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Sia ricordato Berillo
di Mauro Moscone
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- Racconto dedicato ai nuovi schiavi delle società globali e alle sofferenze degli antichi servi di Roma. -

Oplontis, Villa di Poppea, moglie dell’imperatore Nerone.
Anno 60 dopo Cristo.

-Devo sbrigarmi o rischio di essere sorpreso in flagrante.
Questa parete, nel corridoio breve e buio vicino alle latrine, che collega il quartiere servile al giardino, dove i padroni stanno ingozzandosi come i maiali, fa proprio al caso mio.
Questo è il momento propizio.
Ultimo, il capo-cuoco, crede che sia venuto qua a liberarmi gli intestini nel grande buco delle latrine.
Nessuno mi vede e incido l’intonaco con questa punta acuminata, sottile e metallica.
Scrivo il mio nome bello in grande, con tutta calma, senza abbandonarmi alla paura e alla fretta, nella lingua greca.
“MNESTEI BERILLOS”. Sia ricordato Berillo.

Mentre sto terminando il mio graffito proibito, mi chiedo:
- Chi sono?
Per quella banda di predoni che mi tiene tutte le notti in catene, sono un fuggitivo recidivo. Al collo mi hanno saldato un collare, come si fa con i cani, con il nome del mio padrone, al quale riportarmi in caso d’una mia nuova fuga.
In latino, col conciso ed elegante linguaggio di questi ben educati criminali, sta scritto:
“Sono fuggito più d’una volta, tienimi presso di te e quando mi riporterai alla casa del mio padrone sarai ricompensato”.

Io, per loro, sono solo uno STRUMENTO CHE PARLA.
Secondo, un mio amico liberto, grammatico di Atene, mi ha insegnato a memoria quella norma speciale del Codice Civile di Gaio, dedicata a noi schiavi:
“Vi sono tre tipi di utensili per il cittadino romano:
quelli che non si muovono e non parlano (gli attrezzi);
quelli che si muovono e non parlano (le bestie da soma e gli animali da riproduzione e da cortile);
quelli che si muovono e parlano, gli STRUMENTI VOCALI”, cioè IO, BERILLO.

Sento berciare in giardino, quei crudeli criminali togati saranno già tutti sbronzi.
Brindano alla padrona di casa, la potente Poppea, moglie dell’Imperatore e alla sua sfarzosissima Villa ricolma di stucchi dorati e coloratissimi affreschi, che ora ho sfregiato col mio stilo di ferro, affinché qualcuno un giorno si ricordi che sono esistito, io, Berillo, che devo stare sempre zitto se non voglio essere massacrato a legnate.
Per noi schiavi la ciucca dei nostri padroni è il pericolo numero uno.
Volete sapere perché sono scappato dal mio padrone?
Perchè Plinio, il mio colto e raffinato padrone, facoltoso mercante di vino, tutte le volte che Dioniso, il Signore dell’Uva, gli toglieva il senno verso la fine del banchetto con l’aumentare delle libagioni, mi faceva legare dai suoi tirapiedi ad un tronco di pino e mi sodomizzava brutalmente davanti a tutti i suoi commensali, più per il loro divertimento che per il suo piacere.
Questo avvenne regolarmente per anni, alla fine di ogni cena serale.
Dopo qualche mese avevo fatto l’abitudine a quell’abuso, ma quello che non sopportavo più era l’esultanza dei cortigiani leccaculo del mio signore, quando questi godendo dentro di me come un verro, rilasciava il suo fetido seme nel mio retto dolorante.
Un giorno gli sputai in faccia e fuggii, fortunatamente senza colpirlo.
Una volta ripreso e azzannato dai cani dei miei inseguitori, le guardie del Pretorio mi hanno fratturato gli stinchi e marchiato a fuoco sulla fronte la parola abbreviata F U G (per fugitivus).
Scampai alla crocefissione per miracolo e perché non avevo sfiorato con un dito Plinio.

In seguito venni venduto a Poppea – grazie ancora alla Dea Fortuna! – che aveva bisogno di uno scriba dalla bella calligrafia e me la sono cavata, insomma, sopravvivo.
Qui in Villa siamo almeno un centinaio di schiavi, e quando si è in tanti si ha più possibilità di scampare alle frustate coi flagelli e alle esecuzioni sommarie.
Per questo motivo incido tranquillo il mio vero nome, - che non è RES, cosa, strumento, come per i romani-.
E prima del mio nome e nella terza lettera della stesso - la RHO- tratteggio i due simboli occulti di noi servi, il Chrismòn del profeta ebreo Gesù e il soprannome segreto - conosciuto solo da noi uomini in catene- di Spartaco, il gladiatore che circa cento estati fa ci liberò da quelle belve umane latranti nel giardino:DRACO, il ceppo di vite pronto a rifiorire in primavera, ma anche il Dragone della Rivolta.

Gesù e Spartaco sono i nostri dei, i nostri fratelli, i nostri amici intimi che ci liberano dall’affanno delle nostre vite mute e strozzate di cose.
Il Nazareno – le sue parole vengono ricordate col passaparola da servo a servo, nelle fredde notti d’inverno, quando dormiamo gettati sul gelido tufo come cani randagi, spesso con le caviglie straziate dai ceppi - ci ha dato la speranza che noi ultimi saremo i primi.
Ci ha insegnato che quando baciamo sulle guance e abbracciamo nostro fratello e nostra sorella siamo liberi e ci ha trasmesso la dignità di essere persone quando, in silenzio fiero e fermo, subiamo le torture dei carnefici latini.
Ci ha dato anche una poesia magica, da recitare quando stiamo per essere crocefissi o buttati in pasto alle fiere feroci nell’arena, dai nostri aguzzini: ”Padre Nostro che sei nei cieli…”.
In questo modo ci ha insegnato che la nostra anima non morirà per la paura, ma avrà vita eterna.
Noi schiavi l’intoniamo ogni giorno nella stanza segreta della nostra mente, mentre i nostri potenti padroni offrono i loro sacrifici ai Lari, le loro divinità protettrici della casa, giovani, sorridenti e con le capigliature leonine al vento, per propiziare le loro ricchezze che noi servi diamo loro, con il nostro lavoro massacrante, ricompensato solo con le bastonate di giorno, e con gli stupri di notte.

