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Fa male, sai?
di Carlo Mocci
Pubblicato su SITO


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Bene, allora, che ti dicevo? Ah, sì. Ti ricordi quel nostro compagno di liceo, con i capelli rossi, come si chiamava... sì, insomma, quello piccolo e scheletrico, mezza cartuccia, con una gamba più corta dell'altra, che quando veniva avanti sembrava un motore sbilenco... Dai, davvero non ti ricordi il nome? Guarda che Forti, quel cinghiale che si esprimeva solo a ceffoni, lo chiamava Rosso Malpelo! Che fantasia, detto tra noi... insomma, ci siamo capiti.
Bene, ti dicevo. Ero in fila all'ufficio postale per pagare la bolletta della luce. Sì è vero, potrei pagarla su Internet magari dopo avere fatto un corso, o al bancomat, o potrei farmela addebitare direttamente sul conto, però... vedi, non mi fido. E se poi succede qualcosa? E se poi ti dicono che non hai pagato? La ricevuta, dici? Ma è stampata da te, che valore legale può avere? Invece così c'è il loro timbro, non possono fregarmi.
Comunque, ero in fila all'ufficio postale. C'era tantissima gente. Non capisco perché tante persone continuino a andare di persona a pagare le bollette con tutte le tecnologie che abbiamo oggigiorno. È pazzesco, evidentemente è tutta gente che non ha di meglio da fare.
Insomma, non divaghiamo. Ero lì in fila che aspettavo il mio turno. L'impiegata della mia fila era particolarmente lenta, come al solito. Mi capita sempre la fila peggiore, non c'è niente da fare. Vabbé che sono tutti dei fannulloni. Nell'attesa mi guardavo intorno. Il salone delle Poste Centrali era proprio pieno, tanto che il condizionamento soffriva e arrancava. C'era odore di soffritto per il tanto sudare. Che schifo! Non tutti purtroppo sono come me, che tengo all'igiene e ogni settimana faccio il bagno, anche se a volte non è che sarebbe proprio necessario. Ma io sono fatto così, che ci posso fare, è colpa della mia mamma che mi ha abituato all'igiene personale.
A un certo punto la folla ha cominciato a ondeggiare. C'era qualcosa che attirava l'attenzione di tutti verso un punto del salone. Si sentivano degli scoppi di voce. Il caldo era insopportabile. Ho deciso di fissare nella mente per ricordare questo giorno proprio il caldo e quegli scoppi di voce, come delle piccole esplosioni in un crescendo.
La folla ha ripiegato, si sono udite ancora quelle voci. Da dove ero, in un anfratto laterale dell'enorme ufficio postale, non riuscivo a vedere che cosa stesse succedendo.
Qualcuno ha urlato, lontano: "Lo lasci stare! Chiamo la polizia!".
Insieme a tutti gli altri mi sono messo in punta di piedi per cercare di vedere, senza spostarmi. Eravamo tutti molto incuriositi, ma nessuno intendeva andare a vedere e perdere il posto in fila.
Si è udito urlare ancora: "Lo lasci stare, mi sente?".
Finalmente un giovanotto vicino a me si è deciso a muoversi, bontà sua. Era uno di quegli energumeni che si vedono oggi così spesso nelle nostre strade, sai, alti e grossi con gli anfibi e il giubbotto di pelle nera. E non sono nemmeno sicuro che fosse italiano puro al cento per cento, anzi, sai che cosa ti dico? Doveva essere del Nord-Africa o giù di lì, una specie di mezzo arabo. Ci stanno invadendo, tra poco non avremo nemmeno più il diritto di respirare la nostra aria.
Comunque, questo tizio ha cominciato a farsi largo tra la folla, dirigendosi verso il punto da dove arrivavano le urla. Era proprio un energumeno, ma la gente non accennava a spostarsi perché erano tutti rivolti verso il punto dove stava succedendo quella cosa e non lo vedevano arrivare. Lui allora ha cominciato a farsi largo a botte e spintoni, e qualcuno protestava a bassa voce, qualcuno lo guardava storto. Ma lui non rallentava nemmeno, era come una nave rompighiaccio e nessuno si fidava troppo a importunarlo.
Intanto in mancanza di meglio tutti si tiravano al massimo su sulla punta dei piedi per cercare di vedere.
A quel punto è successo qualcosa d'altro. Lì davanti doveva essere cambiato qualcosa: è nata tutta un'agitazione nuova mista a paura. Si è sentito un suono forte e indecifrabile. L'impiegata ha abbandonato il suo posto allo sportello ed è scomparsa nel retro dell'ufficio postale. È a quel punto che mi sono deciso ad andare a vedere, tanto ormai la coda non esisteva più e non c'era più né capo né coda, scusando il gioco di parole.
Lontano, la folla si era aperta lasciando libero uno spazio circolare. Avvicinarsi era impossibile, così ho preso una poltroncina imbottita, di quelle verdi, hai presente?, e la ho avvicinata a uno di quei tavolini alti divisi da setti ai quali ci si appoggia in piedi per compilare i moduli. Sono salito sulla sedia e da lì sul tavolino.
