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La telefonata, naturalmente, arriva nel momento meno appropriato, odio essere chiamato per lavoro quando me ne sto da solo nel mio rifugio a Varenna. Non che qua io mi diletti con chissà quali passatempi, ma insomma, questo è il mio spazio vitale. Cerco di tenere tutti lontano, al punto che pochi sanno che abito qui e quelli che conosco sul posto non sanno nemmeno che lavoro faccio. Ma il telefono, quello no, di quello non posso fare a meno. Soprattutto quando chi chiama è Domenico. Non è tanto perché mi ha tirato fuori dai guai, anni fa, certo anche per quello, ma è che se lui mi chiama, quando sa che me ne sto in pace a casa mia, vuol dire che è successo qualcosa di grosso. Sono a Varenna solo nel finesettimana, dal Venerdì pomeriggio al Lunedì mattina, e in tanti anni credo che Domenico Costa mi abbia chiamato solo un paio di volte, mentre ero qui. In genere, visto che trattiamo questioni assicurative, le nostre indagini possono aspettare che arrivi il Lunedì. La maggior parte delle volte, almeno. Ma non questa, a quanto pare. Così, sono appena tornato dai mie cinque chilometri di jogging attorno al lago e sto già pregustando una doccia bollente, seguita da cena scaldata al microonde e dalla visione di Fronte del Porto, che è già lì, pronto nel videoregistratore. No, non ditemelo, vi prego. Esistono altri sistemi, lo so. Ma vedete, io sono un patito di film noir, si trovano solo su VHS e non mi importa se è superato da chissà quali diavolerie elettroniche. I film sono antichi, antico deve essere il riproduttore. Almeno secondo me. Come che sia, però, i miei programmi devono essere rimandati, il telefono squilla e se Domenico mi chiama nel weekend, a questo punto, voglio proprio sapere perché.
Quello che sento però non mi piace. Una giovane famiglia è stata brutalmente sterminata in un casale d’epoca sul lago, poco lontano da qui, a Bellagio. Ora, George Clooney a parte, se c’è un posto meno lontano dal concetto di violenza è proprio questo. Sulle rive del lago di Como, che io sappia, il tasso di delinquenza è prossimo allo zero. Che diavolo, perfino le turiste distratte che dimenticano la borsetta sul traghetto, vengono rintracciate in albergo e prontamente reintegrate dei beni perduti, con tanti ringraziamenti da parte della Pro Loco e le scuse ufficiali del Sindaco. Dunque, non so se siete mai stati da queste parti, ma dire che è un posto da pensionati è dire poco. È il classico luogo di vacanza dove ti vieni a riposare quando non hai voglia di pensare a niente e a nessuno. Qui, se vuoi, trovi tutta la tranquillità che ti serve, giacché, escluso il via vai, si fa per dire, dei traghetti sulle acque ferme del lago, ci sono solo un paio di strade, qualche negozio, la passeggiata panoramica e niente di più. Insomma è un posto dove i marciapiedi vengono arrotolati al tramonto, tanto per capirci.
Che ci sia stata una strage mi sembra ancora impossibile, ma, visto che sono qui, penso che sia il caso di muovermi e di andare a controllare di persona. È autunno, tra l’altro, non certo la stagione adatta per rintanarsi nella casa al lago, se uno viene da Milano. Infatti le vittime non sono di qui. È la prima cosa che vengo a sapere quando giungo sul posto e mi imbatto nel solito capannello di curiosi. Anche i vicini, qui, sono diversi. Se ne stanno fuori dal cancello, rispettosi dei rapporti di buon vicinato, quasi timorosi di invadere la privacy di quei poveri morti. Come se, anche da morti, si avesse diritto allo stesso rispetto dovuto ai vivi. Non è che sia una filosofia sbagliata ma, per intendersi, un pensiero del genere, in un condominio di Milano, sarebbe del tutto inapplicabile, per non dire inconcepibile. Una famiglia normale, mi dicono, normalissima. Madre divorziata, due figli adolescenti, un casale di quelli di una volta, interamente in pietra, mollemente poggiato su un declivio che offre una vista spettacolare del lago. Vengono sempre qui a passare le vacanze, sento raccontare, ma vivono a Milano. Però hanno questa casa da sempre, tanto che in paese la chiesa ha anche un banco col loro nome inciso. Domando se vale parecchio, un casale vista lago col suo appezzamento di terra. Mi guardano male, come se parlare di queste cose sia inappropriato in un momento del genere, ma poi alfine si risolvono a rispondermi. “Vendere?” - mi dicono - “Ma quando mai. Loro no. Indipendentemente dal prezzo, non avrebbero venduto mai. Non le due sorelle, certo. Forse, chissà, i loro mariti avrebbero anche voluto, ma loro no. Loro, erano figlie del Gilardoni.” Lo ripetono più volte, con la tranquilla sicurezza di chi sa quello che dice, il problema è che forse sono io a non capire. Pazienza, indagherò. In fondo è il mio mestiere.
