Erano ormai sette anni che Giorgia non faceva visita alla tomba di famiglia. Prima c'era stato il rifiuto, poi il dolore, poi l'imbarazzo. Infine la stanchezza.
Ad una scusa era succeduta l'altra, e pian piano tutti avevano semplicemente smesso di pretendere la sua presenza. Anche i morti.
Per lei l’intera liturgia della visita non aveva senso. Puzzava di ipocrisia e pentimento tardivo, nonché di una superstiziosa forma di assicurazione per il futuro. Nessun rispetto, nessuna devozione. Un mucchietto di ossa a marcire sotto terra, mesi su mesi, anni su anni. In attesa di che cosa? Di una visita, di un fiore, di una preghiera detta a mezza voce?
La maggior parte delle persone è in difficoltà, di fronte ad una lapide. Il respiro si fa più corto, i movimenti più pesanti, la bocca più impastata. Le parole faticano a uscire, si pone una cura eccessiva nello sceglierle.
“Pare d'essere di fronte ad un tribunale, più che altro” ragionava lei. “E io non vado là a farmi giudicare!”.
Una forma di resistenza flebile e facilmente contestabile, ma nessuno si sarebbe preso la briga di farglielo notare.
“Senza contare il fatto che il dolore è privato, è solo, deve esserlo!”.
Il suo dolore non era uguale a quello di quel signore stempiato che piangeva il figlio, a quello della vecchietta dal cappello ridicolo che cambiava l'acqua ai fiori del marito, a quello della famiglia vestita – ancora! - a lutto.
“Ciascuno ha il suo dolore, e ogni dolore ha il suo padrone. Un luogo non può contenere così tanto, semplicemente non può”.
Ma quel giorno era diverso. No, non perché avesse cambiato idea a riguardo: le sue resistenze rimanevano, anzi, si facevano più forti, sempre più forti man mano che la distanza che la separava dal cimitero diminuiva.
La piccola cappella di famiglia era in un paese di cento anime in Carnia. Due vie, poche case, un bar, la chiesa, un'altra chiesa in alto, a dominare il paese e la distesa di un cimitero troppo grande se messa in rapporto al numero degli abitanti.
“Più morti che vivi, in questo posto!” commentava Giorgia ogni volta che ci metteva piede.
L'avversione per i cimiteri aveva origine antica e andava oltre i motivi personali. Era questione etica e di principio. Ricordava la visita a Parigi, i grandi cimiteri della città, luoghi di culto. Alcune tombe – come quella di Beckett, squadrata, spigolosa, nemmeno un fiore a vezzeggiarla; o quella di Wilde, piena di ornamenti e di fronzoli – così simili ai loro abitanti.
E poi tutto quel vociare, quel rincorrersi di ragazzini e giovani intellettuali per Pere Lachaise.
“Jim Morrison è di qua, muoviti, muoviti”.
“Edith Piaf non la trovo...tira un po' fuori la mappa”.
“Aspetta, qua c'è Proust. Dopo quello che m'ha fatto penare a scuola con la sua Recherche!”.
L'aveva colta allora un indescrivibile fastidio. Così poco rispetto. Così poca dignità. Era necessaria una lontananza, una sottrazione almeno fisica, se non simbolica. Un passo indietro. Non asfissiare con la propria presenza, non imporla a loro, che non si possono ribellare o lamentare. Per questo lei si teneva sempre a debita distanza.
“Sono morti. Non ti mangiano mica!”.
Una risata che echeggia forte nel cimitero pressoché deserto. Giorgia si gira inviperita alla ricerca del volto che corrisponda alla voce: un ragazzo sulla ventina. Giorgia lo incenerisce con lo sguardo. Lui, incurante, si avvicina.
“Cos'hai, paura?” chiede quello, sempre sorridendo.
“No”.
“E che c'è allora? Puoi andare più vicino”.
“Lo so”.
“Non ti piace questo posto?” le domanda piano, osservandola attentamente.
