Ho inseguito con lo sguardo quell’ombra dal portamento incerto, infagottata in un’assurda sovrapposizione di vesti, senz’altro incapaci di procurare un vero calore, ho osservato le scarpe scalcagnate e sporche: fango, polvere e anche troppo grandi tanto da capire la ragione di quella singolare andatura – quasi danzante -. Poi, ho notato le borse di carta, plastica o tela, quelle borse stracolme che scivolano dalle mani quando il freddo ne irrigidisce le articolazioni.
Ed ho intuito, in questo particolare, la difficoltà di esistere quando il sole non è mai abbastanza caldo. Ho seguito per un istante quest’uomo tanto simile a centinaia di altri e ho sentito nascere la curiosità di vedere il suo viso; così affrettando il mio passo mi sono ritrovata vicina a lui, abbastanza vicina da poter incontrare un viso anonimo, senza altre caratteristiche di quelle che mi aspettavo: pelle scura, segnata, occhi e capelli neri e quello sguardo senza gioia che si sforza di convincere quando insiste:
“Signora, compra! Compra Signora, bella roba…”.
E solo quando la “mia ombra” ci prova anche con me, ho scoperto la sua bocca con le labbra carnose e i denti sciupati, gialli, striati da solchi più scuri, quei denti simili in tutti i visi degli immigrati del Magrheb, quei denti che ricordano il “paese”, che rimandano come un segno distintivo ai campi di canapa indiana, alle pipe di kief, al sole dell’Africa.
Cammina una folla variopinta, quella dei giorni di festa, spinta da un movimento discontinuo ma insieme monotono: qualche passo, una sosta, qualche passo ancora fino alla prossima fermata di fronte a un negozio o una bancarella; loro gli immigrati non sembrano subire lo stesso ritmo, loro sembrano averne uno proprio, regolare, rapido ma senza fretta, a volte barcollante quando la nostalgia di casa stringe forte la gola. Così non fanno nemmeno finta di fermarsi dove si fermano tutti, come se i loro interessi, in nessun modo, potessero coincidere con quelli degli altri.
E questo lo avevo già notato in Francia, in occasione delle feste; ho visto quegli occhi che niente poteva attrarre, né gli addobbi nelle vetrine per bambini né le cataste di cibo tradizionale messe in mostra per la cupidigia generale, ho visto quegli occhi fermarsi soltanto davanti alle valigie.
Ho visto tanti di loro avvicinarsi a queste valigie, soppesarle, girarle e rigirarle, esaminandone chiusure, angoli, cinghie e manici con l’occhio inquisitore di chi volesse nascondervi un tesoro.
E poi in seguito, a esame superato, mercanteggiandone il prezzo – come si fa nei souk dei loro paesi, tiravano fuori una manciata di banconote di piccolo taglio, sgualcite, acquistavano il loro tesoro e partivano quasi contenti con la loro valigia di finta pelle penzolante al braccio – vuota ancora-.
E ho immaginato come poi riempissero quelle valigie, dopo aver frugato nei mercatini dell’usato, dopo aver esplorato i banchi a buon mercato o aver ripulito la soffitta di qualche casa dimenticata. Li ho immaginati riempirle di vestiti, quasi stracci o fuori moda, con qualche giocatolo sverniciato da mandare ai bambini “laggiù” per un Natale che non ha nessun significato sotto il sole dell’Africa.
Eppure, la valigia attraversa il Mediterraneo e arriva a destinazione, stracolma, ricca di sogni e di sacrifici per officiare alla festa del ritrovarsi a distanza. Cosi la valigia diventa mitica, si avvinghia all’emigrato africano come un’ombra che non lo lascia mai, perché anche quando non la compra, anche quando non gli penzola in mano, ce l’ha nella testa e nel cuore e la riempie non con doni o giocattoli o sogni di Natale ma, nonostante tutto quello che subisce, sopporta, di colpo si trasforma in ricchezza, in presenza e amore fino a svuotarlo di se stesso.
E così sempre altrove, solo, esiliato e triste è perfettamente riconoscibile per la particolare identità che si conferisce: la disperazione negli occhi ma un vago sorriso sulle labbra per continuare a vivere.
Per questo, da me può salire un sorriso dal cuore per quella disperazione che capisco, un sorriso che vorrei tanto raggiante quanto il sole che manca, quanto il soffio caldo del deserto che non giunge fin qua, quanto lo sguardo di un bambino assente. Un sorriso per loro, di tenerezza momentanea e fugace che a poco a poco però svanirà per lasciar posto ad un’unica visione di freddo, di vuoto, di solitudine che stringe forte il cuore perché non sembra decidersi ad andarsene mai.
Lucca, Natale…