Era di plastica e metallo e ondeggiava un po', il tavolino, però non ha ceduto, a parte un setto che ho divelto afferrandolo per tirarmi su; ma pazienza. Sono cose che capitano, e comunque ci sono cose più importanti, con tutti i soldi che si mangia lo Stato. Non ho mai chiesto un soldo, se una volta tanto faccio spendere io loro, non mi toglierà certo il sonno. E poi con la gente che ho dovuto spintonare per conquistare quel posto, era l'ultimo dei miei pensieri, questo.
Da là sopra finalmente potevo vedere che cosa stesse succedendo. Nel cerchio lasciato libero dalla folla c'era un ciccione gigantesco, la pelle unta. Anche i capelli erano unti, veramente, e anche i vestiti. Era voltato proprio nella mia direzione e si agitava.Di fronte a lui stava il mezzo arabo, che lo fronteggiava. Il ciccione è scomparso per un attimo e quando si è tirato di nuovo su teneva per il colletto un tipo piccoletto, tutto spettinato e con gli occhiali di traverso, i capelli rossicci con fili grigiastri.
Dapprima non l'ho riconosciuto: era proprio brutto, tutto rinsecchito. Ma aveva sempre la stessa espressione un po' offesa e un po' triste dei tempi della scuola, e questo mi ha messo sulla strada: era il Rosso! Sì, proprio lui. Certo che di tempo ne è passato! Quanti anni saranno? Trenta? No, di più, devono essere almeno quaranta, avevamo quindici o sedici anni. Pensa, non l'avevo mai più incontrato, da allora. Memoria formidabile, la mia.Comunque sia, il ciccione l'ha tirato su come se raccogliesse una giacca da terra, poi, tenendolo tra sé e l'energumeno mezzo arabo, gli ha assestato un altro paio di ceffoni facendogli volare via gli occhiali, che sono scomparsi nel mare di teste.
Il mezzo arabo a quel punto ha afferrato il ciccione unto per il bavero e gli ha dato un bellissimo pugno proprio in mezzo alla faccia. Ho visto il muso del trippone rientrare accartocciandosi. Come minimo gli ha rotto il naso, fantastico! Il sangue ha cominciato a colargli. La folla rumoreggiava in segno di apprezzamento. Al diretto al viso il mezzo arabo ha fatto seguire un pugno proprio sotto lo sterno, e il sacco di lardo è andato giù. Eravamo tutti eccitati e allegri.
Volendo vendicare il mio compagno di scuola, ho lasciato il mio trespolo usando la sedia di prima. Ero deciso a dare una bella lezione al grassone, se l'era proprio meritata. Ho sollevato il alto sulla testa la sedia e ho cominciato, a spintoni, a farmi largo tra la folla.
Tra spinte e imprecazioni sono riuscito ad arrivare al bordo del cerchio. Il mezzo arabo stava lì immobile, sorvegliando il ciccione privo di sensi.
Ho sollevato il più possibile la sedia e con tutta la forza che avevo l'ho abbattuta sulla testa del ciccione: avrebbe imparato ad approfittarsi delle persone deboli e inermi, a far male al mio compagno di scuola!
Ma qualcosa è andato storto. Nel cercare di dare al colpo più forza possibile, mi sono sbilanciato e ho abbattuto a tutta forza la sedia sulla spalla del mezzo arabo.
Quel bastardo non ha capito che stavo solo dando una lezione al ciccione e difendendo il mio compagno. Come uno stupido ha reagito dandomi un pugno proprio sull'occhio. Ho visto tutte le stelle del cielo. Poi non contento mi ha colpito al petto, togliendomi il fiato. Un vero figlio di puttana!
E come se non bastasse, le persone lì vicino si sono incazzate come se fossero affari loro. Hanno cominciato a tempestarmi di pugni, e quando sono caduto mi hanno preso a calci nelle costole e mi hanno coperto di sputi.
Non so poi che cosa mi sia successo. Mi sono svegliato su un'ambulanza che correva a tutta velocità, senza aprire gli occhi tanti erano gonfi, e con le ossa rotte.
Mi hanno portato qui al pronto soccorso, io non volevo. La mamma starà in pensiero, mi dicevo, e poi che cosa ci faccio qui? Volevo ritornare a casa, i miei canarini e i miei pesci rossi avrebbero sentito la mia mancanza. Ma non riuscivo a parlare, ogni volta che aprivo la bocca sentivo il sangue colare e non riuscivo a controllare bene il movimento delle labbra.
Alla fine quei rozzi infermieri mi hanno sbattuto su una lettiga e via dentro. Come se fossi un delinquente o un pazzo.
Guarda, avevo già deciso di chiamare la polizia e di farmi riportare a casa, quando ti ho visto. Ma guarda il caso! Un mio compagno di scuola proprio qui, al pronto soccorso. E' il secondo in un giorno! Che coincidenza. Ti ho riconosciuto subito. Se, sei... Aspetta, non ricordo il tuo nome, ce l'ho sulla punta della lingua, non dirmelo. Ti sei sistemato proprio bene, eh? Si vede. Certo anch'io non me la passo male, tra la mia pensione di invalidità per quella vecchia faccenda, non so se hai sentito qualcosa, e la pensione di mamma. Però sicuramente a te va proprio bene, a me puoi dirlo. Lo so, lo so, i medici guadagnano bene, stanno bene, eh? Senti, piano però con quel disinfettante. Fa male, sai? FA MALE, SAI?

© Carlo Mocci





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