"a tocchi a tocchi
la campana sona
li turchi su sbarcati
a la marina"
tradizionale
Luglio 1547 – Torre di guardia in contrada San Fantino di Taureana di Palmi.
“Ehi, venite, c’è qualcuno qui!”
Il piccolo drappello di corsari si fermò al grido, per tornare velocemente indietro.
Dal fieno, disordinatamente ammassato in un angolo del granaio, spuntava appena un lembo di azzurro. Il vestito nuovo, che in quella mattinata di festa s’era dimostrato utilissimo per attrarre attenzioni e desideri nei maschi di Taureana, adesso la tradiva senza scampo.
Mille mani afferrano senza rispetto la candida bellezza, famelici occhi già ne percorrono i fianchi e il seno, malevoli i sorrisi di compiacimento per la preda non sfuggita.
Ciò che venne fuori da sotto il fieno era in effetti lo spettacolo di donna più incantevole che avessero mai visto.
Uno splendore di puledra appena quindicenne, rosse le guance per l’insieme di rabbia, emozione, paura; una già abituata a tenere testa ai maschi, a sopportarne, consapevole del significato, ogni sguardo sulle sue forme di donna appena fatte.
Una che nella contrada aveva saputo farsi rispettare.
Ma piccola e minuta come le porcellane che le accozzaglie di Dragut razziarono tempo indietro alla collina di Capodimonte.
Rosina moltiplica i respiri del petto.
Quelle volte che le trombe marine s’alzavano, imponenti imbuti nebulosi, a minacciare le catapecchie dei pescatori e il tuono rincorreva i pescispada sulla schiuma d’onde e le barche timorose riparavano alle cale di Trachina e Calajanculla, Rosina rifugiava nel grembo accogliente di nonna Rosaria a contenere la paura per l’imminente tempesta.
“Dai, bella mia, respira profondo e lungo”
Respirare profondo e lungo, concentrandosi sul respiro, non sulla paura.
Ma il terrore è ancor più della paura. Come si contiene il terrore?
Sapeva, tutti sapevano, che prima o poi sarebbe stato il turno anche della civilissima San Fantino. I terrazzani della contrada delle Palme, che avevano più volte subito l’onta del saccheggio delle orde di Dragut, raccontavano momenti di autentico, tragico terrore. Incendiata ogni casa, rubate le masserie, le bestie, i viveri conservati per l’inverno, razziate le sementi. Tutti gli uomini legati come bestie da macello e fatti prigionieri da vendere come schiavi ad Algeri, tutti tranne quelli che mal tolleravano il giogo e tentavano vanamente di ribellarsi, questi immancabilmente, senza scampo, andando incontro ad atroci sevizie e alla morte. Ma tutto era niente confrontato con la sorte riservata alle donne. Stuprata ogni giovane, violenze di gruppo sulle più procaci. A nessuna, dai sette anni in su, veniva risparmiata l’atrocità del corpo corsaro: urla atterrite, come a Natale i maiali sgozzati, percuotevano la stupenda vallata di agrumi e ulivi, che dalla Marinella risaliva verso la contrada delle Palme. L’eco pietosa moltiplicava voci e grida, per portare al mondo intero quell’immenso dolore.
L’odore del sangue dei morti e delle vergini si diffondeva per la valle soffocando gli antichi profumi di zagare e finocchi selvatici e origani e rosmarino.
Non si tratta più dei maschi di San Fantino, che la ghermiscono con occhi di lupo, senza ardire a sfiorarla. Rosina si ritrova, bianco agnello appena smammato, al centro di un vortice di braccia e occhi, labbra che la sfiorano, volti sudati che si avvicinano e si allontanano, barbe lunghe e ispide che pungono come spine di rovo. Se la passano di mano in mano, come si fa con un prezioso e succulento boccone da godere con gli occhi, prima che con la carne. Gridano e gridano e si chiamano l’un l’altro con nomi strani, suoni gutturali per lei incomprensibili.