La scena del crimine ve la risparmio, perché pare che madre e figlio siano stati colpiti niente di meno che da un fucile a pallettoni, mentre dormivano nei letti gemelli, in camera da letto. I carabinieri mi dicono che c’era sangue perfino sul soffitto. Ma i vicini, discreti, parlano d’altro. Il riscaldamento costa, mormorano compunti, per farmi capire perché madre e figlio dormissero insieme in cameretta. Già. Lo capisco da me, un casale vecchio come quello deve per forza essere pieno di spifferi e richiedere un mezzo patrimonio per la manutenzione. Quanto a riscaldarlo poi … non ne parliamo. “Ma loro non avrebbero venduto, sono figlie del Gilardoni.” Il concetto ritorna, insistente. Allora domando, ma Gilardoni chi? Non l’avessi mai fatto. È tutto un profluvio di chiacchiere adesso. Ma come, non lo so? Il Gilardoni che una volta faceva il mezzadro, poi è diventato padrone. Sono lievemente allibito. Il mezzadro? Nel ventunesimo secolo? Poi riesco a capire che si parla di varie generazioni di Gilardoni, ma il concetto chiave è che il nonno del nonno del trisavolo, o roba del genere, si è riscattato faticosamente dalla posizione di mezzadro acquistando la casa padronale. Questo è un posto dove il valore del lavoro duro viene rispettato, sempre, non per nulla siamo così vicini alla Svizzera. Ecco perché, mi spiegano pazienti, con la cortesia che si usa con i forestieri, i ritardati e i duri d’orecchio, i Gilardoni futuri, non avrebbero mai acconsentito a vendere. Vogliamo scherzare? C’è in gioco l’onore di un trisavolo che, come minimo, sarà morto da almeno duecentocinquanta anni. Io queste cose, ve lo giuro, non le capisco. Ma ai vecchietti del paese a quanto pare sembra un discorso sensato. Mi riprometto di indagare ulteriormente e vado avanti ad ascoltare discorsi. Si scopre che le figlie sono due, stanno entrambe a Milano, una ha divorziato, mica colpa sua, sono cose che capitano mi dicono, l’altra no. Una sta a Melegnano, l’altra a Milano in una zona elegante, un quartiere nuovo, ma non si ricordano bene il nome … Sì ma qual è quella che è morta col figlio, domando, perché confesso che sto cominciando a perdermi. Ma quella divorziata, mi dicono, lei, appena poteva veniva subito qui. Oh bene, penso tra me, finalmente si apre uno spiraglio. Forse se scopro i nomi delle due sorelle Gilardoni riesco a venirne fuori, ma m’illudo, peggio che andar di notte. Vien fuori che papà Gilardoni mentre attendeva che la moglie partorisse leggeva la Bibbia, pronto a scegliere il nome in base alla pagina in cui si trovava. Solo che nacquero due gemelle, che, giustamente, furono chiamate Maria Maddalena e Maddalena Maria. Bel capolavoro. So già che non mi ci raccapezzerò mai. Comunque sia Maddalena Maria è quella che è morta, questo pare certo, con suo figlio Saul. Eccone un’altra con la passione religiosa, a quanto pare. Scampata al massacro l’altra figlia. Tremo solo al pensiero di chiedere il nome, ma devo. Non vengo deluso quando appuro che la miracolata, giustappunto, si chiama Esther. Beh, poteva andar peggio. Si è salvata perché era a casa sua, a Milano, stava studiando per gli esami, per lei niente vacanza nel fine settimana. Mi incuriosisco e domando se capitava spesso, mi dicono di no, venivano sempre tutti insieme. Tranne questa volta. Chi è stato, secondo loro? Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Ma quelli non rispondono, dalle facce si capisce che secondo loro nessuno può aver ucciso nessuno, non da quella parti almeno. Eppure qualcuno è morto.
Le indagini, obbligatoriamente, si spostano a Milano. I carabinieri di Bellagio mi hanno già detto che, al di là di una rapina finita male, altro non riescono a pensare. Nemmeno io, tutto sommato. Solo che Maddalena Maria, donna previdente, ha stipulato fin dal giorno della nascita dei figli, di ogni figlio, due assicurazioni distinte sulla vita. Ora che sia lei che Saul sono morti, l’unica beneficiaria è Esther. La bella Esther? Sono roso dalla curiosità quando suono il campanello di una grande villa fuori città. Ancora minorenne, Esther ora vive con il padre e sua moglie. La quale, quando mi viene ad aprire, è bella sul serio. Molto meno Esther, che sembra tanto un cane bastonato, frangetta dentro agli occhi, unghie rosicchiate a sangue, maglione lungo e informe, sguardo sfuggente. Diagnostico una sindrome adolescenziale e lascio correre … mai interrogare un minorenne senza il suo avvocato, comunque. Meno che mai un minorenne fresco di lutto. Così mi concentro sui due adulti, ma anche lì non è mica facile. In un salone che sarà duecento metri di larghezza otto di altezza per almeno cinquantamila euro di arredamento, ci sono, in ordine sparso, una giovane moglie, un marito radioso, tre bambini di età variabile, un cane che sembra un cavallo e una governante filippina di età indefinibile che ha stampato sul volto un sorriso buddista che non scompare mai. Il caos è indescrivibile. Il maschietto avrà forse otto anni, le bambine seguono a scala, almeno mi pare, non sono quello che si dice un esperto. I genitori devono essere montessoriani perché parlano tranquillamente di morti ammazzati senza preoccuparsi della presenza dei piccoli. La colf filippina che, se vi interessa, si chiama Armonia, secondo me non capisce una parola ed è meglio così. Il bambino allunga le orecchie appena capisce che sono una specie di detective. -Come quelli alla televisione? - mi chiede.
-Sì – rispondo – una specie.
-Ce l’hai la pistola?
Al mio cenno di diniego, mi scruta sospettoso perché, è chiaro, sta meditando di perquisirmi.
-Hai mai ucciso qualcuno?
Faccio ancora di no con la testa. Non sono preparato, lo ammetto. Ma lui persevera.
-Hai mai ucciso un Rex?
A questo punto, disperato, chiedo aiuto ai genitori, perché il cane cavallo mi pare che si chiami appunto Rex, e non vorrei mai essere sospettato di azioni antianimaliste. I due mi rassicurano, sempre più serafici. Pare che il piccolo abbia la fissazione di fare il paleontologo da grande, loro ovviamente, da bravi montessoriani, lo assecondano. Per questo il cane si chiama Rex, ma quello che il piccolo vuol sapere è se ho mai ucciso un Tirannosauro Rex. Ora che ho capito, resto ancora più disorientato.
