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Mi chiamo Pasqualino Pagliarulo. Sono portiere dello stabile numero tre, in Via Chiatamone. Il palazzo di cui mi onoro di prestare servizio da trent’anni è molto antico. Dopo il terremoto dell'Ottanta, fu pure restaurato da cima a fondo e mo’ sembra un misto fuori dal tempo: opera di un architetto del Settecento e della Sovrintendenza comunale post-terremoto. Quello che mi ha preceduto qui, prima di ritirarsi in pensione, mi fece la cronistoria dello stabile che avrei ereditato in qualità di portiere. Alzando l’indice disse di potere insuperbire nell’essere il portiere dell’abitazione che nel passato ormai remoto, appartenne niente di meno che ai fratelli Filomarino: il duca Ascanio e Clemente. Il primo fu matematico e vulcanologo, il secondo inseguì la gloria come poeta e letterato. Come a dire, a te le Scienze, a me le Muse. I fratelli in questione furono amici della Fonseca Pimentel, di Antonio Jerocardes, e d’altri patrioti, protagonisti della Repubblica Partenopea, proclamata il 27 gennaio del 1799. Vi domanderete perché ricordi questi fatti esulanti la reale professione di custode. Ebbene, in una stanza a pian terreno c’era fino a qualche anno fa un piccolo museo di anticaglia appartenuta ai Filomarino. Che so io, uno specchio incorniciato, un mobiletto, uno scrittoio, quadri antichi d’ignota provenienza, delle lettere impolverate, vestiti d’epoca merlettati ed impolverati e poche altre cose di poco conto come libri voluminosi e strambe statuine seminude. Ebbi duplice mansione di custode dello stabile e dal comune, con forfetario emolumento, quella di sorvegliante le reliquie dei Filomarino, patrioti e martiri. Di tanto in tanto, arrivava quatto quatto un ispettore della Sovrintendenza a controllare se stesse tutto a posto. Veramente, il comune voleva affidare l'incarico ad un disoccupato della LSU, un raccomandato, ma l’assemblea condominiale si oppose con decisione. Adesso, tutta quella roba è stata trasferita in apposito museo dalle parti di Portalba ed ho perso la comunale sovvenzione forfetaria. Ma non fa niente. Quel museo, con tutta quella roba, era una responsabilità con tanti ladri d’antiquaria in giro. Mia moglie lo dice sempre ed io acconsento: “Meglio accontentarsi del poco e non rischiare.” Lo stabile è allocato quasi al centro della città. Ecco qua. Vado orgoglioso d’abitare proprio qui. Solo la domenica pomeriggio la zona è movimentata dalle bande dei tifosi diretti a Fuorigrotta. Per il resto, è un quartiere tranquillo ed aristocratico. Ci abitano professionisti d’alto borgo. Gente seria, non gente di merda come nei vicoli e nei bassi. Eseguo tanto di scappellamento quando gl’inquilini altolocati mi passano davanti alla guardiola. La domenica mattina mi sveglio sempre con una noia addosso. Mi sento sfastiriuso, quasi quasi sconsolato, sfasato, stralunato e scoglionato. Sarà per la troppa gente che resta nel palazzo per il domenicale riposo, oppure per la vecchia ingobbita del terzo piano che va a messa presto. Porta male la gobba e la vecchia che di domenica ti passa davanti. E’ una domenicale scontrosità che scende in me. Fatto sta che ai saluti rispondo in malo modo. Me ne guardo dal rivelare i reconditi pensieri, chiusi in petto. Per esempio, qualcuno, rivolgendomi il saluto la domenica mattina, dice sonoramente: “Salutammo marescià.” Rispondo con garbo, con pazienza e rispettoso, sollevandomi il berretto e intanto dico sottovoce: “Salutami sto’ cazzo.” Pimpante, un altro di domenica mi fa: “Hasta la vista.” Rispondo col cenno muto riverente e dico moscio - moscio e sotto voce: “Hasta soreta.”
