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Le dieci di sera, nella vecchia stazione con gli intonaci cadenti e gli arredi allo sfascio si aggirano singolari figure che animano la notte. Il capostazione spia, annoiato, l’arrivo di un treno e scompare nell’ ufficio dove dialoga muto con la sua solitudine. Vestito di stracci maleodoranti e scaldato da una coperta senza più trama né colore, un barbone dorme nella sala d’aspetto con i piedi fuori dal suo letto di cartone, di fianco una busta di plastica unta e nera con gli oggetti della sua casa mobile. A ridosso di un muro sbrecciato, sotto la pensilina, un’ insegna sbilenca a caratteri neri sbiaditi dal tempo indica: Bar della Stazione. Dietro la porta a vetri, oltre la quale quasi più nulla traspare, il suo interno, angusto e dimesso, è illuminato soltanto da un’ambigua figura di donna con la sua vertiginosa gonna rossa, il bustino di paillettes e le labbra turgide impastate di rossetto. Seduta sull’unica sedia di plastica, languidamente immersa nel fumo dell’ennesima sigaretta, racconta del suo ultimo amore al barista che, stanco, i gomiti poggiati sul bancone e il viso tra le mani, ascolta e sogna di quegli amori che non ha mai avuto. Sul marciapiedi del primo binario due giovani. Uno, alto e allampanato, tutto jeans, stivalacci e catene alla cintura, l’altro, tarchiato, coi capelli ricci e neri che gli coprono il viso, articolano parole incomprensibili; fumano e bevono dalla stessa bottiglia, si fermano, ridono sguaiatamente e la lanciano vuota sui binari. Poi, barcollando, procedono senza meta. Addormentato dietro il bidone della spazzatura, un cane randagio, ormai ospite fisso del luogo come il barbone, abbaia spaventato dal fragore dei vetri e fugge saltellando sulla zampa rotta. Sul marciapiedi opposto due panchine scolorite e malferme, tre vecchi lampioni dalla luce giallastra e l’ingresso del sottopassaggio le cui pareti, variamente disegnate e colorate da messaggi d’amore o di stragi, incutono timore e promettono strani incontri. Poggiato sulla balaustra che lo definisce, un ragazzo infreddolito si protegge le spalle con uno zaino più grande di lui. Suo padre, che ogni mese lo accompagna alla stazione, senza parlare, aspetta di vederlo salire sul treno e partire, ogni volta sperando sia l’ultima. Finzione o realtà? Il vento muove nubi lunghe e sottili a tratti luminose. Angela con la borsa a tracolla sotto il braccio poggia a fatica sulla panchina la pesante valigia rossa mentre stringe al petto un libro. Un libro è sempre con lei, ogni volta diverso ma sempre rifugio per i suoi sogni. Si guarda intorno, un brivido corre lungo la schiena, non è solo freddo. In un attimo, misto di timore e fascino, in quella luce così surreale, si sente comparsa di quello stesso spettacolo. Poggia il libro sulla valigia, senza perderlo di vista, si tocca il viso, stringe le braccia attorno alle spalle, chiude e riapre gli occhi e scopre davvero la realtà sconcertante di un pezzo di mondo e di vita che solo certi luoghi e il buio rivelano. Non aveva mai viaggiato di notte, non aveva mai accompagnato qualcuno alla stazione di sera; a quell’ora, “quello non è un posto per donne” dicono in tanti. Un fischio che lacera il silenzio e due fari luminosi come dardi scagliati nella notte annunciano il treno che riduce la sua corsa lentamente, fermandosi con stridio di freni. Nessuno scende dalle vetture stipate di persone e bagagli. Sale sulla carrozza numero quattro mentre il ragazzo, con un piede sul predellino della tre, saluta il padre che, a passi lenti e il capo chino sotto il peso dei suoi pensieri, si allontana. Un odore sgradevole di oggetti e persone investe Angela. Qualcuno già sonnecchia, un bimbo piange. Facendosi largo a fatica tra gli ultimi passeggeri e le loro valige ingombranti nello stretto corridoio, raggiunge il suo posto nello scompartimento numero due. La tappezzeria scolorita e logora non ha nulla di invitante. Entra, saluta, sistema la valigia e si siede mentre il treno riparte. Una donna e tre uomini i suoi compagni di viaggio. La donna, molto giovane, ascolta musica con gli auricolari e accenna un sorriso. Gli uomini