-No - rispondo, pensando che la resa è sempre la miglior difesa. Infatti il bambino mi guarda schifato, chiaramente deluso da tanta incapacità e si disinteressa di me. Al grido “Dinosauro Cattivo” si lancia sul cane cavallo che all’istante si getta a terra a pancia all’aria, dimena le zampe, sporge la lingua e si mette a fare il morto, con grande delizia delle bambine che gli saltano addosso e cominciano ad aprirgli le mascelle infilandoci la testa dentro. I genitori non fanno una piega, la colf filippina nemmeno, mentre il piccolo paleontologo decreta, con fare professionale: “Ecco, finalmente si è estinto”. Confesso di essere poco portato per queste cose, preferisco restare sul mio campo, così chiedo ai due montessoriani se possiamo magari parlare tranquilli da qualche parte. Scavalchiamo il cane cavallo, cioè il dinosauro morto, e ci ritiriamo in cucina, scusate, voglio dire in una specie di sala da biliardo dove il tavolo di quercia è stile fratino e conta, così a occhio, almeno trecentoventidue posti a sedere, ma di quelli larghi. Ci sistemiamo come i castellani di una volta, loro due a un capo della tavola, io dall’altra, che quasi per parlare ci serve un megafono. Mi pare chiaro, che se avessi voluto sospettare l’ex marito di aver soppresso Maddalena Maria per mettere le mani sull’assicurazione, come tutore della minorenne Esther, mi conviene cambiar strada. A parte che per farlo avrebbe dovuto uccidere anche suo figlio, è evidente che questo qui di soldi davvero non ne ha bisogno. A meno che non decida di far diventare la sala da biliardo, pardon, la cucina, che so io, un campo da calcio. Poiché questa sembra un’ipotesi remota, comincio a sparare domande a casaccio. Il casale, l’assicurazione, i rapporti tra loro e la defunta, i rapporti con i figli di primo letto, il carattere di questi. Vien fuori quello che mi potevo aspettare. Legatissime al casale le due gemelle, Maddalena Maria e Maria Maddalena, non avrebbero mai venduto, in parte per motivi affettivi, in parte perché non ne avevano bisogno. Ma quella più attaccata alle tradizioni era Maddalena Maria che, anni fa, aveva addirittura liquidato alla sorella, ovviamente in contanti, la sua parte, anche se questo, mi dicono, non lo sapeva nessuno. Perché, domando? Aveva paura che la sorella si sentisse costretta a rispettare una specie di impegno forzato, liquidando la sua parte era sicura di poter decidere da sola senza costringere nessuno. L’aveva pagato il giusto? E come no, super liquidato, addirittura, in più la sorella ci poteva andare tutte le volte che voleva, il casale era lì apposta. Apparteneva ai Gilardoni, dopotutto. Già di questa storia non ne posso più, ma continuo a domandare. Nonostante sia chiaro: nessun dubbio, nessuna contestazione, nessun litigio, nessun conflitto di interessi. Solo un altro movente che scivola via. L’assicurazione, domando? Lui non ne sapeva niente, mi dice, ma Maddalena Maria era una precisetta. Ci teneva che tutto fosse in ordine, normale che abbia stipulato un contratto assicurativo. Lui come beneficiario? Ma vogliamo scherzare? Che bisogno c’era? Già, mi trovo a domandarmi da solo, mentre scruto il riflesso della piscina olimpionica che se ne sta sola in mezzo a un prato tale che ci si potrebbe giocare il prossimo Super Bowl. Allora, mi chiedono i montessoriani, chi può essere stato? Bella domanda, gente. I soliti ignoti? Gli slavi che hanno tentato una rapina, magari. Certo, come no, rapinatori slavi che se ne vanno in giro con un fucile a canne mozze. Proprio. Non ci credo, ma provo a domandare. Rancori, vendette, ruggini secolari? Ma contro chi? Sembrano stupiti. Maddalena Maria? Ma quando mai … Già, quando mai. Le stesse risposte che ho sentito dappertutto. In azienda, dai vicini di Milano, dai vecchi di Bellagio, dai familiari, dai parenti. Che rimane? Com’era Maddalena Maria, personalmente? Perfetta, mi dicono. Di bene in meglio. Fisicamente, allora? Molto bella, rispondono. Ancora … Ma allora, mi viene il dubbio, lui perché ha divorziato? È una domanda inutile però, conosco già la risposta. Troppo perfetta. Ripenso ad Esther. Le unghie rosicchiate fino all’osso, la figura goffa incartata in quel maglione sformato, la frangia dentro agli occhi, l’andatura schiva di chi è già rassegnato alla disfatta ancor prima di aver cominciato a lottare. Bastano una cucina grande come una sala da biliardo e un prato che somiglia a un campo da football, per compensare il senso ineluttabile della sconfitta, quando non si può competere con una madre così perfetta? E Saul, voi mi direte? Beh, povero caro, forse era troppo perfetto anche lui.
Il mio lavoro è finito, di quanto diranno gli psicologi mi importa poco, quello che conta è che l’assicurazione non paga, se c’è dolo. Ed io, quando c’è dolo, lo trovo sempre. Andando via da questa casa che sembra il paese delle meraviglie però, una cosa sola mi chiedo. Ma Esther, da piccola, avrà mai giocato con un cane cavallo sul tappeto di casa, gridando “dinosauro cattivo” e sognando di fare il paleontologo? Credo di no, c’è gente che nasce già annientata. Ma non sempre paga da sola. A volte, nella discesa, porta con sé anche gli altri.
La telefonata, naturalmente, arriva nel momento meno appropriato, odio essere chiamato per lavoro quando me ne sto da solo nel mio rifugio a Varenna. Non che qua io mi diletti con chissà quali passatempi, ma insomma, questo è il mio spazio vitale. Cerco di tenere tutti lontano, al punto che pochi sanno che abito qui e quelli che conosco sul posto non sanno nemmeno che lavoro faccio. Ma il telefono, quello no, di quello non posso fare a meno. Soprattutto quando chi chiama è Domenico. Non è tanto perché mi ha tirato fuori dai guai, anni fa, certo anche per quello, ma è che se lui mi chiama, quando sa che me ne sto in pace a casa mia, vuol dire che è successo qualcosa di grosso. Sono a Varenna solo nel finesettimana, dal Venerdì pomeriggio al Lunedì mattina, e in tanti anni credo che Domenico Costa mi abbia chiamato solo un paio di volte, mentre ero qui. In genere, visto che trattiamo questioni assicurative, le nostre indagini possono aspettare che arrivi il Lunedì. La maggior parte delle volte, almeno. Ma non questa, a quanto pare. Così, sono appena tornato dai mie cinque chilometri di jogging attorno al lago e sto già pregustando una doccia bollente, seguita da cena scaldata al microonde e dalla visione di Fronte del Porto, che è già lì, pronto nel videoregistratore. No, non ditemelo, vi prego. Esistono altri sistemi, lo so. Ma vedete, io sono un patito di film noir, si trovano solo su VHS e non mi importa se è superato da chissà quali diavolerie elettroniche. I film sono antichi, antico deve essere il riproduttore. Almeno secondo me. Come che sia, però, i miei programmi devono essere rimandati, il telefono squilla e se Domenico mi chiama nel weekend, a questo punto, voglio proprio sapere perché.
