferdinando Curzo. Un negro. O un rumeno, o un albanese o un polacco. Tanto ne avevano a disposizione a bizzeffe. Si ricordò il discorso con cui qualche anno prima Ferdinando Curzo l’aveva licenziato dal lavoro nei campi. I negri e i polacchi lavorano il doppio rispetto al migliore dei contadini di queste parti. Gli aveva detto. E vengono pagati la metà. Mi spieghi il motivo per cui io dovrei tenerti ancora qui? E poi aveva continuato. Ma non ti credere che ti lascio senza lavoro, non sono mica un mostro io. E così l’aveva messo a guidare uno dei furgoncini che portavano i negri e i polacchi nei campi. Già, lavorava ancora per Ferdinando Curzo, anche se sotto la gestione di Mimì il macellaio, ma veniva pagato di meno. Assai di meno. Si, era un lavoro leggero, ma non aveva scelto lui di lavorare di meno. Lui voleva una tasca più gonfia e per questo sarebbe stato disposto a spaccarsi le ossa. Fanculo a negri, polacchi e rumeni, che Dio li fulmini! Anche Ferdinando Curzo diceva che quella gente non valeva nulla e per questo andava sfruttata fino all’osso. Specie i negri che, come diceva spesso, gli avevano ucciso il padre in guerra. E se lo dice uno che produce pomodori per tre quarti dell’Italia, se lo dice un sindaco, se lo dice uno che l’aveva accolto meglio di come suo padre aveva mai saputo fare, allora c’è da crederci. Tutte cose giuste. Giustissime! Ma intanto Ferdinando Curzo si arricchiva e chi, precedentemente, aveva dato l’anima per le sue terre, come lui, anziché avere dei premi gli veniva abbassato lo stipendio. Ferdinando Curzo ha ragione su tutto ma su questo no! Glielo devo dire appena…
Un ragazzino con la bicicletta comparve dal nulla. Mario premette con forza istintiva il freno ma il ragazzino scomparve sotto il cofano. NO! Urlò Mario. Si lanciò fuori dalla macchina e si portò avanti tenendosi le mani affogate tra i capelli. Ma avanti alla macchina non c’era nulla. Si inginocchiò e, pensando al peggio, guardò sotto, tra le ruote. Niente. Ritornò in macchina accese le luci e si guardò intorno. Nessuna traccia del ragazzino. Eppure l’aveva visto. Si, era come comparso dal nulla a bordo di una bici rosso fiammante, quella che da piccolo suo padre non gli aveva mai comprato. Sembrava un ragazzino felice. Già… era proprio come si era immaginato suo figlio il giorno in cui Francesca gli aveva dato la notizia. Così, sulla bici rosso fiammeggiante, felice e un po’ pazzerello. Si guardò intorno e la desolazione schiacciata dalla notte lo fece tornare alla realtà. Pensò che negli ultimi tempi aveva dormito poco. Entrò in auto e appoggiò il capo allo schienale. Quella storia gli aveva fatto salire il cuore in gola! Ma lì, sotto la luce accesa del cruscotto, uno sguardo tornò a bersagliarlo. Guardò San Giacomo e deglutì. Ti prego, disse, Credimi. E’ stata l’ultima volta! Poi prelevò una sigaretta dal pacco sul cruscotto e l’accese.
©
Gianpaolo Roselli
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