Non urla Rosina, tenta per quanto possibile di resistere al terrore che la invade.. Capisce che è meglio. Immagina istintivamente che il terrore delle vittime aumenti a dismisura l’eccitazione di quegli… uomini (ma come possono dirsi uomini, quelle strane creature comparse dal nulla, create da uno scroscio improvviso di temporale, come evocati da maghi orripilanti, quella mattina alla sabbia di Tonnara?).
Si lascia sballottare, palpare, uno le strizza il seno, uno infila una mano tra le gambe, un altro fa già volare via, strappandolo di brutto, il corpetto merlettato, fatica di tre settimane di mamma Amelia, ne strappa malamente le maniche. Rosina rimane immobile, così esposto il corpo ancor più agli sguardi che, per un attimo, anch’essi, sorpresi per la straordinaria statualità di lei, si fermano, come indecisi, colpiti certamente dal suo silenzio, dallo sguardo sprezzante e altero della ragazza.
Ma sta per partire l’assalto finale.
Lo sanno gli uomini al massimo della eccitazione.
Lo capisce lei, immobile al centro del gruppetto di sette, otto corsari e un rigagnolo di lacrime le solca prima gli occhi, tracimando sul viso: incontenibili lacrime silenziose.
La sua fine.
E’ un attimo, solo uno, ma un attimo può cambiare il mondo, cambiano mille vite, cambia la vita di Rosina.
Potente, rimbomba lo sparo e l’eco lo diffonde, lo moltiplica, aumentandone l’effetto sorpresa. L’archibugio di Ziamo Alì ha il potere del fermo immagine.
Nessuno si muove più verso Rosina, tutti volgono adesso lo sguardo verso il ragazzo Alì, l’ultimo arrivato ai corsari di Dragut, il più giovane, è vero, ma anche quello a cui l’Eccelso ha riservato negli ultimi tempi particolari apprezzamenti e favori, ora riconoscendone pubblicamente coraggio e cattiveria, ardore di combattente e fedeltà, ora apprezzandone a voce alta le arguzie, i fini ragionamenti inusuali nella testa di un giovanissimo apprendista corsaro qual è.
Dragut Torghud Raiss Bassà, già luogotenente di Barbarossa, ora sanguinario padrone dei mari del Mediterraneo e del mondo conosciuto e delle vite di milioni di persone, dimostrava per il piccolo corsaro Ziamo Alì, una particolare predilezione, che nella fantasia di molti aveva fatto insorgere il dubbio di propensioni saffiche. Ovviamente il tutto rimaneva al puro livello di fantasticherie individuali, malconfessate, solo immaginate, perché tutti sapevano di rischiare la testa se solo Dragut avesse percepito un pensiero, un dubbio del genere.
Ziamo Alì s’impadronisce del centro del gruppo e dell’attenzione di tutti, ancora con l’archibugio fumante in mano.
Rosina lo guarda con rinnovata attenzione, consapevole che, almeno per il momento quel colpo di archibugio ha bloccato la famelica orda, ne ha frenato l’eccitazione. Anche la sua rabbia, dolore e paura diventano eccitazione. Le si gonfia il seno e s’aggrappa al braccio del giovane corsaro, ormai unica ancora di salvezza.
Alì squadra tutti dall’alto della sua sfrontataggine:
“Questa mi appartiene, è mia! “
“Che vuoi dire, Piccola Scimitarra Spuntata? Ce la possiamo spassare tutti, no?”
“Non vi spasserete un bel niente. L’avete promesso! E’ da ieri che vi prendete tutte le belle donne che ci capitano. Questa mattina l’accordo è stato che la prima di oggi sarebbe stata mia… ve ne siete scordati?”
Nel dire, Ziamo Alì si impadronisce della mano della fanciulla, l’attira ancor più vicina, se la stringe addosso, come si fa con le cose di proprietà, con l’atteggiamento altezzoso e fiero di chi non ammette repliche.