Quello che sento però non mi piace. Una giovane famiglia è stata brutalmente sterminata in un casale d’epoca sul lago, poco lontano da qui, a Bellagio. Ora, George Clooney a parte, se c’è un posto meno lontano dal concetto di violenza è proprio questo. Sulle rive del lago di Como, che io sappia, il tasso di delinquenza è prossimo allo zero. Che diavolo, perfino le turiste distratte che dimenticano la borsetta sul traghetto, vengono rintracciate in albergo e prontamente reintegrate dei beni perduti, con tanti ringraziamenti da parte della Pro Loco e le scuse ufficiali del Sindaco. Dunque, non so se siete mai stati da queste parti, ma dire che è un posto da pensionati è dire poco. È il classico luogo di vacanza dove ti vieni a riposare quando non hai voglia di pensare a niente e a nessuno. Qui, se vuoi, trovi tutta la tranquillità che ti serve, giacché, escluso il via vai, si fa per dire, dei traghetti sulle acque ferme del lago, ci sono solo un paio di strade, qualche negozio, la passeggiata panoramica e niente di più. Insomma è un posto dove i marciapiedi vengono arrotolati al tramonto, tanto per capirci.
Che ci sia stata una strage mi sembra ancora impossibile, ma, visto che sono qui, penso che sia il caso di muovermi e di andare a controllare di persona. È autunno, tra l’altro, non certo la stagione adatta per rintanarsi nella casa al lago, se uno viene da Milano. Infatti le vittime non sono di qui. È la prima cosa che vengo a sapere quando giungo sul posto e mi imbatto nel solito capannello di curiosi. Anche i vicini, qui, sono diversi. Se ne stanno fuori dal cancello, rispettosi dei rapporti di buon vicinato, quasi timorosi di invadere la privacy di quei poveri morti. Come se, anche da morti, si avesse diritto allo stesso rispetto dovuto ai vivi. Non è che sia una filosofia sbagliata ma, per intendersi, un pensiero del genere, in un condominio di Milano, sarebbe del tutto inapplicabile, per non dire inconcepibile. Una famiglia normale, mi dicono, normalissima. Madre divorziata, due figli adolescenti, un casale di quelli di una volta, interamente in pietra, mollemente poggiato su un declivio che offre una vista spettacolare del lago. Vengono sempre qui a passare le vacanze, sento raccontare, ma vivono a Milano. Però hanno questa casa da sempre, tanto che in paese la chiesa ha anche un banco col loro nome inciso. Domando se vale parecchio, un casale vista lago col suo appezzamento di terra. Mi guardano male, come se parlare di queste cose sia inappropriato in un momento del genere, ma poi alfine si risolvono a rispondermi. “Vendere?” - mi dicono - “Ma quando mai. Loro no. Indipendentemente dal prezzo, non avrebbero venduto mai. Non le due sorelle, certo. Forse, chissà, i loro mariti avrebbero anche voluto, ma loro no. Loro, erano figlie del Gilardoni.” Lo ripetono più volte, con la tranquilla sicurezza di chi sa quello che dice, il problema è che forse sono io a non capire. Pazienza, indagherò. In fondo è il mio mestiere.
La scena del crimine ve la risparmio, perché pare che madre e figlio siano stati colpiti niente di meno che da un fucile a pallettoni, mentre dormivano nei letti gemelli, in camera da letto. I carabinieri mi dicono che c’era sangue perfino sul soffitto. Ma i vicini, discreti, parlano d’altro. Il riscaldamento costa, mormorano compunti, per farmi capire perché madre e figlio dormissero insieme in cameretta. Già. Lo capisco da me, un casale vecchio come quello deve per forza essere pieno di spifferi e richiedere un mezzo patrimonio per la manutenzione. Quanto a riscaldarlo poi … non ne parliamo. “Ma loro non avrebbero venduto, sono figlie del Gilardoni.” Il concetto ritorna, insistente. Allora domando, ma Gilardoni chi? Non l’avessi mai fatto. È tutto un profluvio di chiacchiere adesso. Ma come, non lo so? Il Gilardoni che una volta faceva il mezzadro, poi è diventato padrone. Sono lievemente allibito. Il mezzadro? Nel ventunesimo secolo? Poi riesco a capire che si parla di varie generazioni di Gilardoni, ma il concetto chiave è che il nonno del nonno del trisavolo, o roba del genere, si è riscattato faticosamente dalla posizione di mezzadro acquistando la casa padronale. Questo è un posto dove il valore del lavoro duro viene rispettato, sempre, non per nulla siamo così vicini alla Svizzera. Ecco perché, mi spiegano pazienti, con la cortesia che si usa con i forestieri, i ritardati e i duri d’orecchio, i Gilardoni futuri, non avrebbero mai acconsentito a vendere. Vogliamo scherzare? C’è in gioco l’onore di un trisavolo che, come minimo, sarà morto da almeno duecentocinquanta anni. Io queste cose, ve lo giuro, non le capisco. Ma ai vecchietti del paese a quanto pare sembra un discorso sensato. Mi riprometto di indagare ulteriormente e vado avanti ad ascoltare discorsi. Si scopre che le figlie sono due, stanno entrambe a Milano, una ha divorziato, mica colpa sua, sono cose che capitano mi dicono, l’altra no. Una sta a Melegnano, l’altra a Milano in una zona elegante, un quartiere nuovo, ma non si ricordano bene il nome … Sì ma qual è quella che è morta col figlio, domando, perché confesso che sto cominciando a perdermi. Ma quella divorziata, mi dicono, lei, appena poteva veniva subito qui. Oh bene, penso tra me, finalmente si apre uno spiraglio. Forse se scopro i nomi delle due sorelle Gilardoni riesco a venirne fuori, ma m’illudo, peggio che andar di notte. Vien fuori che papà Gilardoni mentre attendeva che la moglie partorisse leggeva la Bibbia, pronto a scegliere il nome in base alla pagina in cui si trovava. Solo che nacquero due gemelle, che, giustamente, furono chiamate Maria Maddalena e Maddalena Maria. Bel capolavoro. So già che non mi ci raccapezzerò mai. Comunque sia Maddalena Maria è quella che è morta, questo pare certo, con suo figlio Saul. Eccone un’altra con la passione religiosa, a quanto pare. Scampata al massacro l’altra figlia. Tremo solo al pensiero di chiedere il nome, ma devo. Non vengo deluso quando appuro che la miracolata, giustappunto, si chiama Esther. Beh, poteva andar peggio. Si è salvata perché era a casa sua, a Milano, stava studiando per gli esami, per lei niente vacanza nel fine settimana. Mi incuriosisco e domando se capitava spesso, mi dicono di no, venivano sempre tutti insieme. Tranne questa volta. Chi è stato, secondo loro? Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Ma quelli non rispondono, dalle facce si capisce che secondo loro nessuno può aver ucciso nessuno, non da quella parti almeno. Eppure qualcuno è morto.
