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Ancora una volta sei qui, inattesa.
Ti lascio entrare.
Decisa, come al solito, senza dire una parola vai verso il salotto, lasci cadere il soprabito sul divano e ti siedi su una delle due poltrone.
Chiudo la porta e ti raggiungo; il tuo profumo ha già invaso la stanza.
Mi chiedi da bere; conosco i tuoi gusti, scotch liscio, niente anestetici per la tua gola, né acqua, né ghiaccio, vuoi sentire tutto il ruvido di quel liquido raschiarti l'esofago mentre scende ad ampie sorsate. Hai i gusti decisi di una che sa troppo bene il fatto suo, che ha fatto e visto troppo.
Non ti lascio bere da sola, anche se non è la mia ora per un drink, ma sorseggio lentamente dal mio tumbler il liquido color ambra.
Mi siedo sulla poltrona di fronte e ti guardo, splendida, con i capelli neri lucenti che ti scendono sulle spalle.
Ti accendi una sigaretta; sai che non mi piace che fumi, ma tu non concedi molto alle mie opinioni, le ritieni inconsistenti come le volute di fumo che lente lasci uscire dalle labbra rosso fuoco e che sornione si perdono salendo verso il soffitto rosa. Mi guardi in silenzio mentre le tue labbra si serrano di nuovo sulla sigaretta. Odio quando fumi, ma lo spettacolo di quelle labbra mi fa trasalire.
Ti guardo, sei perfetta come al solito, il trucco aggressivo, ma per niente volgare, gli abiti di classe che esaltano il tuo corpo senza ostentare il lusso in cui sei cresciuta. La gonna al ginocchio che volutamente non copre molto delle tue gambe accavallate, le mani dalle dita lunghe con unghie laccate di un rosso scurissimo. I miei occhi, indifferenti agli ordini interiori di non farlo, si posano curiosi sulle cosce velate da sottili calze di seta nera.
La gamba destra poggiata elegantemente sull'altra accompagna la lenta rotazione del piede coperto solo in parte da un sandalo nero con la punta chiusa. Alla fine il mio sguardo resta ipnotizzato da quel movimento circolare attorno a quella caviglia sottile che, da sola, riuscirebbe a farmi perdere la testa.
Stai lì, davanti a me in silenzio, eppure alle mie orecchie è come se stessi urlando. L'averti così vicina, vedere quelle labbra ardenti, quegli occhi scuri così profondi e spietati, quelle gambe affusolate che accavallate creano un provocante incrocio tra le cosce, tutto questo e' un gridare al mio corpo: vieni, abbracciami, prendimi. A niente vale il monito del mio cuore che, irrimediabilmente in pezzi, cerca di fermare i pensieri che nati dal basso, inesorabili salgono fino al cervello.
Vorrei essere come Philip Marlowe, guardarti dritta negli occhi e dirti una frase tagliente, una di quelle che fanno male, tanto da farti capire una volta per tutte che non puoi avermi. Non più. Vorrei essere capace di stare alla porta e guardarti uscire, mentre ti invito a non farti più vedere.
Ma non succede, io non sono Marlowe e so già come andrà a finire. Ancora una volta mi farò ammaliare da quel tuo corpo stupendo esaltato dai tuoi vestiti eleganti. Mi perderò ancora dentro di te, toccherò i piaceri profondi e perversi che sai dare, lascerò che tu mi trascini in fondo all'oblio. Berrò i tuoi calici di estasi e le tue coppe colme di piacere. Mi perderò ancora ed ancora, in una notte di passione e lussuria che finirà in un'alba che mi troverà ancora una volta solo, gettato via, su di un letto sfatto con le lenzuola che avranno l'odore dolce del ricordo e velenoso dei sensi di colpa.
Starò male, resterò a fissare un angolo della stanza ed ad espiare l'ennesimo mancato rifiuto, a punire la mia debolezza, schiantato dalla coscienza contro i miei limiti. Sarò miseramente di fronte a quello che veramente sono, vigliacco e sofferente per essermi fatto derubare ancora una volta.
Quante volte avrei voluto essere come Philip Marlowe ...
©
Claudio Palmieri
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