“Ci mancherebbe, è un cimitero!” esclama con sdegno.
“A me invece piace… Mi piace venire qui” con la mano fa un gesto ampio a descrivere tutto il cimitero.
“Perché?” domanda Giorgia, fissandolo con gli occhi socchiusi. “Hai parenti sepolti qui? Amici?” incalza lei. Il ragazzo scuote la testa.
“Vengo qua e penso ai miei morti. Ma anche a questi morti, anche se non so chi siano”.
Le spalle si alzano e si abbassano, come a dire “e che ci vuoi fare”.
“Certo, uno vale l'altro no?” sbuffa ironica Giorgia “Sono tutti morti, no? Hanno questo in comune”.
“No, hanno in comune che una volta erano tutti vivi” replica lui.
La risposta, così semplice nel suo candore, la prende in contropiede. È vero, una volta tutte queste persone erano vive. In tempi e in modi diversi, ma ognuno di loro respirava, mangiava, faceva l'amore, dormiva e si risvegliava.
“Sì, una volta lo erano” commenta Giorgia, la voce priva di ogni connotazione emotiva.
Cosa scrivere sulla propria tomba? Come trovare una frase, delle parole, dei suoni che pronunciati possano sintetizzare un'intera vita?
Certo, alcuni ci riescono. Le tornavano alla mente certi epitaffi famosi, studiati già al liceo, come il “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope: cecini pascua, rura, duces” di Virgilio. Oppure “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” di Kant. Con un sorriso ricordava quello di Walter Chiari, letto su un qualche giornale: “Amici non piangete, è solo sonno arretrato”. Terribilmente rassicurante, a modo suo. Come una carezza.
Qui invece nulla di particolarmente originale. Ci si contiene. È un cimitero di gente comune, senza troppe velleità o troppe pretese. Meglio così. Anche lei avrebbe optato per la sobrietà.
Una voce rauca interrompe il flusso dei suoi pensieri. A pochi metri da lei una vecchiettina curva curva, con in mano un cesto di fiori: sembra uscita da una fiaba. Procede di tomba in tomba, riponendo su ciascuna un fiore, secondo quello che pare un rito ben consolidato.
“Ecco, un narciso per Narciso”. Una risatina sommessa. “Una margherita per Margherita”. Si ferma a guardare Giorgia, oltre Giorgia, un punto non ben definito alle sue spalle. “Le persone finiscono per assomigliare al proprio nome. Io cerco di ricordarlo sempre”. Prosegue nel suo lento pellegrinaggio.
“Cosa fa?” chiede Giorgia perplessa.
“Il prete, quand’ero piccola, mi diceva sempre ‘E' giusto che tutti abbiano due occhi e un pensiero e delle mani giunte’. Indica con il capo le tombe. “Io ci aggiungo: e un fiore!” il sorriso si apre sulla bocca sdentata.
Giorgia la osserva. “Lei conosce tutti qui?”.
“Eh quasi, quasi”.
“Questo” Giorgia indica la tomba a lei più vicina, quasi con aria di sfida. “Questo, chi era?”.
“Ah! Alfredo. Alfredo era un poveraccio. Non sapeva vivere, si sapeva solo raccontare. E si è bevuto l'anima all’osteria del paese”.
L'osteria del paese. L'ancora di salvezza del gruppo sparuto degli uomini, e la disperazione delle loro mogli. Dovevano andare a recuperarli uno a uno, alla sera tardi. Prenderli per mano come si fa con i bambini, e condurli a casa, forse anche rimboccare loro le coperte, mentre quelli si erano già persi in un sonno profondo. Ogni giorno all'osteria ciascuno dimenticava se stesso e gli altri per qualche ora. E puntualmente se ne ricordava bruscamente al mattino presto, quando c'era da alzarsi e cominciare un'altra lunghissima giornata nei campi. Non si parlava mai, nei campi. Ore e ore in silenzio. E poi, finalmente, la sera. E allora il coraggio un poco usciva e le parole pure. Ma insieme una disperazione forte, che bisognava mettere a tacere in qualche modo, annegare nei litri di vino rosso. Che se ne stesse buona e quieta, che li lasciasse in pace almeno lei, almeno per qualche ora.