Le indagini, obbligatoriamente, si spostano a Milano. I carabinieri di Bellagio mi hanno già detto che, al di là di una rapina finita male, altro non riescono a pensare. Nemmeno io, tutto sommato. Solo che Maddalena Maria, donna previdente, ha stipulato fin dal giorno della nascita dei figli, di ogni figlio, due assicurazioni distinte sulla vita. Ora che sia lei che Saul sono morti, l’unica beneficiaria è Esther. La bella Esther? Sono roso dalla curiosità quando suono il campanello di una grande villa fuori città. Ancora minorenne, Esther ora vive con il padre e sua moglie. La quale, quando mi viene ad aprire, è bella sul serio. Molto meno Esther, che sembra tanto un cane bastonato, frangetta dentro agli occhi, unghie rosicchiate a sangue, maglione lungo e informe, sguardo sfuggente. Diagnostico una sindrome adolescenziale e lascio correre … mai interrogare un minorenne senza il suo avvocato, comunque. Meno che mai un minorenne fresco di lutto. Così mi concentro sui due adulti, ma anche lì non è mica facile. In un salone che sarà duecento metri di larghezza otto di altezza per almeno cinquantamila euro di arredamento, ci sono, in ordine sparso, una giovane moglie, un marito radioso, tre bambini di età variabile, un cane che sembra un cavallo e una governante filippina di età indefinibile che ha stampato sul volto un sorriso buddista che non scompare mai. Il caos è indescrivibile. Il maschietto avrà forse otto anni, le bambine seguono a scala, almeno mi pare, non sono quello che si dice un esperto. I genitori devono essere montessoriani perché parlano tranquillamente di morti ammazzati senza preoccuparsi della presenza dei piccoli. La colf filippina che, se vi interessa, si chiama Armonia, secondo me non capisce una parola ed è meglio così. Il bambino allunga le orecchie appena capisce che sono una specie di detective. -Come quelli alla televisione? - mi chiede.
-Sì – rispondo – una specie.
-Ce l’hai la pistola?
Al mio cenno di diniego, mi scruta sospettoso perché, è chiaro, sta meditando di perquisirmi.
-Hai mai ucciso qualcuno?
Faccio ancora di no con la testa. Non sono preparato, lo ammetto. Ma lui persevera.
-Hai mai ucciso un Rex?
A questo punto, disperato, chiedo aiuto ai genitori, perché il cane cavallo mi pare che si chiami appunto Rex, e non vorrei mai essere sospettato di azioni antianimaliste. I due mi rassicurano, sempre più serafici. Pare che il piccolo abbia la fissazione di fare il paleontologo da grande, loro ovviamente, da bravi montessoriani, lo assecondano. Per questo il cane si chiama Rex, ma quello che il piccolo vuol sapere è se ho mai ucciso un Tirannosauro Rex. Ora che ho capito, resto ancora più disorientato.
-No - rispondo, pensando che la resa è sempre la miglior difesa. Infatti il bambino mi guarda schifato, chiaramente deluso da tanta incapacità e si disinteressa di me. Al grido “Dinosauro Cattivo” si lancia sul cane cavallo che all’istante si getta a terra a pancia all’aria, dimena le zampe, sporge la lingua e si mette a fare il morto, con grande delizia delle bambine che gli saltano addosso e cominciano ad aprirgli le mascelle infilandoci la testa dentro. I genitori non fanno una piega, la colf filippina nemmeno, mentre il piccolo paleontologo decreta, con fare professionale: “Ecco, finalmente si è estinto”. Confesso di essere poco portato per queste cose, preferisco restare sul mio campo, così chiedo ai due montessoriani se possiamo magari parlare tranquilli da qualche parte. Scavalchiamo il cane cavallo, cioè il dinosauro morto, e ci ritiriamo in cucina, scusate, voglio dire in una specie di sala da biliardo dove il tavolo di quercia è stile fratino e conta, così a occhio, almeno trecentoventidue posti a sedere, ma di quelli larghi. Ci sistemiamo come i castellani di una volta, loro due a un capo della tavola, io dall’altra, che quasi per parlare ci serve un megafono. Mi pare chiaro, che se avessi voluto sospettare l’ex marito di aver soppresso Maddalena Maria per mettere le mani sull’assicurazione, come tutore della minorenne Esther, mi conviene cambiar strada. A parte che per farlo avrebbe dovuto uccidere anche suo figlio, è evidente che questo qui di soldi davvero non ne ha bisogno. A meno che non decida di far diventare la sala da biliardo, pardon, la cucina, che so io, un campo da calcio. Poiché questa sembra un’ipotesi remota, comincio a sparare domande a casaccio. Il casale, l’assicurazione, i rapporti tra loro e la defunta, i rapporti con i figli di primo letto, il carattere di questi. Vien fuori quello che mi potevo aspettare. Legatissime al casale le due gemelle, Maddalena Maria e Maria Maddalena, non avrebbero mai venduto, in parte per motivi affettivi, in parte perché non ne avevano bisogno. Ma quella più attaccata alle tradizioni era Maddalena Maria che, anni fa, aveva addirittura liquidato alla sorella, ovviamente in contanti, la sua parte, anche se questo, mi dicono, non lo sapeva nessuno. Perché, domando? Aveva paura che la sorella si sentisse costretta a rispettare una specie di impegno forzato, liquidando la sua parte era sicura di poter decidere da sola senza costringere nessuno. L’aveva pagato il giusto? E come no, super liquidato, addirittura, in più la sorella ci poteva andare tutte le volte che voleva, il casale era lì apposta. Apparteneva ai Gilardoni, dopotutto. Già di questa storia non ne posso più, ma continuo a domandare. Nonostante sia chiaro: nessun dubbio, nessuna contestazione, nessun litigio, nessun conflitto di interessi. Solo un altro movente che scivola via. L’assicurazione, domando? Lui non ne sapeva niente, mi dice, ma Maddalena Maria era una precisetta. Ci teneva che tutto fosse in ordine, normale che abbia stipulato un contratto assicurativo. Lui come beneficiario? Ma vogliamo scherzare? Che bisogno c’era? Già, mi trovo a domandarmi da solo, mentre scruto il riflesso della piscina olimpionica che se ne sta sola in mezzo a un prato tale che ci si potrebbe giocare il prossimo Super Bowl. Allora, mi chiedono i montessoriani, chi può essere stato? Bella domanda, gente. I soliti ignoti? Gli slavi che hanno tentato una rapina, magari. Certo, come no, rapinatori slavi che se ne vanno in giro con un fucile a canne mozze. Proprio. Non ci credo, ma provo a domandare. Rancori, vendette, ruggini secolari? Ma contro chi? Sembrano stupiti. Maddalena Maria? Ma quando mai … Già, quando mai. Le stesse risposte che ho sentito dappertutto. In azienda, dai vicini di Milano, dai vecchi di Bellagio, dai familiari, dai parenti. Che rimane? Com’era Maddalena Maria, personalmente? Perfetta, mi dicono. Di bene in meglio. Fisicamente, allora? Molto bella, rispondono. Ancora … Ma allora, mi viene il dubbio, lui perché ha divorziato? È una domanda inutile però, conosco già la risposta. Troppo perfetta. Ripenso ad Esther. Le unghie rosicchiate fino all’osso, la figura goffa incartata in quel maglione sformato, la frangia dentro agli occhi, l’andatura schiva di chi è già rassegnato alla disfatta ancor prima di aver cominciato a lottare. Bastano una cucina grande come una sala da biliardo e un prato che somiglia a un campo da football, per compensare il senso ineluttabile della sconfitta, quando non si può competere con una madre così perfetta? E Saul, voi mi direte? Beh, povero caro, forse era troppo perfetto anche lui.
