La prima persona che ho visto arrivando allo stadio è stata Gigi Manueli. Quando calciava, il pallone suonava, “toc”. Quel suono particolare significava che il pallone era stato colpito perfettamente e poteva iniziare il suo volo nel cielo per raggiungere il sicuro destinatario. Era una sinfonia di Bach, quella era ed è la musica del calcio. Se il pallone non viene colpito bene non suona e si rifiuta di iniziare il suo viaggio spegnendosi con un rantolo asfittico pochi metri più in là. Con Gigi il pallone suonava sempre.
Ebbene la prima cosa che mi dice è : “ Il calcio è cambiato. Non è più come i nostri tempi” E la dichiarazione di un direttore d’orchestra, di uno che la musica la conosceva bene assume il valore di una certificazione autentica, mette il sigillo ad una verità incontrovertibile.
Io stesso sono la testimonianza diretta di un’epoca definitivamente sepolta dal momento che ho giocato in un ruolo che addirittura non esiste più: il libero.
L’ho fatto negli anni ottanta, quando il ruolo stava subendo una mutazione genetica.
Prima il libero era solo un difensore, tanta grinta e scarsa tecnica. Pensate a Picchi o a Salvadore; gente tosta che spazzava l’area di rigore senza andare tanto per il sottile e guai a superare la propria metà campo.
Negli anni ottanta invece il libero cambia pelle. Non è più un semplice difensore ma diventa un centrocampista aggiunto, con facoltà di spingersi in attacco e addirittura cercare il gol. Pensate a Scirea, Baresi, Tricella, Bini. Viene abbandonata la scimitarra e si impugna il fioretto: il libero imposta la manovra, deve essere elegante e dotato di una tecnica superiore. E’ l’ultimo dei difensori, dai quali si stacca in fase difensiva, ma è anche il primo dei centrocampisti quando si riparte all’attacco.
Oggi il libero non esiste più, adesso si chiama centrale difensivo. E non si stacca dagli altri difensori perché si gioca in linea, ci si muove insieme, tutti avanti o tutti indietro. Da qui anche il mutamento del linguaggio sportivo: le linee, giocare tra le linee, eccetera eccetera.
Le linee! Tutto il mondo adesso gioca così, sarà il prezzo che dobbiamo pagare alla globalizzazione. E’ triste constatare come le cattive idee si propaghino in fretta. Sono come le cattive notizie, arrivano sempre prima delle altre. Ma le linee non c’entrano nulla con il calcio, quello è un altro sport, è il rugby. E se ci pensate il calcio è diventato un rugby giocato con i piedi.
Con la linea dei difensori schierata diventa impossibile giocare in profondità, verticalizzare il gioco, come si diceva una volta, perché l’attaccante finisce quasi sempre in fuorigioco. E allora si procede con lunghi, noiosi, estenuanti passaggi orizzontali . Avete presente il Barcellona? Quello è il modello, oggi il Barcellona è ritenuta la squadra più forte del mondo. Con il gioco più brutto della storia del calcio, aggiungo io.
Non si gioca più in lunghezza ma in larghezza. Il campo si è accorciato e si è allargato: bisogna tenere molto larghi i due esterni, quasi sul bordocampo perché la manovra possa trovare un qualche sfogo. Così anche il campo ha cambiato fisionomia, diventando un quadro di Botero: corto e grasso.
Salgo le scale e arrivo in tribuna. Come ti hanno ridotto vecchio caro glorioso Moccagatta.
Non c’è più il legno , materiale nobile e antico. Le balaustre sono di ferro e le gradinate di cemento; il tutto mi appare freddo e anonimo, inutilmente moderno. A sinistra vedo un buco osceno, dal quale irrompe la città di fuori con l’insegna di una sala bingo. Manca il pezzo di gradinata che chiudeva ad anello la curva Nord con le tribune. E quel pezzo mancante interrompe la perfetta circolarità dell’anfiteatro, sembra che manchi un dente nella chiostra di un uomo che un tempo aveva un sorriso smagliante.
Dall’altra parte e sulla curva Nord mi colpiscono le grosse verniciature gialle che attraversano le gradinate per tutta la loro lunghezza.. Uno stadio carico di gloria, un monumento di commovente bellezza trattato come un qualsiasi parcheggio di periferia.
Poi arriva la voce dello speaker. Me la ricordavo ieratica e composta. Il Moccagatta era una chiesa dove ogni domenica si celebrava un rito e lo speaker era il sacerdote che lo introduceva. Per questo venivano scanditi i nomi dei protagonisti di quella messa senza inutili enfasi, con la calma, la precisione e la compostezza di chi legge un libro sacro. Adesso non è più un rito ma uno spettacolo profano ed anche lo speaker si è adeguato. Vengono urlate frasi inutili, slogan da imbonitori: venghino signori venghino. E’ il circo che fa ingresso nel paese, la donna cannone e il domatore di leoni.
Entrano le squadre in campo e finalmente si materializza la storia, quella che dovrebbero ricordare tutti quelli che si vogliono occupare della squadra e del suo stadio: vedo la meravigliosa maglia grigia, e quella per fortuna non è cambiata.
Alla fine della partita voglio scendere sul campo, per dargli un ultimo saluto. Vorrei abbracciarlo ma non ho braccia così lunghe. Cammino un po’, da solo, verso il centrocampo e mi assale un pungente profumo di erba. Teniamocelo caro; che a qualche bell’ingegno dell’amministrazione comunale o degli attuali o futuri dirigenti della squadra non venga mai in mente di deturpare il Moccagatta con l’ultimo sfregio, il campo sintetico.
Ripartiamo da qui: da una maglia grigia e dal profumo dell’erba.