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Io sono il guardiano della chiusa. Vivo sulla diga in una piccola casa, vivo da solo, e non voglio nessuno, così è da molti anni. Il lago è artificiale, è stato ottenuto sbarrando il fiume, e cambia secondo le stagioni. Il paese che è sotto l'acqua affiora d'estate e le case, da lontano, ricordano una chiesa, orba e muta di campane, una macchia nerastra nei colori smaltati del cielo e dei monti, mentre, dopo il grigio delle piogge dell'autunno, il lago è gonfio e pieno e, quando la terra respira, l'acqua si copre del suo alito e la nebbia sale, lo accarezza con quella coltre che sembra quasi solida e si espande sui prati riempiendo la valle. A volte cammino fino oltre il limite del bianco, al sole, ed osservo questo mare fioccoso con le sue onde ghiacciate, immobili, mentre il profilo nero dei monti si disegna in un cielo incredibilmente pulito.
Ma, quando sale la nebbia, preferisco rimanere avvolto da questa coltre bianca e smarrire in essa le certezze della mente, perché io so che solo a quel punto lei comparirà, e rimarrà con me, mi camminerà a fianco, scaldandomi con il suo sorriso.
La prima volta che l'ho vista pioveva leggero, ed era una giornata grigia come, nella Pianura Padana, ce ne sono tante. Mentre si guida, l'effetto della pioggia e dei tergicristalli è quasi ipnotico. Dell'incidente non ricordo molto: devo essere finito fuori strada e devo avere battuto la testa, ma, quando ho riaperto gli occhi, la macchina bruciava, lanciando lampi rossastri che squarciavano il grigiore e lei era china su di me. Non riuscivo a vederla chiaramente, ma odorava di rugiada ed i suoi capelli lunghissimi, mi sfioravano le guance, mentre le sue mani tranquille mi disegnavano il volto regalandomi una pace infinita.
Quando mi svegliai del tutto dal coma erano passati molti giorni e, in seguito, seppi di essere stato operato: mi avevano tolto un ematoma cerebrale e ridotto diverse fratture. Mi dicevano tutti che era stata una fortuna che io fossi stato sbalzato dall'auto e, se chiedevo della donna che avevo visto, tutti scuotevano la testa, compreso mia madre, per la quale ero l'unico affetto e che non mi abbandonò mai. Così, mentre riacquistavo faticosamente il controllo del mio corpo, mi convinsi di aver solo sognato, di aver visto una di quelle immagini che si formano nel cervello quando è in quello stato incerto che non è né vita né morte.
Tornai presto a casa. Abitavo con mia madre in una piccola villetta, che aveva un ingresso che portava al piano superiore, dove avevo un mondo mio. Ho sempre vissuto bene la mia solitudine, amo il silenzio, vedere le piante crescere, la lettura ed il lavoro all'aria aperta. Allora andavo all'Università e facevo il meccanico per aiutare mia madre a pagare le spese.
La nebbia, a volte, dalle mie parti, diventa un manto immobile che tutto ovatta, che ti penetra nei polmoni e ti stordisce con il suo silenzio.
Una sera lei venne da me. Sentii bussare dolcemente alla porta, e mi chiesi chi fosse a quell'ora, non certo mia madre, di cui riconoscevo il passo pesante sulle scale di legno. Quando aprii riconobbi subito il suo odore di rugiada. La sua bellezza si espanse in camera mia, la riempì, illuminò il mio ciarpame con la luce che emanava la sua pelle. Sembrava incorporea, la tunica che le copriva i piedi pareva galleggiare nell'aria. Si sedette sulla punta di una seggiola ingombra di cose, dopo essersi guardata attentamente intorno con i suoi occhi neri, profondi come la notte.
"Chi sei? Io mi ricordo di te, eri presente al momento del mio incidente, non è vero?"
Lei annuì.
"Non devi aver paura di me. Forse sono la fine e l'inizio di ogni cosa, io sono necessaria. Posso essere reale, o solo fantasia, posso essere di vento o prendere un aspetto. Ma io sono sempre sola, non ho una vera vita. Vuoi essere mio amico?"
Mi accarezzò il viso con il dorso della mano e sorrise.
"Hai un nome?"
"Puoi chiamarmi come vuoi."
"Ti chiamerò Maria."
E la notte si schiuse alla poesia. Ricordo la sua pelle perfetta, liscia e profumata, la macchia scura dei capelli sul cuscino, il suo sorriso candido, la gioia che mi hanno dato le sue mani incerte su di me.