“Ma dai, che discorsi sono? Una bella puledra come questa può farci divertire tutti per un bel pezzo… Dopo ne potrai fare ciò che vuoi!”
“Non se ne parla neanche! L’avete promesso e le promesse vanno mantenute, anche da corsari sciancati e pendagli da forca quali siete voi. La ragazza appartiene a me soltanto e nessuno si azzardi a sfiorarla con un dito che gliela faccio pagare col sangue!”
Nel dir così sguaina la scimitarra luccicante ai raggi di sole di luglio e la punta sotto il muso di quello dei corsari che aveva parlato prima:
“…e non sono Piccola Scimitarra Spuntata, mi chiamo Ziamo Alì, corsaro del grande Dragut. Oppure non chiamarmi per niente, altrimenti ti mozzo la lingua e non chiamerai più alcuno.”
“Avranno ragione di lui” pensa Rosina “Sono in tanti e lui solo, magari sarà ancora un pivello con le armi, rispetto alla loro risaputa tecnica di guerra”.
Sottomesso e ucciso con pochi, uniti attacchi; schiumano già di rabbia e ferocia, le mani pericolosamente vicine alle spingarde e all’elsa di scimitarra.
E non è paura di morire per mano di quel moccioso a frenare l’impeto corsaro, la voglia di carne giovane di donna, l’eccitazione. In cuor suo, ogni corsaro sa che l’arroganza di Alì si fa forte della considerazione di Dragut. Come avrebbe egli reagito all’assassinio di Ziamo Alì, il suo prediletto?
Quanti di loro non avrebbero fatto la fine dei terrazzani decapitati appena poche ore prima a colpi di scimitarra?
Eppoi per cosa?
Ce n’era tante di belle figliole prigioniere, ormai miseramente in mano loro!
Imprecando sottovoce, lasciano alla radura una sequela di improperi e i due giovani, ancora legati, ancora ansimanti.
Alì continua a trattenere fermamente Rosina per un braccio. I muscoli del giovane corsaro, tesi come pelle di tamburo, solcati da vene imperiose, sanno essere decisi, ma senza farle male, quasi gentili nella rudezza.
Lei non ha capito una parola del concitato dialogo di prima. Ha intuito, dai gesti degli uomini e dall’evolversi della situazione che prima ha rischiato sette padroni, adesso ne ha solo uno: non è certamente salva, ma la situazione decisamente migliorata.
Cerca di svincolarsi, sbracciando con tutta la forza che le rimane: inutile, troppo forte il ragazzo, non deve neanche sforzarsi per tenerla avvinta a se’.
“Se vuoi ti lascio” dice sorprendentemente nella lingua della ragazza taureanese. Puoi scappare, ma rischi che ti riprendano quelli e non sono certo di aver nuovamente la forza di affrontarli e salvarti.”
La vede smarrita, un poco meno atterrita, un poco più sorpresa per ciò che ha detto, per come lo ha detto, per il tono gentile di voce.
Le spiega:
“Ho imparato un poco della vostra lingua da una anziana schiava, al campo di Algeri. Mi ha raccontato tante cose di voi, delle vostre abitudini. Mi ha cresciuto come una madre sa crescere un figlio; ho odorato i profumi della tua terra prima ancora di venirci, ho riconosciuto ogni scoglio delle vostre spiagge, ogni onda, come se avessi vissuto in questi posti dalla nascita.
Sono anch’io un corsaro, ho ucciso e rubato insieme al mio generale Dragut e alle sue orde. Ma non qui, non a Taureana. Dal primo minuto che posammo piede alla Tonnara, con ogni mezzo ho aiutato a limitare i danni alla gente, alle donne e ai bambini. Un poco ci sono riuscito, alcuni li ho nascosti, altri fatti fuggire davanti alla mia spingarda che non sparava, altri sono morti sotto i miei occhi, terribilmente menomati dai colpi d’arma da fuoco e dalle ferite di scimitarra. Pietosamente ho inflitto loro l’ultimo colpo perché non avessero a soffrire lunghe agonie.”
