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Fabio era solo in casa. Da quando Romina l’aveva lasciato non aveva voglia di uscire e di vedere gente. Trascorreva giornate intere riguardando le foto che le aveva fatto. Osservava il gioco di luci e ombre con cui era riuscito a mettere in risalto alcuni dettagli del suo corpo sinuoso e se ne compiaceva. Erano foto artistiche ed erano belle. Ma nessuno poteva complimentarsi con lui perché nessuno le aveva mai viste. Erano il suo segreto e lo custodiva gelosamente. Anche la casa sembrava soffrire dell’assenza di Romina e lo manifestava con un silenzio tombale. L’unico suono che sembrava ergersi da quel sepolcro erano le sue ultime parole “Sei una larva… sei un fallito…” gli aveva sbraitato contro sbattendosi la porta alle spalle. E da quel momento non l’aveva più né vista né sentita. Non aveva reagito. Si limitava a vegetare. Si svegliava in tarda mattinata rintronato e indolenzito. “Ieri ho davvero esagerato… troppe canne…” pensava stiracchiandosi. Scendeva dal letto ripromettendosi che quello sarebbe stato il fatidico giorno. Il giorno della svolta. “D’altronde” si diceva poi mentre accendeva la macchinetta del caffé “chi mai vorrebbe stare con un uomo come me? Sono un essere inutile, un inetto, una nullità. Ho 35 anni e non ho ancora un lavoro fisso, non ho una casa mia, non ho ambizioni… mi ammazzo di canne dalla mattina alla sera e non faccio niente per cambiare la mia vita. Ha ragione Romina. Non verrà nessuno a bussare alla mia porta. Sono io che devo muovermi, prendere l’iniziativa, agire. I tempi sono ormai maturi...” Prendeva comodamente il suo caffé seduto in poltrona, faceva una lunga doccia e mentre sceglieva con cura i vestiti da indossare pensava già a rollarsi una canna per cominciare bene la giornata. Alla prima seguiva la seconda, la terza, la quarta… e puntualmente arrivava a sera nelle stesse pietose condizioni della precedente. Quella sera, poi, era particolarmente abbattuto. L’aveva chiamato Simona per proporgli un cinema, ma lui aveva declinato l’invito adducendo un forte mal di testa. Ma non gliel’aveva data a bere. Simona lo conosceva meglio di chiunque altro. Era sua sorella gemella. “Vengo la” gli aveva detto. Ma lui non aveva alcuna voglia di vederla, e la telefonata era sfociata in un litigio. Lei non lo capiva. Nessuno lo capiva. In quei momenti lui preferiva restare solo. Non aveva bisogno di gente attorno che alimentasse le sue frustrazioni. “È la mia vita… sarò libero di viverla come mi pare e piace?” pensava rollandosi l’ennesima canna. Accese il computer e controllò la posta. Aveva l’abitudine di curiosare anche nella cartella dell’antispam. “Concorso Fotografico Internazionale IL MIO SPECCHIO”. Un guizzo d’entusiasmo si impadronì di lui. “Potrebbe essere la mia grande occasione” pensò. “L’occasione per dimostrare al mondo intero che non sono un fallito!” Ma fu giusto un pensiero fugace. Doveva voleva andare? Se anche gli fosse andata bene, non sarebbe certo bastato uno stupido concorso fotografico a riscattarlo da una vita di insuccessi e umiliazioni. Che poi non si trattava nemmeno di veri e propri insuccessi. Non si può fallire senza provare. E lui non si era mai veramente messo in gioco. Queste cose Romina gliele aveva ripetute fino alla nausea. “Vorrei vedere lei al posto mio” disse a voce alta senza nemmeno accorgersene. “Una famiglia di geni. E io sono la pecora nera. L’unico che non è mai riuscito a concretizzare nulla. Mi sono sempre sentito ripetere che non avevo ambizioni. La verità è che tutto ciò che mi interessava era già stato fatto da qualcun’altro della mia famiglia. E nel migliore dei modi possibili. Il mio sarebbe stato inevitabilmente un insuccesso.” Giustificava così la sua apatia nei confronti del mondo esterno. Fin da bambino gli avevano fatto prendere lezioni di musica. Era dotato, gli dicevano. Ma lui riusciva ad avvicinarsi al pianoforte solo quando la madre era in tournée. Irina Dyuragin. Una grande concertista. Era cresciuto in mezzo ai ritagli di giornale che parlavano di lei. Anche a scuola se la cavava bene, ma era Simona quella che spiccava. Quel mezzo punto in più, sufficiente a tenerlo sempre un gradino più in basso davanti a tutta la classe. Avevano frequentato