Il mio lavoro è finito, di quanto diranno gli psicologi mi importa poco, quello che conta è che l’assicurazione non paga, se c’è dolo. Ed io, quando c’è dolo, lo trovo sempre. Andando via da questa casa che sembra il paese delle meraviglie però, una cosa sola mi chiedo. Ma Esther, da piccola, avrà mai giocato con un cane cavallo sul tappeto di casa, gridando “dinosauro cattivo” e sognando di fare il paleontologo? Credo di no, c’è gente che nasce già annientata. Ma non sempre paga da sola. A volte, nella discesa, porta con sé anche gli altri.
La telefonata, naturalmente, arriva nel momento meno appropriato, odio essere chiamato per lavoro quando me ne sto da solo nel mio rifugio a Varenna. Non che qua io mi diletti con chissà quali passatempi, ma insomma, questo è il mio spazio vitale. Cerco di tenere tutti lontano, al punto che pochi sanno che abito qui e quelli che conosco sul posto non sanno nemmeno che lavoro faccio. Ma il telefono, quello no, di quello non posso fare a meno. Soprattutto quando chi chiama è Domenico. Non è tanto perché mi ha tirato fuori dai guai, anni fa, certo anche per quello, ma è che se lui mi chiama, quando sa che me ne sto in pace a casa mia, vuol dire che è successo qualcosa di grosso. Sono a Varenna solo nel finesettimana, dal Venerdì pomeriggio al Lunedì mattina, e in tanti anni credo che Domenico Costa mi abbia chiamato solo un paio di volte, mentre ero qui. In genere, visto che trattiamo questioni assicurative, le nostre indagini possono aspettare che arrivi il Lunedì. La maggior parte delle volte, almeno. Ma non questa, a quanto pare. Così, sono appena tornato dai mie cinque chilometri di jogging attorno al lago e sto già pregustando una doccia bollente, seguita da cena scaldata al microonde e dalla visione di Fronte del Porto, che è già lì, pronto nel videoregistratore. No, non ditemelo, vi prego. Esistono altri sistemi, lo so. Ma vedete, io sono un patito di film noir, si trovano solo su VHS e non mi importa se è superato da chissà quali diavolerie elettroniche. I film sono antichi, antico deve essere il riproduttore. Almeno secondo me. Come che sia, però, i miei programmi devono essere rimandati, il telefono squilla e se Domenico mi chiama nel weekend, a questo punto, voglio proprio sapere perché.
Quello che sento però non mi piace. Una giovane famiglia è stata brutalmente sterminata in un casale d’epoca sul lago, poco lontano da qui, a Bellagio. Ora, George Clooney a parte, se c’è un posto meno lontano dal concetto di violenza è proprio questo. Sulle rive del lago di Como, che io sappia, il tasso di delinquenza è prossimo allo zero. Che diavolo, perfino le turiste distratte che dimenticano la borsetta sul traghetto, vengono rintracciate in albergo e prontamente reintegrate dei beni perduti, con tanti ringraziamenti da parte della Pro Loco e le scuse ufficiali del Sindaco. Dunque, non so se siete mai stati da queste parti, ma dire che è un posto da pensionati è dire poco. È il classico luogo di vacanza dove ti vieni a riposare quando non hai voglia di pensare a niente e a nessuno. Qui, se vuoi, trovi tutta la tranquillità che ti serve, giacché, escluso il via vai, si fa per dire, dei traghetti sulle acque ferme del lago, ci sono solo un paio di strade, qualche negozio, la passeggiata panoramica e niente di più. Insomma è un posto dove i marciapiedi vengono arrotolati al tramonto, tanto per capirci.
Che ci sia stata una strage mi sembra ancora impossibile, ma, visto che sono qui, penso che sia il caso di muovermi e di andare a controllare di persona. È autunno, tra l’altro, non certo la stagione adatta per rintanarsi nella casa al lago, se uno viene da Milano. Infatti le vittime non sono di qui. È la prima cosa che vengo a sapere quando giungo sul posto e mi imbatto nel solito capannello di curiosi. Anche i vicini, qui, sono diversi. Se ne stanno fuori dal cancello, rispettosi dei rapporti di buon vicinato, quasi timorosi di invadere la privacy di quei poveri morti. Come se, anche da morti, si avesse diritto allo stesso rispetto dovuto ai vivi. Non è che sia una filosofia sbagliata ma, per intendersi, un pensiero del genere, in un condominio di Milano, sarebbe del tutto inapplicabile, per non dire inconcepibile. Una famiglia normale, mi dicono, normalissima. Madre divorziata, due figli adolescenti, un casale di quelli di una volta, interamente in pietra, mollemente poggiato su un declivio che offre una vista spettacolare del lago. Vengono sempre qui a passare le vacanze, sento raccontare, ma vivono a Milano. Però hanno questa casa da sempre, tanto che in paese la chiesa ha anche un banco col loro nome inciso. Domando se vale parecchio, un casale vista lago col suo appezzamento di terra. Mi guardano male, come se parlare di queste cose sia inappropriato in un momento del genere, ma poi alfine si risolvono a rispondermi. “Vendere?” - mi dicono - “Ma quando mai. Loro no. Indipendentemente dal prezzo, non avrebbero venduto mai. Non le due sorelle, certo. Forse, chissà, i loro mariti avrebbero anche voluto, ma loro no. Loro, erano figlie del Gilardoni.” Lo ripetono più volte, con la tranquilla sicurezza di chi sa quello che dice, il problema è che forse sono io a non capire. Pazienza, indagherò. In fondo è il mio mestiere.