Non la trovai più: l'alba la portò via, mi sembrò quasi di aver sognato, ma le lenzuola avevano ancora l'odore del suo corpo ed impressa la sua forma, mentre la luce del sole offendeva i miei ricordi e li rendeva incerti. Tornò spesso a trovarmi, arrivava verso sera per dissolversi al mattino, popolando le mie notti ed i miei sogni, finché mia madre, spaventata dall'idea che potessi percorrere tutta quella strada sulla vecchia macchina di mio zio per andare all'Università, non decise fosse meglio per me andare a vivere dove studiavo. Partii contento, pensavo mi avrebbe seguito in qualche modo, le avevo dato l'indirizzo ed il numero di telefono, anche se lei non lo aveva mai usato e mi aveva guardato a lungo stupita quando le avevo detto di chiamarmi, perché, intanto, avevo preso a dubitare della sua incorporeità. Con lei avevo diviso i miei progetti, le mie speranze, la consideravo una parte di me, anche se notavo lo sconcerto nei suoi occhi quando parlavo di futuro. Nella mia nuova casa attesi a lungo, ogni sera.
Ma in città lei non si fece mai vedere. Le vie, le macchine, la gente, le case erano tutte diverse e non c'era quell'odore di freddo che ti riempie i polmoni fino a farli bruciare.
Conobbi così Margherita. Era una studentessa anche lei, ma faceva Medicina e, insieme, ci divertivamo come pazzi. Era bella, era mora, un inno alla vita, ma morì, così come morirono Anna, Clara, Stefania. Perché la morte, se ti sceglie, non ti lascia ed è gelosa, ed uccide chi ti avvicina.
La polizia però, pensava che fossi stato io. Furono trovate tutte nei luoghi dove vanno gli innamorati per stare soli, tutte strangolate, tutte morte dopo aver fatto l'amore.
Io non ricordo nulla. Mi ricordo che in carcere facevo strani sogni. Le vedevo ridere, baciarmi, spogliarsi, ma, poi, sentivo nella testa il pianto di Maria, e le vedevo com'erano, umane, miserabili, disposte a farlo in fretta, fra i cespugli, non perfette, senza la pelle bianca e liscia. Accarezzavo a tutte la gola, delicatamente, come si fa con i fiori, e poi, scendeva un silenzio irreale e, intorno, c'era solo odore di rugiada, profumo d'erba e aria pulita. Così mi ritrovavo a casa, nel mio letto, a dormire, mentre il cervello si riempiva di nebbia e il mio tempo di nulla.
Ora sono un sorvegliato speciale.
Una notte mi trovai Maria accanto alla mia branda, nella cella della prigione dov'ero rinchiuso. Era appena un'ombra disegnata sulla parete, ma la riconobbi dal profumo della sua pelle; i suoi occhi scuri come il velluto mi guardavano carichi di rimprovero e di dolore, ma non emetteva suono. Mi inginocchiai piangendo, cercando di stringerle le ginocchia per implorare il suo perdono, ma non mi trovai nulla fra le braccia e pensai che mi avesse abbandonato.
Ma non ebbi fortuna.
Parlai a lungo di lei, della nebbia, dei fiori, del profumo di rugiada che impregna l'aria al mattino, delle sue visite notturne sia con l'ispettore che con gli avvocati, e tutti conclusero che ero matto. Mi tennero chiuso per un certo numero di anni, ma, non dando mai segni di violenza, mi lasciarono studiare e mi diedero una stanza mia. Alla fine rientrai in questo programma di riabilitazione, perché decisero che ero guarito. Potevo scegliere altre cose, ma, quando vidi questo posto, me ne innamorai e chiesi se potevo restare. Non devo tornare a dormire da nessuna parte, ma mi controllano; ho un bracciale elettronico che porto sempre addosso, ma io non voglio allontanarmi, cerco anche di evitare le persone, perché so che se non lo facessi, lei si arrabbierebbe e li porterebbe via.
Sento l'aria scivolarmi dal petto, come sempre quando mi aggrediscono i ricordi.
Sospiro nuovamente. Ora la nebbia si è fatta più fitta ed io so che fra poco arriverà. Come al solito mi scompiglierà i capelli ormai grigi e passeggeremo lungo l'argine, avvolti dal silenzio. Le ho preparato dei fiori in casa, so che le piacciono i colori, e rideremo ancora, come facciamo sempre, di piccole cose, ci scambieremo tenerezze da vecchi amanti, e lei rimarrà con me finché il sole non bucherà le nuvole. Allora avrò l'impressione di aver solo sognato e tornerò ad aspettare la nebbia con l'inquietudine del topo in trappola che, ormai, può solo aspettare.
Io so che un giorno tutto finirà, mi porterà via, e sarò di nuovo libero, questo è l'unico modo.
A volte però mi chiedo se lo psichiatra che mi aveva in cura non avesse ragione, se io non sia davvero pazzo. Non ho incontrato nessuno, fino ad ora, che possa vederla o parlare con lei, come faccio io. Eppure questa donna non può esistere solo nel mondo dei miei sogni: le mie sensazioni sono reali, io sento la sua pelle contro la mia, il suo amore per me riesce a colmare il vuoto della mia vita. Ma, forse, è una donna di nebbia e vive solo in quell'angolo del cervello dove tutto si annulla e riprende forma, forse è davvero un'ossessione.
Perché la fantasia può creare qualunque cosa e portare la mente a dare il necessario peso ai sogni.
©
Alessandra Spagnolo
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