Ne ho fatta di strada prima di capitare qui. Nacqui sessant’anni fa in Via Volpicella, alla periferia di Napoli Est. Per via di certi morti ammazzati, quel quartiere adesso è nominato il Texas. C’è anche il bar con ante girevoli come nei film del West. Il bar indovinatelo un poco, sapete come si chiama? Si chiama Bar Texas. Una volta, qui a Napoli si mettevano i soprannomi alle persone come per esempio: Pasqualino o' Chiavico oppure a’ Chiavica, a seconda dei punti di vista. Mo’ il soprannome si mette all’intero quartiere: l’evoluzione della specie. Di domenica, quando mia madre era ancora in vita, mi recavo in via Volpicella a farle visita. Adesso che non c’è più, non mi muovo più da qui. Lì in quella via di periferia, ci sono i ricordi di ragazzo quando crescevo coi genitori. Mio padre faceva il tranviere e la sera alle otto e mezza tornava a casa col fagotto del pane che in parite aveva mangiato ed in parte conservato per la cena in famiglia. Ah! La mia vita è come divisa a metà. Un po' di là, in Via Volpicella ed un po' di qua, nella nobile Via Chiatamone. Il mio passato, il mio presente. Sarà l’età, o il mestiere privo d’emozioni, ma soprattutto il pomeriggio, mi annoio. Non mi va di passeggiare, dandomi mia moglie il cambio nella guardiola. Una volta, me ne andavo per Via Partenope sul lungo mare, assaporando la brezza marina che tanto bene fa ai bronchi. Adesso appesantito, mi siedo sulla sedia ai lati del portone e guardo apatico la gente che frettolosa passa. Tranne gl’inquilini dello stabile che mi salutano, la gente per la via mi vede appena. Anzi non bada a me, seduto lì in posa da prelato, sotto l'arco del portone. Una volta, una signora inciampò contro il dislivello del marciapiede buscandosi la distorsione alla caviglia che qui a Napoli (tale distorsione) si chiama storta. Riflettendo sulla disgrazia toccata alla signora in questione, arrivai a notare un particolare che m'illuminò la mente. Il particolare è questo. A causa delle macchine parcheggiate dall'altro lato della carreggiata, gli autobus di linea passano con le ruote, sul marciapiede. Si è prodotto un'incavatura con il lastrico di basalto che fa da marciapiede abbassatosi ad un estremo, sollevandosi di qualche centimetro dalla parte opposta. L'anomalia del piano su cui i passanti poggiano le scarpe è appena visibile, per questo molti inciampano. La dinamica è la seguente. La scarpa preme in punta contro il siliceo rilievo. Il malcapitato porta subito, in avanti l'altro piede che scivola sulla depressione del basalto causata come ho detto, dal peso delle ruote. Il malcapitato se provvisto di ottimo equilibrio, allunga le braccia e barcollando frena la caduta e si raddrizza. Ma se ha un attimo di distrazione, allora la caduta è inevitabile: patapunfete. Oppure, ondeggiando paurosamente come un pioppo nel vento, non cade, ma si busca una storta fenomenale che lo obbligherà a restare a letto per parecchi giorni. Dal mio appostamento, seduto sotto l'arco del portone notavo che poca gente rovinava a terra a causa del lastrico deformato. I più accorti, si portavano raso al muro. Altri rallentavano l'andatura imprecando contro il comune che non fa i lavori pubblici. Mi consolavano le critiche alla comunale corruttela. Per aumentare il numero di coloro che cadevano, malignamente escogitai lo stratagemma. Prima di dire qual è, voglio rivelarvi come mi è arrivata l'idea. E' stata ispirazione pura, frutto dei miei pensieri più reconditi. Un giorno camminavo mogio, mogio lungo Via Partenope. Mi godevo a bocca aperta la giornata bella che sapeva di primavera. Di là c'era Castel Dell'Ovo con la scogliera in mezzo al mare e di qua il flusso delle macchine. Sull'ampio marciapiede a mattonelle passava gente, frettolosa o riguardosa. C'era qualche turista e non mancava la vecchietta col cagnolino. Notai per terra la sagoma rotonda di una cento lire perduta chissà da chi. Il malandrino soldo rifletté invitante, la luce del giorno. Non mi sognai proprio di raccattarlo per via dell'artrosi. Una volta con cento lire ci si comprava qualcosa. Adesso non la vogliono neanche per la mancia del caffé. Però la momentanea distrazione mi causò una distorsione. Scivolai su una scorza che avrei notato se non avessi girato lo sguardo sul maledetto soldo. Caddi male pressando il peso del corpo su un solo piede che si piegò mandandomi a terra col deretano. “Oh poverino! Di certo, un capogiro.” Esclamò una donnina che non aveva capito niente. Caddi perché c’era stato in me un impulso più fine della ragione. Sapevo che non era il caso d’inchinarmi a raccogliere la cento lire. Però mi distrassi per un istante e fu questa la causa. Fu questo che mi fregò. Ciò premesso, ecco cosa feci. Presi una cento lire, la inumidii con l’alito e la lucidai con uno straccio di lana. Buttai la moneta sulla carreggiata in vicinanza del marciapiede malandato. Per la precisione, la moneta distava dal bordo del marciapiede circa venti centimetri e dal dislivello del lastrico contro cui inciampavano le punte delle scarpe, circa mezzo metro. Con tale angolazione, era assicurata la distorsione. Inoltre, proprio lì l’ampiezza del marciapiede è provvidenzialmente ridotta dalla sporgenza dell’arcata del portone. Avevo calcolato bene le simmetrie, camminando come un passante e fissando la cento lire a terra. Nel momento in cui si richiedeva la massima attenzione per evitare d'inciampare