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Tra violette e mimose
di Paola Ceccotti
Pubblicato su PBSE2019


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Ho trovato tra il verde la prima violetta: è finito l’inverno.”

Raccolsi il diario lasciato sul letto nella stanza di mia figlia, e vidi questa frase. Non avevo mai osato leggere i suoi pensieri lasciati sulle pagine bianche di quel piccolo taccuino che vedevo passare nello zaino o portarsi dietro la sera quando andava a dormire. Ma quel pomeriggio non so come mai, forse perché ero sola in casa, forse perché uno strano impulso mi prese, cominciai a sfogliare le pagine, così quasi distrattamente dimenticando che un genitore ha il dovere di rispettare l’intimità del figlio.

Eravamo di maggio e quelle parole erano una espressione diciamo normale per salutare la nuova stagione, una frase quasi banale, come in un tema di scuola. Mi sedetti sul letto, lei era uscita in fretta, doveva andare con un’amica in biblioteca per una ricerca, così mi aveva detto. Le mie dita scorrevano a ritroso le pagine. Però che scrittura minuta ha mia figlia riflettevo così, senza pensarci, come la vedessi per la prima volta, una scrittura piccola e rotonda, aggraziata, adatta ad una bambina gentile e dolce come era sempre stata. Una quindicenne che stava aprendosi alla vita, le prime uscite in gruppo, le simpatie, i messaggini, sì mi ero accorta che stava cambiando ma non mi ero posta problemi, lei non aveva inquietudini, era in una fase di normale trasformazione nella donna splendida che sarebbe diventata.

Stavo per alzarmi quando mi cadde l’occhio su una parola, “incinta”, che vuol dire, saranno le domande che a quella età ci si pone, mi dissi facendo un richiamo rapido della memoria ai miei anni di ragazza. “Sono incinta” c’era scritto, no, chissà a chi si riferiva. Continuai a percorrere con lo sguardo veloce le frasi, e il cuore mi fece un salto. Stava parlando proprio di sé stessa. Aveva scritto queste frasi solo il giorno prima.

“Sono incinta, ne sono sicura perché ho fatto il test, non so se piangere o essere felice, devo studiare non ci voleva ora, chi lo dice ai miei genitori, e Jacopo che dirà? Lo vedrò tra due giorni, è andato a fare un ritiro con la sua squadra e non me la sento di farglielo sapere per telefono. Magari lui è un po’ più grande di me, va bene quest’anno ha la maturità, ma … insomma…poi … sono sicura che la prenderà bene. E mamma, e babbo! Chi glielo dice, come la prenderanno, non se lo aspettano di sicuro, già, per loro sono sempre piccola, e invece guarda cos’ho combinato, eppure non so, forse sono tutta matta ma mi sento felice, voglio tenere questo bambino, è mio e di Jacopo”.

Seguitavo a leggere frastornata, mi era venuto un leggero capogiro e un ronzio negli orecchi, il cuore aveva cominciato a battere più forte, le tempie mi pulsavano. Il giorno dopo c’era quella frase sulle violette, mia figlia doveva proprio essere impazzita. Chiusi il diario e lo lasciai dove lo avevo trovato e tornai in cucina dove stavo stirando, poi mi rimisi a sedere, accasciata. La televisione era rimasta accesa e le voci mi rimbalzavano nella testa “Ecco mi dica: la parola misteriosa è…? Sù ci provi, può vincere cinquemila euro, faccia qualche tentativo”. Mi venne la voglia  di prendere a  schiaffi il conduttore e spensi la televisione.

Piegai i panni che ancora restavano da stirare e mi preparai velocemente per uscire, la testa mi scoppiava, sentivo che dovevo prendere un po’ d’aria fresca, cercare di riordinare le idee. Mi chiusi la porta alle spalle, abitavo in un quartiere tranquillo a sud della città, non proprio in periferia, comunque una zona decentrata lontana dal caos.