parlano piano e le parole e i visi hanno la rassegnazione di chi per lavoro passa molte notti in treno e molti giorni lontano dai propri affetti. Angela, seduta vicino alla porta che si affaccia sul corridoio, è contenta perché non dovrà disturbare nessuno per muoversi. Apre il suo libro e comincia a leggere, mentre le prime teste si inclinano sonnolenti e le voci si affievoliscono fino a tacere. Qualcuno chiede di spegnere la luce; inizia la lunga notte insonne dove nessuna posizione del corpo è felice. Corre il treno sui binari; a volte scivola sulle lisce rotaie, altre sussulta con rumore di ferraglia. Nel corridoio, solo una luce cupa e un odore di chiuso che penetra tra le pieghe della pelle. A un tratto una mano furtiva accende la luce interna, in alto nello scompartimento; un controllore sbucato dal nulla, con fare brusco e senza alcun rispetto per chi si è appena assopito, chiede i biglietti e poi scompare furtivo, dissolvendosi alla stessa velocità con cui era apparso. Un passeggero assonnato avanza barcollando, scavalca due valige buttate lì per terra, si guarda intorno, sbadiglia e torna indietro. Angela non riesce ad assopirsi e l’alba è ancora lontana. Intontita e un po’ soffocata nello scompartimento, ormai saturo di odori umani, si alza e muove brevi passi nel corridoio attratta da uno strano brillio. Incollata al finestrino guarda fuori. Si stropiccia gli occhi, quasi sfiora il vetro umido con il naso. Si allontana, ritorna a sfiorarlo e con la mano cancella un po’ di quella cortina di vapore che lo ricopre. Un luccichio all’esterno cattura il suo sguardo. Proiettate dall’alto, scie luminose si allungano nel buio, argentee e leggere a formare raggi che lievemente, come rivoli d’acqua, penetrano la terra e la ristorano mollemente. Le percorre per intero all’incontrario, su, sempre più su, fin dove sembrano ricongiungersi in un punto luminoso e lontano. Quella luce nel cielo appare strana, la sua forma non di semplice stella si allarga e si sdoppia in due cerchi che si intersecano. Chiude gli occhi e li riapre, sbatte le palpebre più e più volte, le lune sono due, una grande e l’altra piccola. Pensa di sognare e pizzica il suo corpo; è sveglia, non è un miraggio . Quella luce nel buio accarezza il paesaggio ancora addormentato che scorre silenzioso tra fumi di nebbia sottile. Una brina bianca e impalpabile ricopre il terreno, e protegge con una leggera coltre di ghiaccio tutto quello che in esso riposa. Alberi senza foglie, uomini nudi, tendono le braccia al cielo in muta preghiera. Tutto è tacito e solenne. La natura riposa. Angela teme che il suo sguardo e il suo respiro possano turbare tanta quiete. Il treno corre. Una macchina, sbucata improvvisamente dal buio, corre. Anche i radi lampioni sulla strada e le piccole luci di un paesino laggiù sembrano correre insieme al treno. E ancora le due lune. E nella sua testa scorrono i fotogrammi di un film. La vita, i pensieri, i sogni, le debolezze, le passioni, la gioia e la tristezza, una poesia , una canzone: “Vorrei incontrarti fra cent’anni….”. Incontrare se stessa, incontrare gli altri, in un incontro più sussurrato, più intimo: scrivendo. Tante volte ha scritto, alcune volte ha smesso. Pochi fogli chiusi in un cassetto, tanti iniziati e accartocciati in un cestino senza posto, in un luogo qualunque. Persone, emozioni, ricordi, immagini in quelle righe. Nella grafia il suo pensiero, la sua voce che parla. Parla con tutti e non si aspetta risposte. Con chi è dalla sua parte e con chi la fa star male. Su un foglio bianco possono rotolare anche parole e pensieri di rabbia, e lui non ti accusa. Accetta le tue parole a serpentina, interrotte, cancellate, sconnesse, trafitte, macchiate. Si fa scarabocchiare, lasciare, riprendere, disegnare, accartocciare, strappare, cestinare,…per poi ricominciare. E’ muto e se lo tocchi può solo vibrare perché la mano vibra delle tue emozioni. Pudicamente nascosto, non si fa trovare da nessun altro. Affonda nella scatola insieme a un cartoncino d’auguri, a un orecchino spaiato della nonna, a una scatolina in porcellana di quelle che ti piacciono tanto, al libro delle poesie di Neruda, alle prime