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Va bene, verrò
di Carlo Mocci
Pubblicato su PBSE2019


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Quando la vide arrivare in lontananza avvertì il solito fremito di rabbia misto a angoscia, così intenso da stare male. Si impose di mantenersi calma: sarebbe finita in fretta, poi ciascuna avrebbe continuato per la propria strada, come era stato per gli ultimi dieci anni, durante i quali Francesca aveva letto e stracciato le numerose lettere che le aveva inviato; ma qualcosa nell’ultima l’aveva spinta ad accettare l’incontro.
Naturalmente pioveva. Francesca si era sempre immaginata così quel giorno fatidico, banalmente prevedibile come tutta la sua vita. Riconobbe da lontano quel suo passo particolare, un po' claudicante per via dell'antica caduta dalle scale, le gambe sottili, i movimenti a scatti, la piccola testa triangolare. La vide avvicinarsi avvolta in un impermeabile di plastica trasparente, che si teneva avvitato contro il corpo per respingere la pioggia, mentre camminava a piccoli balzi irregolari per evitare le pozzanghere e gli schizzi delle auto.
Si fermò a un metro da lei. Era diventata più vizza e grigia, dall'ultima volta, ed era molto dimagrita. Aveva il capo scoperto e i capelli fradici le si incollavano al viso creando una specie di merletto antiquato e sporco.
Disse, senza salutarla: «Andiamo in un bar. Ho bisogno di un caffé e di asciugarmi». La aggirò e cominciò a zoppicare lungo il marciapiede. Ancora una volta era lei a dettare le regole, gli altri dovevano limitarsi a seguirla facendo del loro meglio, che non era mai abbastanza.
La donna si infilò in un caffé vicino alla stazione degli autobus, e Francesca la seguì. Il locale era pieno di gente chiassosa e di vapore di abiti inzuppati di pioggia. Si insinuò tra le persone che affollavano il locale e conquistò un tavolo vicino ai bagni. Si lasciò cadere su una delle due sedie con un gemito. Francesca la seguì e si appropriò dell'altra sedia, sistemandosi sul bordo.
La donna aprì un poco l'impermeabile, scuotendolo per far sgocciolare via l'acqua: «Voglio un caffè ristretto e doppio. Tu prendi pure quello che vuoi. Ah, e anche dell'acqua gassata.»
Francesca avrebbe voluto risponderle in modo brusco che lei non era la sua cameriera, ma non aveva voglia di litigare per l'ennesima volta con sua madre. Si avvicinò al banco e ordinò il caffè doppio, l'acqua minerale e per sé un cappuccino. All'ultimo momento scacciando i sensi di colpa chiese che ci mettessero sopra del cacao.
Quando tornò al tavolo si accorse che la madre la stava osservando con un sorrisetto tirato sulle labbra. «Sei tale e quale tuo padre buonanima. Gli assomigli proprio.»
«Mamma, scusa, perché hai voluto che ci incontrassimo?» chiese Francesca cercando di contenere l'irritazione.
La donna continuò a parlare, ignorandola. «Da piccola non gli assomigliavi, ricordavi invece la... la...». Sollevò la tazzina e buttò giù un sorso. Fece una smorfia: «E' amaro. Buono. Dio come vorrei una sigaretta». Notai che la sua voce dall'ultima volta era diventata roca, profonda, quasi irriconoscibile. Solo ogni tanto spuntava tra quelle note basse qualche tenue testimonianza della sua voce così melodiosa, un tempo. Melodiosa e tagliente.
«Mamma, ti prego. Non divaghiamo. Ho lezione tra meno di un'ora, e troverò traffico». «Ho lezione, ho lezione, ho lezione...» fece la donna scimmiottandola. «Senti un po': sai che la tua qui presente mammina si è beccata un bel tumore al polmone?».
Francesca restò di stucco, la notizia la respinse indietro, contro lo schienale della sedia, il locale oscillò con tutte le persone, i tavolini, le luci…
«Sì, cara, non fare quella faccia. Capita, che cosa credi? tutte quelle sigarette... E comunque, non credo che ti dispiacerà, alla fin fine». Si interruppe per bere ancora un po' di caffè.
Francesca emise un filo di voce dal suo essere sconvolto: «Ma.. e... da quanto... tu..?».
«Sei mesi, esattamente sei mesi. Un dolore improvviso ad una spalla, qualche notte insonne e una visita dal medico, che mi ha ordinato una radiografia. E la diagnosi è stata di un tumore al polmone sinistro, così avanzato e ramificato che non è operabile. Chemioterapia, cara, solo chemioterapia! Mi ucciderà prima del tumore. E comunque non manca molto».
Finì il caffè gettando il capo all'indietro e scuotendo la tazzina per far colare anche l'ultima schiuma.