La scena del crimine ve la risparmio, perché pare che madre e figlio siano stati colpiti niente di meno che da un fucile a pallettoni, mentre dormivano nei letti gemelli, in camera da letto. I carabinieri mi dicono che c’era sangue perfino sul soffitto. Ma i vicini, discreti, parlano d’altro. Il riscaldamento costa, mormorano compunti, per farmi capire perché madre e figlio dormissero insieme in cameretta. Già. Lo capisco da me, un casale vecchio come quello deve per forza essere pieno di spifferi e richiedere un mezzo patrimonio per la manutenzione. Quanto a riscaldarlo poi … non ne parliamo. “Ma loro non avrebbero venduto, sono figlie del Gilardoni.” Il concetto ritorna, insistente. Allora domando, ma Gilardoni chi? Non l’avessi mai fatto. È tutto un profluvio di chiacchiere adesso. Ma come, non lo so? Il Gilardoni che una volta faceva il mezzadro, poi è diventato padrone. Sono lievemente allibito. Il mezzadro? Nel ventunesimo secolo? Poi riesco a capire che si parla di varie generazioni di Gilardoni, ma il concetto chiave è che il nonno del nonno del trisavolo, o roba del genere, si è riscattato faticosamente dalla posizione di mezzadro acquistando la casa padronale. Questo è un posto dove il valore del lavoro duro viene rispettato, sempre, non per nulla siamo così vicini alla Svizzera. Ecco perché, mi spiegano pazienti, con la cortesia che si usa con i forestieri, i ritardati e i duri d’orecchio, i Gilardoni futuri, non avrebbero mai acconsentito a vendere. Vogliamo scherzare? C’è in gioco l’onore di un trisavolo che, come minimo, sarà morto da almeno duecentocinquanta anni. Io queste cose, ve lo giuro, non le capisco. Ma ai vecchietti del paese a quanto pare sembra un discorso sensato. Mi riprometto di indagare ulteriormente e vado avanti ad ascoltare discorsi. Si scopre che le figlie sono due, stanno entrambe a Milano, una ha divorziato, mica colpa sua, sono cose che capitano mi dicono, l’altra no. Una sta a Melegnano, l’altra a Milano in una zona elegante, un quartiere nuovo, ma non si ricordano bene il nome … Sì ma qual è quella che è morta col figlio, domando, perché confesso che sto cominciando a perdermi. Ma quella divorziata, mi dicono, lei, appena poteva veniva subito qui. Oh bene, penso tra me, finalmente si apre uno spiraglio. Forse se scopro i nomi delle due sorelle Gilardoni riesco a venirne fuori, ma m’illudo, peggio che andar di notte. Vien fuori che papà Gilardoni mentre attendeva che la moglie partorisse leggeva la Bibbia, pronto a scegliere il nome in base alla pagina in cui si trovava. Solo che nacquero due gemelle, che, giustamente, furono chiamate Maria Maddalena e Maddalena Maria. Bel capolavoro. So già che non mi ci raccapezzerò mai. Comunque sia Maddalena Maria è quella che è morta, questo pare certo, con suo figlio Saul. Eccone un’altra con la passione religiosa, a quanto pare. Scampata al massacro l’altra figlia. Tremo solo al pensiero di chiedere il nome, ma devo. Non vengo deluso quando appuro che la miracolata, giustappunto, si chiama Esther. Beh, poteva andar peggio. Si è salvata perché era a casa sua, a Milano, stava studiando per gli esami, per lei niente vacanza nel fine settimana. Mi incuriosisco e domando se capitava spesso, mi dicono di no, venivano sempre tutti insieme. Tranne questa volta. Chi è stato, secondo loro? Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Ma quelli non rispondono, dalle facce si capisce che secondo loro nessuno può aver ucciso nessuno, non da quella parti almeno. Eppure qualcuno è morto.
Le indagini, obbligatoriamente, si spostano a Milano. I carabinieri di Bellagio mi hanno già detto che, al di là di una rapina finita male, altro non riescono a pensare. Nemmeno io, tutto sommato. Solo che Maddalena Maria, donna previdente, ha stipulato fin dal giorno della nascita dei figli, di ogni figlio, due assicurazioni distinte sulla vita. Ora che sia lei che Saul sono morti, l’unica beneficiaria è Esther. La bella Esther? Sono roso dalla curiosità quando suono il campanello di una grande villa fuori città. Ancora minorenne, Esther ora vive con il padre e sua moglie. La quale, quando mi viene ad aprire, è bella sul serio. Molto meno Esther, che sembra tanto un cane bastonato, frangetta dentro agli occhi, unghie rosicchiate a sangue, maglione lungo e informe, sguardo sfuggente. Diagnostico una sindrome adolescenziale e lascio correre … mai interrogare un minorenne senza il suo avvocato, comunque. Meno che mai un minorenne fresco di lutto. Così mi concentro sui due adulti, ma anche lì non è mica facile. In un salone che sarà duecento metri di larghezza otto di altezza per almeno cinquantamila euro di arredamento, ci sono, in ordine sparso, una giovane moglie, un marito radioso, tre bambini di età variabile, un cane che sembra un cavallo e una governante filippina di età indefinibile che ha stampato sul volto un sorriso buddista che non scompare mai. Il caos è indescrivibile. Il maschietto avrà forse otto anni, le bambine seguono a scala, almeno mi pare, non sono quello che si dice un esperto. I genitori devono essere montessoriani perché parlano tranquillamente di morti ammazzati senza preoccuparsi della presenza dei piccoli. La colf filippina che, se vi interessa, si chiama Armonia, secondo me non capisce una parola ed è meglio così. Il bambino allunga le orecchie appena capisce che sono una specie di detective. -Come quelli alla televisione? - mi chiede.
-Sì – rispondo – una specie.