Mi incamminai verso il mare, il sole del pomeriggio allungava i raggi verso la strada, ma non eravamo ancora in piena estate ed era piacevole passeggiare. Cosa dovevo fare, mi chiedevo, quando stasera sarebbe tornata a casa, fare finta di niente, affrontare la situazione o studiare il suo comportamento, dirlo a mio marito, scartai subito quest’ultima ipotesi, era una cosa che riguardava per prime noi due, una questione di donne, mio marito avrebbe complicato la faccenda, glielo avrei detto dopo.

Pensando e camminando ero arrivata ad Antignano, era passata quasi un’oretta, stranamente la mente era più chiara, e il panico  passato. Mi incamminai per il ritorno, mi accorsi che lo sguardo mi cadeva sulle carrozzine, sui tanti bambini piccoli che sembravano sbocciati come fiori dopo il rigore invernale. Diletta sarebbe arrivata vero le otto per l’ora di cena. Sentì aprire la porta, era mio marito. “Ciao Gianna” mi disse dandomi un bacio frettoloso, dirigendosi verso la camera per spogliarsi. “Com’è andata oggi, tutto bene!?” mi gridò, “Sì tutto bene” risposi stancamente. Poi sentì la porta dello studio chiudersi.

Era già alla postazione del computer per il solito gioco del solitario. Mentre io preparavo la cena. Sbucciavo le patate e intanto il pensiero per conto suo se ne andava girovagando su mille pensieri, ma davvero mia figlia voleva rovinarsi la vita! A quindici anni perdersi dietro un bambino, una casa, un marito. No, lo avrei impedito, mia figlia doveva avere il futuro che io non avevo avuto, che tante volte avevo fantasticato.

Era rimasta solo lei in casa, il figlio più grande si era laureato ed era andato a Milano, il medio stava prendendo un master a Roma. Diletta era tutto quello che mi restava, era venuta quasi per caso, inaspettatamente e aveva riempito di gioia la vita di mio marito ed io. Sentì aprire la porta, mi affacciai all’ingresso, era Diletta, minuta, una bambina praticamente.

Non mi accorsi che la stavo esaminando con lo sguardo. “Cos’hai mamma, che c’è?”. “Perché?”. “No, niente, mi guardavi, sei preoccupata?”. “Ma no, è che fate sempre tardi la sera, e non si trova mai l’ora di metterci a tavola, sì stavo un po’ in pensiero”. “Ma dai, sono appena le otto e mezza”, mi rispose ridendo mentre andava in camera a cambiarsi.  A tavola non volendo tornai a guardarla, cercando una spiegazione, una ragione. “Ma sei strana stasera mamma, lo sai”. “Tua madre sta troppo da sola, dovrebbe uscire, avere delle amiche”, ribadì mio marito. “Eh già, la sapesse tutta, fa presto lui a dare consigli” pensai.

Il giorno dopo mi proposi di parlarle, aspettai il momento adatto, quando  eravamo sole in casa, mio marito il pomeriggio usciva per la solita partita a carte, ma non sapevo come iniziare, non volevo dirle che avevo letto il diario. Così entrai nella sua camera con la scusa di riporre alcune cose nel cassetto, mentre lei stava in internet.

 “Posso?” “Sì entra mamma” “Metto nel cassetto queste camicie che ho stirato ieri, …ma ti vedo un po’ distante, sei mica preoccupata per qualcosa”. Mi guardò un attimo dritto negli occhi. “No mamma, non c’è niente, sei te piuttosto che mi sembri un po’ ansiosa. Solo che siamo alla fine dell’anno e devo ancora rimediare qualche materia”. Me ne uscì dalla stanza per niente sollevata. La mattina dopo mentre era a scuola mi misi a riordinare i cassetti ma il mio proposito più o meno inconscio era quello di trovare qualcosa che mi aiutasse a capire di più, magari si era trattato solo di una burla, una finzione, ecco qualcosa simile ad un gioco di ruolo.

Ma non trovai niente che potesse sollevarmi dai dubbi che mi opprimevano allo stomaco. Decisi comunque di lasciar perdere; mi dissi, cercando di mentire a me stessa, che probabilmente si era trattato di fantasie di adolescente, non c’era niente che mi confermava potesse essere incinta.  Studiava con regolarità, quasi con accanimento, e mi convinsi che la sua vera preoccupazione era il risultato scolastico.