Mentre parla roteano occhi azzurri intorno come a valutare possibili, ancora, pericoli, cerca un anfratto, un posto dove riparare dagli sguardi, dalla ferocia di altri dragutiani.
Improvvisamente deciso, la trascina con forza rude, ma non cattiva, verso il fondo del fienile.
Non si fida ancora di lui.
Per questo la stringe il braccio con morsa di ferro, per questo la stringe tutta ancora a se’ e nel far ciò, a sfiorarle involontariamente il petto ancora nudo, sente fuoco sotto le ditta, la guarda.
Rosina sostiene lo sguardo, ma già meno imperiosa, meno nemica.
“Dio mio, adesso mi violenterà!” pensa ben comprendendo la sua eccitazione crescente.
Ziamo Alì quasi ascolta i suoi pensieri, o forse è il tremore che l’avvolge tutta:
“Non aver paura, non voglio farti male. Voglio salvarti la vita.”
“Se non vuoi farmi male, se davvero sei quello che dici… lasciami andare, te ne prego!”
“Allora non capisci, siete tutti così testardi in questo posto? Se esci da qui incapperai sicuramente in altri drappelli e non ci sarà nessuno, nessuno a difenderti. Ho visto ragazze come te giacere a forza con decine e decine di soldati. Urlano disperate fino alla fine. Altre rimangono in silenzio a subire gli uomini che affondano nelle loro carni. Molte alla fine, quando più nessuno di occupa dei corpi martoriati, insanguinati, si uccidono gettandosi sulle scogliere sottostanti o con scimitarre rubate ai loro aguzzini. Una, giusto un anno fa, una bellissima nobile di queste contrade, fatta schiava e portata sulla nave, mi uccida Maometto se scorderò mai il suo viso in lacrime, in piedi, a poppa, guardava la costa allontanarsi. Le sue terre, le spiagge della fanciullezza, la dimora pervasa dai sogni di sposa ancora fresca, si allontanavano crudelmente e niente, nessun lamento o preghiere, nessuna implorazione riusciva a smuovere a pietà il corsaro che aveva voluto rapirla e portarla schiava.
Prima che la sua patria scomparisse all’orizzonte, con gesto di fulmine, la donna si tuffò in acqua e si lascio annegare.”
“Perché mi racconti ciò? Vuoi il mio terrore? Che vuoi da me?”
“Non voglio che tu finisca come le altre. Se vuoi posso rimanere con te fino all’alba di domani. Staremo nascosti agli occhi di tutti. All’alba, quando sarà ora per noi di ripartire, troveremo un buon nascondiglio. Non voglio niente da te. E non guardarmi come la scema del villaggio.”
“Perché?”
Rosina guarda il giovane corsaro con nuovo interesse. Non strattona più per liberarsi da lui. Ha persino dimenticato la sua nudità. Lo vede in tutta la prorompente giovinezza. Ne apprezza i lineamenti duri, l’atteggiamento di uomo generoso gli da’ aspetti da dio pagano. Lui le porge con tutta la delicatezza di cui riesce il corpetto bianco strappato, l’aiuta a ricoprirsi alla meglio, l’accompagna, guidandole i passi, verso il mucchio di fieno, in fondo, in fondo.
Siedono stremati, ancora tesi i muscoli a percepire anche i sussurri che giungono da lontano.
A tratti ancora urla atterrite di uomini e donne, spari e ancora grida, dicono che la razzìa continua, violenza e violenza invade le vallate di uliveti fino al pomeriggio.
Poi, improvviso, il silenzio avvolge tutto, ancora più perverso delle grida.
I due trascorrono il tempo delle grida e del silenzio parlandosi. Si raccontano l’un l’altra sogni e realtà. Le vite del corsaro e della fanciulla incrociano strade che non hanno percorso insieme. Si guardano come sanno guardarsi i giovani, scoprendosi gioiosamente vivi, ancora vivi, nonostante tutto, vivi.