le stesse scuole, dalla prima elementare alla maturità. All’università avevano scelto strade diverse. Simona si era occupata di cooperazione internazionale, si era laureata col massimo dei voti e aveva girato il mondo, aiutando un sacco di gente bisognosa. Durante un progetto per la costruzione di una scuola in Burkina Faso aveva incontrato Dino e si erano innamorati. Da li a poco sarebbe anche diventata madre. Lui aveva invece optato per la facoltà di Lettere, seguendo le orme paterne. Ma non era tagliato per quel mestiere. Troppi sacrifici, troppi mesi lontano da casa, troppi rischi. Decisamente no! La figura dell’inviato speciale non gli si confaceva. E così si era costruito l’alibi per lasciare anche l’università. A 35 anni suonati si ritrovava solo, con un pugno di mosche in mano e una nebbia densa nel cervello. Fissava lo schermo inebetito, con l’accendino in una mano e la canna nell’altra, quando il suo sguardo si illuminò. Il Presidente della Giuria era un vecchio compagno di classe. Di più. Era il suo migliore amico ai tempi del liceo. Si erano persi di vista da tempo ma ogni anno Fabio trovava nella cassetta delle lettere il suo biglietto di auguri per il compleanno. Detestava le formalità ma fortunatamente non gliel’aveva mai dato a vedere. Forse questa era la volta buona. Forse il momento della svolta era davvero arrivato. Prese il cellulare e cercò il numero di Marco. Si chiese se fosse il caso di chiamarlo subito. Non sarebbe stato meglio scegliere prima le foto da mandare? Era sicuro che l’avrebbe aiutato. A quel punto sarebbe tornato da Romina a testa alta e lei avrebbe dovuto rimangiarsi tutto quello che gli aveva detto, avrebbe dovuto implorarlo di tornare con lei. Alla fine lui l’avrebbe perdonata perché era di animo nobile, oltre ad essere innamorato… Il trillo insistente del campanello lo riportò alla realtà. “Chi sarà a quest’ora?” si chiese infastidito. Riaccese la canna nell’attesa che l’indesiderato visitatore si arrendesse e se ne andasse. Esasperato da quel suono sgradevole, si alzò per andare ad aprire la porta. Simona era in piedi davanti a lui. Il suo sguardo agghiacciante non lasciava presagire nulla di buono. “Si può sapere cosa stai combinando? Saranno almeno dieci minuti che suono come una dannata! Immagino che il mal di testa ti sia passato, a giudicare dall’odore di erba e dal tuo occhietto spento. Quando ti deciderai a crescere Fabio? Quando?” Entrò in casa senza aspettare né un invito né una risposta. “Allora? Si può sapere che ti prende? Sentiamo… ora la colpa è di Romina, 6 mesi fa era del tuo capo, un anno fa era la volta della salute… Tu hai sempre una buona ragione per piangerti addosso…” “Ma che ne sai? Che ne sai tu della mia vita visto che non ci sei mai? A parte il fatto che siamo gemelli, non sai assolutamente niente di me! E sono stufo marcio di sentirmi trattare come un bambino! Sto lavorando a un progetto… vieni a vedere, ti mostro una cosa.” La fece accomodare davanti allo schermo del computer e aprì il file zippato contenente tutte le sue foto. “Fabio… sono meravigliose… mi lasci senza fiato! Che talento! Che sensibilità! Queste immagini entrano dentro il soggetto e ne colgono l’anima… sono vive… perché non me ne hai mai parlato?” “Volevo farti una sorpresa, ma visto che sei così noiosa…”, e aprì la pagina web del concorso a cui avrebbe partecipato. Si, ormai aveva deciso, avrebbe partecipato e l’avrebbe anche vinto. Simona era estasiata. Leggeva avidamente il bando e teneva stretta la mano del fratello, che stava lentamente perdendo la sua baldanza iniziale. Doveva trovare un modo per distrarla. Simona non doveva leggere quel nome. Avrebbe capito subito e lui non voleva che questo accadesse. Quando la stretta si allentò, capì che non c’era più nulla da fare. Lei restò in silenzio, ma il suo sguardo fu più tagliente di una lama affilata e lo ferì profondamente, più di mille parole di rimprovero. Simona si alzò e si avviò verso la porta di ingresso. Prima di andarsene lo strinse a sé. “Ce la farai Fabio, ne sono sicura. Devi crederci. Devi crederci veramente. E questa sarà la tua arma vincente” gli sussurrò all’orecchio. Fabio chiuse la porta e si buttò sul letto. Era esausto. “Ecco, lo sapevo. Sono fottuto! Sono fottuto perché se