Passarono i giorni e si arrivò a giugno, finì la scuola e Diletta venne promossa in tutte le materie, ce l’aveva messa tutta, era stata proprio brava. Ero orgogliosa di mia figlia. Ma qualcosa strideva nel suo comportamento, mangiava poco, a volte correva in bagno per un malessere passeggero, e guardandola era facile capire che il suo corpo si era modificato, poco, però ad un occhio attento come il mio non sfuggiva una maggiore rotondità seppure in un fisico esile e minuto. Avevo accantonato il problema, ma nel mio cuore c’era la certezza, anche se non osavo confidarmi neppure con me stessa.

Un giorno, entrando nella sua camera la trovai rannicchiata su un fianco, la testa raccolta tra le braccia, come se volesse proteggersi da qualcosa, mi avvicinai pensando che stesse dormendo, forse stava sognando. L’estate era alle porte, si sentiva l’aria calda e leggera che soffiava sulle tende, sull’albero di fronte gli uccelli cinguettavano, in cortile alcuni bambini tiravano calci al pallone. Ascoltavo il suo respiro e ad un tratto mi accorsi che stava singhiozzando, piano, sommessamente. Le carezzai con leggerezza i capelli che aveva scuri come il padre e lunghi fino alle spalle, si voltò, aveva gli occhi umidi, la abbracciai e improvvisamente mi si aggrappò stringendomi come in una morsa. Poi scoppiò in singhiozzi, un diluvio di lacrime che mi prese alla sprovvista. Mentre la cullavo come quando era piccola, pian piano si calmava.

“Cosa c’è, vuoi dirmelo?”. Qualche attimo di eterno silenzio, poi rispose con una voce flebile, a tratti interrotta da lunghi respiri. Mi raccontò tutto, non ci fu bisogno che la pregassi, era così pesante quel macigno che si era tenuta dentro che una volta trovato il modo di liberarsene non c’erano più freni. Non avevo però capito bene se ci fosse anche qualcos’altro, se avesse litigato con il suo ragazzo, forse Iacopo non desiderava il bambino, forse in casa di lui avevano fatto storie vista la giovane età di tutti e due.

“Ma perché piangi, capisco che è una cosa inaspettata,  se non te la senti …”. “No, non è questo, ho paura”. “Di cosa hai paura?”. “Ho paura di quello che succederà dopo, dovrò stargli dietro, diventerò grassa e Jacopo non mi vorrà più, e poi dovrò smettere di studiare”. “Allora vuoi abortire, è doloroso, ma se non sei convinta, è giusto che tu prenda la decisione che pensi migliore per te”. Le ultime parole sprofondarono in un pesante silenzio, poi dopo un’altra carezza uscì dalla stanza con la scusa di preparare cena, lasciandola alle sue riflessioni, e ai suoi tormenti. La sera a tavola la conversazione languì un po’, tanto che mio marito chiese ridendo se ci avessero tagliato la lingua, ci scambiammo un’occhiata buttandola sullo scherzo.

La mattina dopo il sole splendeva nel cielo azzurro, Diletta aveva dormito tutta la notte, con un respiro leggero e regolare. Il padre andò a lavoro molto presto, aveva un appuntamento importante, noi ci sedemmo per fare colazione, guardandola incrociai il suo sguardo fermo e sicuro, capì che aveva deciso. Con i pantaloncini corti e la casacca del pigiama davanti alla tazza della colazione, sembrava proprio una bambina ma io sapevo che non lo era più. Ci sedemmo in silenzio, aspettavo che fosse lei a dire la prima parola, non volevo infrangere la sua intimità e il rapporto che tra noi si era instaurato. In casa non c’era il più piccolo rumore, una atmosfera irreale come succede prima di un grande evento, pensai. Mi fissò, lo sguardo limpido, l’espressione tesa, senza incertezza, poi iniziò a parlare con voce tranquilla.

© Paola Ceccotti







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