scarpine di tuo figlio. Angela è sempre lì al finestrino. Estrae un foglio di carta stropicciato dalla tasca del cappotto e una matita dalla punta un po’ smussata. Appunti di viaggio. Ancora le due lune! La grande, nella sua splendida luce argentata sovrasta ogni cosa, anche se solchi profondi, superfici dure e irregolari disegnano il suo volto. L’altra, più lontana, sembra solo una piccola stella dietro il vetro che ne sfuoca ancor più i contorni e sfuma la sua faccia. Un attimo e il gomitolo dei suoi ricordi si srotola nella mente. Luna grande, luna piccola. Angela di oggi, Angela di ieri. Per tanti e tanti anni della sua vita ha visto dappertutto il sole, il cielo azzurro, i mille colori del mare mutare durante il giorno. Ha visto solo prati e fiori e campi fertili. Ha ascoltato canzoni, ha imparato a memoria le parole di quelle con i suoi ricordi. Ha letto poesie e ricordato versi. Ha avuto tanti amici, ha guardato e incontrato gente bella e felice. E’ stata semplice. Ma la luna piccola si allontana sempre più. Angela tenta di catturarla con lo sguardo mentre lentamente si va dissolvendo. La grande s’allarga e con forza tenta di coprirla. La strattona, la spinge, la soffoca con la sua mole imponente; lei, piccolina, sente che non ce la fa più. E’ notte piena. Ma il conducente di quella macchina laggiù guarda dritto la strada. I suoi fari potrebbero far luce verso l’alto e non sempre davanti sull’asfalto! Che ci fa quell’uomo al volante se non vede ciò che succede intorno? E’ un lavoratore assonnato che come un automa va verso la fabbrica, lui misero ingranaggio di una catena che uccide i suoi sogni? O forse, un giovane perso nei fumi di un'allucinazione, che torna a casa dopo una notte sfrenata? L’autoradio è accesa: “Problemi di viabilità nelle prime ore del giorno per la presenza a tratti di banchi di nebbia”…, “l’oroscopo del giorno”, annuncia il DJ… “ma il cielo è sempre più blu”… canta Rino Gaetano. Nella testa nessun pensiero, nello sguardo il vuoto. Anche le mani che stringono il volante sono rigide protesi di una mente meccanica. L’uomo è solo. Chiunque esso sia, Angela non può scrivergli, non può parlargli, non può ascoltarlo. Per un attimo sogna di entrare nella sua macchina, essere un amica di viaggio. Essere un faro che con la sua scia luminosa lo fa guardare lassù. Essere una voce e dire:”Guarda nel cielo, c’è anche la tua luna, la sua luce argentata e i suoi solchi, la tua vita”. Non hanno voglia le lune di stare lì nel cielo, mere spettatrici di vite senza sogni. Forse la tua luna piccola non la immagini nemmeno, non vuoi guardarti indietro. Ma quella grande sei tu, oggi con il tuo presente e il tuo futuro. Nel cielo ci sono tante doppie lune, quanti uomini sulla terra. Simili eppure diverse, totalmente o parzialmente visibili, con zone d’ombra e di luce, con dune e crateri, lune donne e lune uomini. Nelle piccole, belle o brutte, c’è il nostro passato da ricordare o dimenticare. Nella grande la vita che continua. Nessuno ha il diritto di rubare all’uomo la sua luna grande, le speranze e i sogni del domani. “Prendiamo carta e matita. Ma facciamo in fretta prima che nasca il giorno. Disegna come me nel cerchio argentato della luna grande il futuro che vorresti. Guarda le immagini dei tuoi sogni sul suo schermo brillante. Hai attraversato la nebbia e non te ne sei accorto”. Il cielo comincia a tingersi di rosa, con striature di viola e porpora. Sulla linea dell’orizzonte, tra terra e cielo, non più un continuo ma sprazzi di luce che annunciano l’aurora. La strada che costeggia la ferrovia non è più vuota e sull’asfalto macchine, camion, biciclette e motorini di chi ritorna nei luoghi di lavoro per ripetere un rito che scandisce i giorni. E’ quasi giorno e nel vagone prima addormentato tutto si anima. Qualcuno stiracchiandosi muove passi lenti nel corridoio; valige vengono trascinate verso lo sportello del vagone, mentre di là dal vetro l’insegna blu a caratteri bianchi di una stazione dice che il viaggio ormai sta per terminare. La luce delle lune si è spenta, peccato che gli altri hanno dormito.
©
Maria isabella Binetti
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