-Ce l’hai la pistola?
Al mio cenno di diniego, mi scruta sospettoso perché, è chiaro, sta meditando di perquisirmi.
-Hai mai ucciso qualcuno?
Faccio ancora di no con la testa. Non sono preparato, lo ammetto. Ma lui persevera.
-Hai mai ucciso un Rex?
A questo punto, disperato, chiedo aiuto ai genitori, perché il cane cavallo mi pare che si chiami appunto Rex, e non vorrei mai essere sospettato di azioni antianimaliste. I due mi rassicurano, sempre più serafici. Pare che il piccolo abbia la fissazione di fare il paleontologo da grande, loro ovviamente, da bravi montessoriani, lo assecondano. Per questo il cane si chiama Rex, ma quello che il piccolo vuol sapere è se ho mai ucciso un Tirannosauro Rex. Ora che ho capito, resto ancora più disorientato.
-No - rispondo, pensando che la resa è sempre la miglior difesa. Infatti il bambino mi guarda schifato, chiaramente deluso da tanta incapacità e si disinteressa di me. Al grido “Dinosauro Cattivo” si lancia sul cane cavallo che all’istante si getta a terra a pancia all’aria, dimena le zampe, sporge la lingua e si mette a fare il morto, con grande delizia delle bambine che gli saltano addosso e cominciano ad aprirgli le mascelle infilandoci la testa dentro. I genitori non fanno una piega, la colf filippina nemmeno, mentre il piccolo paleontologo decreta, con fare professionale: “Ecco, finalmente si è estinto”. Confesso di essere poco portato per queste cose, preferisco restare sul mio campo, così chiedo ai due montessoriani se possiamo magari parlare tranquilli da qualche parte. Scavalchiamo il cane cavallo, cioè il dinosauro morto, e ci ritiriamo in cucina, scusate, voglio dire in una specie di sala da biliardo dove il tavolo di quercia è stile fratino e conta, così a occhio, almeno trecentoventidue posti a sedere, ma di quelli larghi. Ci sistemiamo come i castellani di una volta, loro due a un capo della tavola, io dall’altra, che quasi per parlare ci serve un megafono. Mi pare chiaro, che se avessi voluto sospettare l’ex marito di aver soppresso Maddalena Maria per mettere le mani sull’assicurazione, come tutore della minorenne Esther, mi conviene cambiar strada. A parte che per farlo avrebbe dovuto uccidere anche suo figlio, è evidente che questo qui di soldi davvero non ne ha bisogno. A meno che non decida di far diventare la sala da biliardo, pardon, la cucina, che so io, un campo da calcio. Poiché questa sembra un’ipotesi remota, comincio a sparare domande a casaccio. Il casale, l’assicurazione, i rapporti tra loro e la defunta, i rapporti con i figli di primo letto, il carattere di questi. Vien fuori quello che mi potevo aspettare. Legatissime al casale le due gemelle, Maddalena Maria e Maria Maddalena, non avrebbero mai venduto, in parte per motivi affettivi, in parte perché non ne avevano bisogno. Ma quella più attaccata alle tradizioni era Maddalena Maria che, anni fa, aveva addirittura liquidato alla sorella, ovviamente in contanti, la sua parte, anche se questo, mi dicono, non lo sapeva nessuno. Perché, domando? Aveva paura che la sorella si sentisse costretta a rispettare una specie di impegno forzato, liquidando la sua parte era sicura di poter decidere da sola senza costringere nessuno. L’aveva pagato il giusto? E come no, super liquidato, addirittura, in più la sorella ci poteva andare tutte le volte che voleva, il casale era lì apposta. Apparteneva ai Gilardoni, dopotutto. Già di questa storia non ne posso più, ma continuo a domandare. Nonostante sia chiaro: nessun dubbio, nessuna contestazione, nessun litigio, nessun conflitto di interessi. Solo un altro movente che scivola via. L’assicurazione, domando? Lui non ne sapeva niente, mi dice, ma Maddalena Maria era una precisetta. Ci teneva che tutto fosse in ordine, normale che abbia stipulato un contratto assicurativo. Lui come beneficiario? Ma vogliamo scherzare? Che bisogno c’era? Già, mi trovo a domandarmi da solo, mentre scruto il riflesso della piscina olimpionica che se ne sta sola in mezzo a un prato tale che ci si potrebbe giocare il prossimo Super Bowl. Allora, mi chiedono i montessoriani, chi può essere stato? Bella domanda, gente. I soliti ignoti? Gli slavi che hanno tentato una rapina, magari. Certo, come no, rapinatori slavi che se ne vanno in giro con un fucile a canne mozze. Proprio. Non ci credo, ma provo a domandare. Rancori, vendette, ruggini secolari? Ma contro chi? Sembrano stupiti. Maddalena Maria? Ma quando mai … Già, quando mai. Le stesse risposte che ho sentito dappertutto. In azienda, dai vicini di Milano, dai vecchi di Bellagio, dai familiari, dai parenti. Che rimane? Com’era Maddalena Maria, personalmente? Perfetta, mi dicono. Di bene in meglio. Fisicamente, allora? Molto bella, rispondono. Ancora … Ma allora, mi viene il dubbio, lui perché ha divorziato? È una domanda inutile però, conosco già la risposta. Troppo perfetta. Ripenso ad Esther. Le unghie rosicchiate fino all’osso, la figura goffa incartata in quel maglione sformato, la frangia dentro agli occhi, l’andatura schiva di chi è già rassegnato alla disfatta ancor prima di aver cominciato a lottare. Bastano una cucina grande come una sala da biliardo e un prato che somiglia a un campo da football, per compensare il senso ineluttabile della sconfitta, quando non si può competere con una madre così perfetta? E Saul, voi mi direte? Beh, povero caro, forse era troppo perfetto anche lui.
Il mio lavoro è finito, di quanto diranno gli psicologi mi importa poco, quello che conta è che l’assicurazione non paga, se c’è dolo. Ed io, quando c’è dolo, lo trovo sempre. Andando via da questa casa che sembra il paese delle meraviglie però, una cosa sola mi chiedo. Ma Esther, da piccola, avrà mai giocato con un cane cavallo sul tappeto di casa, gridando “dinosauro cattivo” e sognando di fare il paleontologo? Credo di no, c’è gente che nasce già annientata. Ma non sempre paga da sola. A volte, nella discesa, porta con sé anche gli altri.
©
Giuseppe Foderaro
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