Chiunque di noi venga sorpreso a recitarla ad alta voce, rischia l’esecuzione sommaria nell’anfiteatro o il taglio della lingua.

Dopo la primavera e il ricordo della Resurrezione di Gesù, in estate ci tramandiamo le gesta di Spartaco, il gladiatore.
Il Trace ci ha regalato la possibilità di aver fiducia nelle nostre capacità di liberarci da questi crudeli schiavisti.
Grazie a lui, ora sappiamo che se riusciamo ad organizzarci e restare uniti, possiamo battere le legioni di questi feroci banditi.
Come dicevo, Draco in latino è sia il vecchio ceppo della vite che rifiorisce e genera nuovi tralci in primavera ma è anche il simbolo del Dragone dell’insurrezione di Capua, nell’anno 73 prima della nascita del nostro Signore Gesù.
Rivolta che riprenderà ad alitare il suo fuoco di giustizia, quando si presenteranno le condizioni favorevoli per un’altra, decisiva guerra servile.
Ora i romani sono troppo forti e spietati e sono riusciti a tenerci divisi, disperdendoci ai quattro venti nel loro grande Impero.
Gesù ci ha insegnato: ”Siate prudenti come colombe e astuti come i serpenti.” Aspetteremo il momento propizio e colpiremo.

Eccole qua le pupille che danno forza e fiducia ai miei occhi e al mio spirito.
Draco e il Chrismon, l’occulto emblema che noi seguaci del Cristo ci scambiamo di nascosto e adoriamo in graffito.
La RHO’ è il segno del bastone del Buon Pastore Gesù e la linea perpendicolare che s’interseca siamo noi, il suo gregge in attesa di liberazione dal male.

Intanto sentì la fuori che baccano! Nel giardino si sta scatenando l’orgia. Adesso i maiali sono tutti ubriachi e cominceranno ad accoppiarsi come bestie in calore.
Se qualche cittadino romano non accetterà il coito, verrà sostituito in un batter di ciglia da uno di noi.
Sento i loro lamenti rochi di lussuria, disumani, sembrano lupi inferociti!
Gesù, Spartaco, aiutatemi! Questo è il momento del terrore!
Come quella notte nel Getsemani, sul Monte degli Ulivi a Gerusalemme, quando il buon Maestro venne tradito da Giuda e arrestato, insultato e percosso dalle guardie del Tempio.
Possono venirmi a prendere e farmi quello che vogliono!
Questa sarebbe la gente civile e istruita che ha costruito un Impero e si vanta tutti i giorni delle sue spaziose strade, dei suoi enormi acquedotti ad arcate e dei suoi luminosi e capienti teatri, edificati pietra per pietra da noi schiavi, sotto i colpi delle loro clave nodose e delle loro sferze chiodate!
Gesù, ho paura, maestro! Sono come te, solo nell’orto degli Ulivi!

E allora Spartaco, dammi la tua forza e il tuo gladio!
Dammi il nerbo del tuo braccio che uccise il suo fidato cavallo prima dell’ultima battaglia con il console Crasso; per affrontare a piedi e con la schiena diritta le legioni dei nemici, a comando degli schiavi liberati.
Si narra che queste furono le sue ultime parole, prima di buttarsi menando fendenti, dentro una coorte di legionari, uccidendo due centurioni e infine stramazzando al suolo, trafitto da decine di colpi.

“Chi combatte può morire, ma chi non lotta ha già perso in partenza!
Se vinciamo, prenderemo le loro armi e i loro cavalli.
Se versiamo il nostro sangue sul campo di battaglia, saremo morti da uomini liberi ma non fuggiremo come codardi!”.

M’inginocchio piangente contro il muro.
Gesù non ama questi pensieri.
Nel Getsemani ha imposto a Pietro di gettare il gladio e si è fatto mettere in catene senza opporre resistenza.
Così raccontano le nostre Sacre Scritture:
“ Pietro, il più audace di tutti, con un colpo di spada recise l'orecchio di uno dei servi del sacerdote, un certo Malco, che cadde a terra tramortito.
Vi fu un grande tumulto. Gesù disse:
- Pietro, chi di spada ferisce di spada perisce. Rimetti dunque la spada dentro il fodero perché io devo compiere la volontà del Padre mio!

Quindi chiese che gli fosse avvicinato Malco affinché potesse guarirlo. Accostatosi a lui pregò e, toccandolo, lo risanò perfettamente.”

Spartaco o Gesù, chi verrà ad aiutarmi?
In giardino, sotto un fico, ho nascosto un pugnale, trovato mentre pulivo gli avanzi del cibo gettato dai Padroni sotto i triclini.
Devo andarlo a prendere per poi finire crocefisso o divorato dalle belve, o devo pregare come Gesù nell’orto degli ulivi?
Cosa devo fare?

Nelle tue mani, Signore, affido il mio Spirito.
Sono confuso e non so cosa decidere, so solo che voglio vivere.

Comunque, sia fatta la Tua volontà, e non la mia.

© Mauro Moscone





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