sul gradino, l’occhio andava diritto sulla lucida moneta. Come a dire, in un momento d'anarchia, l’occhio non ubbidiva ai comandi della mente. Oppure, come un cagnolino distratto dalla carne appesa in macelleria che non risponde subito ai comandi del padrone. . Sul taccuino, quel mattino segnalai due scivolate e una storta classica. Una donna con la borsa piena della spesa rovinò a terra gridando come cornacchia e spandendo mele e pomodori sul basalto della carreggiata. Poco dopo toccò ad una signorina che evitando di guardare me seduto, girò a terra gli occhi e vide la monetina. Mi sembrò che il suo sguardo per un attimo s’illuminasse. Pensai soddisfatto: la trappola è scattata! In quel preciso lasso di tempo distratta, la signorina in questione inciampò sul dislivello e scivolò diritta a terra. Emise acuto grido disperato. Le dissi a bassa voce: TIE'! La storta alla caviglia - la classica storta - toccò ad un signore che abita nei paraggi. Nell’inciampare, questo signore ben vestito genuflesse le gambe tenendole per un poco in bilico. Poi, cercando di sollevarsi, scivolò con una scarpa sul fatidico dislivello e si accasciò di lato a terra dolorante. Sbatté anche la testa e l’orecchio sinistro, ammaccato sul basalto duro. Mi sporsi, allungai il collo per guardare ed andai ad aiutarlo, facendo finta di compatirlo. La sua faccia fu contratta dal dolore. Se ne andò imprecando e zoppicando. A furia di godere per le altrui distorsioni capitate alla distratta gente, stavo meglio. C’era in me una punta d’autentica soddisfazione. Mi sentivo sollevato come da un peso sulla pancia. Stavo calmo, pensando ai danni altrui. A letto a sera, davanti al televisore, raccontavo a mia moglie le disavventure capitate alle persone davanti al portone. Chiese incredula mia moglie. “Come mai scivolano tutti lì?” “"E’ per via del marciapiede inclinato da una parte.” “Chi lo ha inclinato?” “Che domanda intelligente. Sono state le ruote dei pullman costrette ad allargarsi a causa delle macchine parcheggiate abusivamente sul lato opposto della carreggiata.” Di sana pianta mia moglie disse: “Domani vado al municipio a protestare. Devono aggiustare il marciapiede.” “Non ti permettere!” “E perché?” . “Perché... perderemo la nostra pace. Verranno con le trivelle e le impastatrici e faranno un rumore infernale chissà per quanto tempo. Per favore, non t'impicciare.” , “E se ad inciampare fossimo noi?” “Non ti preoccupare. Tu passa rasente il muro e vai piano. Vedrai che non cadrai.” Mia moglie ammutolì girandosi di lato. Una volta, passò uno con un’alterigia da fare rabbia. Si guardava in giro con aria schifata e tracotante. Si vedeva dalla faccia che era un uomo di merda. Due volte passò davanti a me, seduto sotto l'arco del portone e per due volte col naso in su, evitò la scivolata. La terza volta fu bello. Aveva un ombrello in mano perché piovigginava, una pioggerella sottile che appena si percepisce. Stavo seduto al mio posto. Forse perché non guardò in aria per via dell'ombrello aperto, fatto sta che rivolse lo sguardo a terra. Osservò la fatale monetina e scattò la trappola. Sbatté sonoramente con la punta della scarpa sinistra contro lo scalino. L 'altra scarpa rimase titubante a mezza altezza di rimando il suo torace ondeggiò come trottola. Vidi allora in rapida successione: la sua faccia disperata, gli occhi allarmati lanciare S.O.S., la scivolata immediata sul basalto malandato, il tonfo e il grido di dolore, Ahii! Uscì del sangue ad un labbro che l'uomo cercò di tamponare col fazzoletto. S'era sporcata la giacchetta di lana vergine. Mi chiesi: era vera, quella faccia contratta dal dolore, o l'altra prima della caduta, piena d'alterigia e tracotanza? Mi precipitai a soccorrerlo. Un giorno inciampò una signorina finendo con la testa ai piedi miei. Non la vidi inciampare perché guardavo altrove. Cadendo emise un gridolino incredulo. "Figlia!" Esclamai forse per un poco dispiaciuto. Feci finta d'aiutarla a rialzarsi. Mi guardò intristita e mi spiegò: “E’ per via di quel soldo: Quella cento lire. L’ho vista, mi sono distratta e sono caduta. Meno male che non mi sono rotta un osso”. . Affranto, le offrii di sedersi al posto mio. Disse di no e riconoscente mi regalò un astuccio di caramelle. Dissi tra me e me: che ci vuoi fare, sono stati quei due, tre secondi di distrazione che ti hanno fottuta. Figlia mia, un’altra volta impari a non distrarti, sia pure un poco. Una volta, passò una zingarella che non solo non inciampò, ma si precipitò come una piccola zoccola a raccattare la monetina imperlata di brina. Scattai dal sediolone e col manico del bastone, le misi una tal paura addosso che non l’ho più vista passare. Fui costretto a mettere al solito posto una nuova cento lire. Devo ammettere che il tranello non è valido per la gente che viene dalla destra perché il marciapiede è inclinato in malo modo, in senso opposto. Chi passa da sinistra è bella e fritta: inciampa facilmente sul detto dislivello. A volte, penso che mi sono incattivito. Sarà l’età. Però, poi rifletto. Se la gente tralasciasse l’idea fissa che ha dei soldi, farebbe più attenzione ai suoi passi. D’istinto invece, lo sguardo cade sulla monetina ed inciampano. La colpa non è mia, ma dell’atavico attaccamento all’idea del denaro.
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Giuseppe Costantino Budetta
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