Giorgia comincia a camminare a fianco della vecchia.
“E questo qui?” le domanda, incapace di nascondere ora una certa curiosità.
“Luigi. Poverino, è morto giovane. Incidente stradale. Era un mio lontano cugino”.
Un lontano cugino. E chi se li ricorda i cugini? Chissà che facce hanno adesso, adulti. Chissà che lavoro fanno, saranno sposati, vivranno da soli, avranno fatto figli?
Tutto così diverso da quando la mattina all'alba ci si alzava dopo aver sentito il gallo cantare e chi arrivava ultimo alla piazza della chiesa già doveva pagare pegno. Di solito toccava a lei portare le canne da pesca e le lenze di tutti. Persino le esche, che le facevano schifo. Anche se era una femmina, o forse proprio perché era una femmina.
L'acqua del lago era sempre gelata, e non le riusciva d'abituarsi. Appena le arrivava al petto si sentiva trafiggere da una sensazione di malinconia infinita. Un qualcosa di primitivo, una forza atavica che l'avvolgeva, e non riusciva a liberarsene nemmeno tornata a riva.
Le giornate erano lunghissime allora, c'era posto per tutto. Eppure era passato tutto così in fretta, e adesso non c'era più posto per niente. “Solo rimpianti e recriminazioni” pensa con amarezza.
Lentamente arrivano anche di fronte alla cappella della famiglia di Giorgia. La vecchia si fa un segno della croce veloce e poi rivolge la propria attenzione altrove.
“Ma...e loro? A loro niente fiore?” chiede Giorgia, sorpresa e un poco ferita. “Non li conosceva?”.
“Ah, certo che li conoscevo! Ma guarda che bel posto che hanno per riposare”. Fa un gesto a indicare la cappella. “E dentro ci sono tanti fiori. C'è già chi pensa a loro”. La vecchia le cinge il polso con la mano, quasi a trattenerla. “Ci sei tu”.
I loro sguardi s'incrociano per un istante soltanto. Giorgia annuisce col capo, e deglutisce forte. La vecchia continua, la voce serena e priva di incrinature.
“Da loro puoi sapere tante cose. Forse troppe cose, cose che non vorresti sapere o che vorresti poter cancellare”. Guarda Giorgia negli occhi e la trafigge rapida: “Ma loro fanno solo il loro lavoro, semplicemente il loro lavoro: non ti permettono di dimenticare”.
Giorgia ha il capo chino, e tace.
“Perché li vuoi dimenticare?” continua.
“Perché posso”.
La vecchia scuote la testa e riprende il suo percorso. Giorgia rimane a guardarla, immobile per qualche minuto. Poi finalmente si decide a entrare nella cappella di famiglia. Respira a fondo, l'aria umida e la puzza di chiuso le pervadono i polmoni. Tutto è come lo ricordava. Forse solo un po' più piccolo. Stende la mano a toccare il marmo freddo. Passa un dito sopra i nomi e le date. Soffia via la polvere dalle fotografie sorridenti.
È vero, i fiori sono tanti. Addirittura qualche peluche. E anche i lumini. Tira fuori l'accendino e ne accende due. Il suo sguardo si posa sui vari oggetti, ricordi, regali portati lì: sono testimoni di un'esistenza diversa, di un prima. C'è il cane in plastilina che aveva dovuto fare a scuola per la festa della mamma. È lì a fare la guardia. La fa sorridere. C'è un ritratto fatto a carboncino, messo in una busta di plastica per proteggerlo dal tempo e dalla corruzione. Il pallone da calcio, la pipa, il profumo. Un pensiero per ognuno, ad ognuno qualcosa che gli era stato caro in vita. Cercare di unire le due dimensioni, scavalcare la distanza, vincere il tempo. Una consolazione per chi se n'è andato, e soprattutto per chi è rimasto. All'improvviso è tutto troppo: deve uscire.