mai dovessi vincere il concorso lei avrebbe sempre il dubbio sulla mia onestà. E sono fottuto comunque perché senza l’appoggio di Marco non lo vincerò mai. E non posso nemmeno tirarmi indietro, altrimenti confermerei i suoi sospetti. Ormai devo partecipare...” Non gli restava altro da fare che tentare il tutto per tutto. Che Simona credesse ciò che voleva credere! Lui non gliel’avrebbe certo confermato. Doveva vincere. Prese il telefono e premette il tasto per inviare la chiamata, ma la bloccò senza nemmeno lasciarlo suonare. “Ma che gli dico? Scusa Marco, in nome della nostra amicizia ventennale aiuteresti un fallito come me a vincere il concorso di cui tu, per talento e meriti personali, sarai presidente? No, devo essere più diplomatico e metterlo nella condizione di non potermi rifiutare questo favore senza perdere la faccia. Devo trovare qualcosa di credibile e inoppugnabile. Ma cosa?” pensò mentre si rollava l’ennesima canna. E se gli avesse detto che voleva dare l’ultima grande soddisfazione alla vecchia nonnina ormai in punto di morte? Povera nonna. A 93 anni godeva ancora di un’ottima salute. Era davvero disposto a vendersi la nonna per vincere il concorso? No. Doveva trovare qualcos’altro. Si sentiva in un girone infernale e non vedeva alcuna via di uscita. “Qualcosa mi verrà in mente” si disse alzandosi dal letto e andando a sedersi al computer. Cercò il suo indirizzo mail e iniziò a scrivere. “Caro Marco, come stai? Sono secoli che non ci vediamo. Ti scrivo perché…”. No. Non gli avrebbe scritto una mail a cui probabilmente non avrebbe risposto subito e lui avrebbe passato giorni di angosciante attesa. Gli avrebbe mandato un messaggio e gli avrebbe proposto una birra e quattro chiacchiere. No. Forse era meglio chiamarlo. Riprese il telefono in mano e selezionò l’opzione che nascondeva l’identificativo. Fece nuovamente partire la chiamata, ma al primo squillo attaccò. Le parole di Simona, le ultime che gli aveva sussurrato all’orecchio, suonavano come una condanna. Perché gliel’aveva detto? Perché? Proprio a lei… così integra, così perfetta, così… così integerrima. Simona lo adorava, di questo era sicuro, ma non lo capiva. Lui aveva bisogno di vincere quel concorso. Aveva bisogno di dimostrare a tutti che non era un buono a nulla, ed era sicuro che alla fine Simona avrebbe comunque mantenuto il segreto. Certo, avrebbe perso la sua stima, l’avrebbe delusa profondamente, ma non gli interessava. Non si sarebbe lasciato intimidire dalle sue parole. “Ora però sono troppo stonato, meglio rimandare la telefonata a domattina. È anche tardi, potrei disturbarlo. Un buon sonno mi schiarirà le idee e domani lo chiamerò con calma.” Si buttò sul letto vestito e si addormentò. Ma fu un sonno agitato e si svegliò di malumore. Accese subito il computer. Poi si preparò un caffè, bello forte. Col telefono alla mano, rilesse attentamente il bando del concorso. Più andava avanti a leggere, più sentiva di dover fare quella telefonata. Ma ogni volta che premeva il tasto della chiamata sentiva la voce di Simona che gli ripeteva ossessivamente “Ce la farai… devi crederci…”, e buttava giù. Non riusciva a darsi pace. Passava le sue foto, una dopo l’altro, e si diceva “Ce la farò…”, ma non appena tornava alla pagina del bando per inviare la sua candidatura, istintivamente la sua mano afferrava il telefono. Gli scoppiava la testa. Non ne sarebbe mai uscito, ma non voleva iniziare la giornata con una canna. Non quella giornata. Era troppo importante. Si alzò e accese lo stereo. Grave e profonda, la sonata in sol minore di Rachmaninov riempì il vuoto della stanza. Era la sua preferita. Le ricordava la madre. La suonava spesso quando era a casa, e lui si sedeva accanto a lei, completamente abbandonato a se stesso. Su quella dolce melodia si intonavano le parole di Simona. Ferme, decise, rassicuranti. “Ce la farai… devi crederci…” In quello stato di trasognata incoscienza riprese posto davanti al computer. Bastò un semplice click per inviare le foto. Non era poi così difficile come pensava. Si sentì più leggero. Alzò la cornetta e chiamò Romina. “Ciao, ho voglia di vederti. Passo a prenderti tra un’ora e andiamo a fare un giro fuori Milano…”
©
Diana Facile
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