«Comunque non ti chiesto di vederci per dirti solo questo, o almeno non era questa la mia intenzione, inizialmente. Vedi, ho un mucchio di tempo per pensare, ormai. Perfino troppo. E ho capito tante cose. Noi non siamo andate mai molto d'accordo, lo riconosco; tutt'altro. Sin da piccola eri così, così... non saprei, così incurante. Ti rifiutavi di accettare o almeno di ammettere qualunque cosa che non appartenesse al tuo mondo, al mondo che ti eri creata. Proprio come tuo padre».
Gli occhi di Francesca si inumidirono al ricordo di quell'uomo ingombrante e silenzioso che era stato suo padre, che le parlava con poche parole e lunghi abbracci. Sentiva ancora quel misto di odore di pipa e acqua di colonia che lo avvolgeva come una nuvola sulla quale lui sembrava vivere.
«Io, invece, dovevo affannarmi per tirare avanti, per cercare di darvi una casa decente, qualcosa di caldo sulla tavola e abiti puliti e in ordine. E soprattutto, cercavo di prepararvi alla vita, non tanto tuo fratello, così indipendente e concreto. Dovevo soprattutto preparare te, scuoterti, buttarti giù da quella tua torre d'avorio del cavolo e farti tornare tra noi». Si fermò scossa da una tosse convulsa. Buttò giù qualche sorso d'acqua e piano piano la tosse si calmò.
«Mamma, io non credo che volessi dirmi solo questo, che volessi vedermi solo per questa... questa confessione. Queste cose avresti benissimo potuto scrivermele».
«Ho provato a scrivertele, ma sono sicura che tu abbia sempre stracciato le mie lettere. E comunque, è vero, questa era solo la premessa, c'era un altro motivo. C'era». Bevve un altro sorso di acqua. «C'erano delle cose che avevo deciso di... di... rivelarti, cose relative alle tue origini, diciamo. Mi sono detta: Anna, tra poco morirai, ora o mai più. Lei ha il diritto di sapere. Però ho cambiato idea. Ho capito che non avrebbe senso, e che comunque era solo un pretesto per chiederti una cosa.»
Francesca cercò di fermare il tremito che aveva cominciato a scuoterla: «Mamma, che cosa dici? che cosa devo sapere? non sono figlia di papà? è così vero? dimmelo! DIMMELO!».
«No, no, sei o meglio eri sua figlia. E non ti dirò altro, se non che non sei figlia mia, o meglio che non sei uscita da me, non sono stata io a portarti in grembo per nove mesi. Ma poi i figli sono i bambini che tiriamo su, per i quali lottiamo e combattiamo. Il resto non conta.»
Francesca si alzò e andò al banco; ordinò una grappa e ne buttò giù un bel sorso. Il liquido le bruciò la gola e la fece tossire.
Tornò al tavolo con in mano il bicchierino quasi vuoto. Si sedette e lo vuotò definitivamente. Sentiva nel petto e nello stomaco un gran fuoco.
«Mamma, mamma.» Francesca cominciò a piangere di un pianto silenzioso; le lacrime le colavano lungo il viso sciogliendo il trucco, e portando in giro per le guance e il mento il colore chiaro dell'ombretto e quello scuro del mascara.
La donna si alzò faticosamente, e si appoggiò con una mano al tavolino. «Su, non fare così. Anche questo è vita». Con la mano libera prese ad accarezzarle la testa, scompigliandole con delicatezza i capelli chiari e soffici.
Francesca si ricompose e si alzò, tirando su col naso. Pagarono e uscirono dal caffè.
La pioggia era aumentata. Le due donne si ripararono sotto il tendone che proteggeva la vetrina del locale.
Francesca si ricordò all'improvviso: «Avevi detto che in realtà mi hai incontrato per chiedermi qualcosa.»
La donna esitò un momento, sembrò cercare le parole giuste per vincere l'imbarazzo del chiedere per la prima volta qualcosa alla figlia. «Ti ho incontrato perchè vorrei che tu venissi al mio funerale. Almeno questo, nient'altro. Verrai?».
Senza aspettare risposta chiuse strettamente l'impermeabile intorno alla vita, estrasse dalla borsa logora un berretto di tela cerata e lo calcò sulla testa, facendola assomigliare a un marinaio del Mare del Nord.
Fece una carezza al viso della figlia e uscì dal riparo del tendone, affrontando la bufera col suo passo a scatti.
«Mamma!» le urlò dietro Francesca. La donna si bloccò in mezzo alla strada e ruotò sulla gamba sana. Le due donne si fissarono per un istante. Francesca aprì la bocca; ma la parola che stava per salirle alle labbra si gelò in gola nell'attimo stesso in cui un'auto, alla cieca in mezzo alla cortina d'acqua, colpì la donna sollevandola con il muso e proiettandola qualche metro più in là, dove cadde con un tonfo e giacque immobile, in posizione innaturale.
«Mamma» mormorò Francesca come inebetita, prima di gettarsi sul cadavere della madre per urlare al cielo tutta la sua disperazione: «Va bene, mamma. Verrò».

© Carlo Mocci





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