È di nuovo fuori, all'aperto, nel sole, in vita. Sembra così labile il confine. E così facilmente attraversabile. Guarda la vecchia pieve, il suo alto campanile. Scorge la sagoma di un uomo e si fa schermo con le mani per averne la certezza. La riconosce: si staglia nitida nel sole di mezzogiorno. Ne traccia i contorni con le dita. Poi, con un sospiro, inizia a salire verso il campanile. Gli si avvicina lentamente. Lui, di spalle, certo l'ha sentita arrivare.
“Mi fa piacere che tu sia venuta”. La voce è roca, piena di gratitudine e tristezza.
Giorgia annuisce semplicemente, e non fiata.
“Quant'era, che non venivi? Cinque, sei anni almeno...”
“Cinque. Cinque anni”
“Cinque anni...” le fa eco lui. Si schiarisce la voce. “Mi fa piacere che tu sia venuta” ripete.
“Da quant'è che sei qui?” domanda Giorgia, cercando di mantenere un'intonazione neutra.
“Da un paio d'ore” risponde lui.
“Non ti ho visto...”.
“Sono stato in macchina. Poi sono salito qua. Là dentro, là dentro non sono ancora entrato”.
Finalmente si gira. È di molto invecchiato, il volto è segnato e stanco.
“Sei vecchio” si lascia sfuggire Giorgia.
“Lo so. Tu invece sei sempre più bella”.
Giorgia arrossisce. Lui fa un passo verso di lei, le prende il mento e le scruta il volto.
“Le somigli moltissimo” dice.
Giorgia si sottrae alla presa e la mano di lui rimane a mezz'aria. Se la porta alla fronte, e se la passa poi tra i capelli radi.
Passano qualche istante in silenzio. Lui pare assorto nei suoi pensieri, guarda fisso verso l'orizzonte. Muove le sopracciglia velocemente e in continuazione, in una sorta di tic.
“Tu non mi hai ancora perdonato”. Non è nemmeno una domanda.
“No” conferma lei, con un tono più duro di quanto fosse sua intenzione.
“Pensi...” continua lui, esitante. Si passa la lingua più volte sulle labbra, apre la bocca quasi a voler forzare fisicamente le parole a uscire. “Pensi che loro mi abbiano perdonato?”
Giorgia non dice nulla. Il cervello sembra non funzionare più: impossibile coordinare pensieri e suoni. Passa qualche istante o una vita intera. Giorgia si sente improvvisamente pervadere da una sensazione di calma. Si guarda le mani come non le appartenessero e le tende, scioglie il nodo in cui erano intrecciate quelle di lui, le raccoglie nelle sue. La presa è forte: lui ricambia la stretta in una sorta di spasmo doloroso e prolungato.
“Io, non l'ho fatto apposta, l’altra macchina non l'ho vista arrivare...non l'ho vista, non potevo. Nessuno...”.
Giorgia si irrigidisce, sottrae le mani alla presa, e fa un passo indietro. Aspetta che lui si ricomponga.
“Nonno, io non lo so se ti hanno perdonato. Non credo nemmeno che importi più, no?”.
Lui scuote la testa e piange in silenzio.
“Però questo è il luogo giusto per tentare. Voglio dire, per sperare”. Con lo sguardo cerca la vecchia, ormai una macchiolina nera persa tra la fila di tombe, molto più giù. Poi, a voce più bassa “E per ricominciare”. Lui la guarda sorpreso. Annuisce, e continua a guardarla.
“Io, io vado”.
“Vuoi che ti accompagni? È un viaggio lungo, in treno”.
Giorgia scuote la testa. Con una tenerezza che non si riconosce gli passa una mano sulla schiena, leggera. Poi si gira e se ne va. Scendendo la ripida strada di sassi si sente improvvisamente così piena di vita.