Capita che lui le scosti una ciocca ribelle che improvvisa le assale il viso, nascondendolo alla vista. Rosina le prime volte si ritrae istintivamente impaurita ancora. Ma poi, no. Anzi brividi caldi scorrono il suo corpo appena a sfiorarla il corsaro.
Infine, le parole diventano eccitanti silenzi e nei silenzi parlano gli occhi, lampi di eccitazione. All’ansimare timoroso dei petti, nella complice teatralità di un fienile, Rosina e Alì rispondono con i baci.
Nel primo pomeriggio di quel tragico per la gente della contrada delle Palme luglio, la morte si fa vita, il terrore ingioia, tutto, tutto è vita nell’abbraccio improvviso di due corpi ragazzi, che si scoprono ebbri di essere, nonostante tutto, insieme, vicini, l’uno nell’altra, un’anima sola.
Infine è carne che vuole carne, eterna sacralità della vita che inventa altra vita, del seme moltiplicato per la vita.
Fuori anche le grandi nubi, che dallo Stretto portano sciroccate piogge, si fermano un istante ad ascoltare i gemiti dell’amore che vince la guerra. Tra i rami d’ulivo già ricchi di piccoli fiori oleosi, ultime arrivate upupe e tortore intonano canti al cielo, prima che il primo autunno le costringa a migrare.
E’ già tardo pomeriggio, quando Alì riapre gli occhi dal torpore.
Lei non è un sogno.
Viva di carne e respiro, dorme al suo fianco, ormai vinta, legata al cuore del corsaro di Dragut per la vita. Una leggera piega delle labbra, sorriso appena accennato, delicato accenno di sogni di fanciulla, forse castelli incantati, forse anfratti nella costa, dove, in ere primordiali, nacque per la prima volta il tempo.
Lo sente muoversi, si desta anch’ella.
Lui salta in piedi improvviso, afferra le armi; è già pronto a correre fuori.
“Ch’è stato, che succede?”
“Non so. Ho sentito colpi di bombarda, tanti, come quando siamo costretti a salpare in fretta per un pericolo. Devo andare, correre dai miei. Se Dragut mi cerca e non mi trova metterà a ferro e fuoco ancora; ti troveranno, sarai in pericolo”
Un corvo gracchiante attraversa lo spiazzo del fienile.
Rosina, l’assalgono improvvise paure.
“Ma non puoi andar via così, non adesso! Mi lasci già sola?”
“No, piccola mia, non ti lascio. Non ti lascio più. Ho amato queste terre prima di conoscerle e adesso capisco perché. Qui era scritto che incontrassi la mia vita. Qui voglio vivere con te la mia vita.”
Ancora un corvo passa silenzioso.
“Amore mio, il tuo capo, Dragut, non ti permetterà di rimanere. Ti porterà via a forza, ci separerà. Come farò a vivere senza di te, adesso che ti ho avuto?”
Ora le nuvole avanzano spedite verso nord.
“Non avere paura. Mi ama come un figlio. Capirà. Ti prego, non avere più paura! Solo un paio d’ore; tu rimani qui nascosta, non uscire per alcun motivo prima ch’io sia tornato. Ti amo, piccola mia.”
Un bacio, ancora uno.
Rosina rimane sola coi sogni che la invadono ancora gli occhi. Sente ardere tutto il corpo dei suoi baci di fuoco, sente ancora vive e palpitanti le parole d’amore da lui alitate sul viso nel momento dell’amore. Sente forte ancora la sete di baci, carezze e parole d’amore.
Ma passano ore e Alì non torna.
Immagina il cielo ormai invaso da una torma di corvi neri. La giovane sente il cra-cra funereo, ne intuisce i voli da una nuvola all’altra.
“Perché non torna, ancora?”
Poi, improvviso, il silenzio ridiventa rumore.
Rosina tende l’udito al rumore. Sente voci, ma non è la voce di lui. Sono voci paesane, uomini e donne, più uomini che donne e sono voci gioiose. Evviva, hurrà attraversano l’aria che la separa da loro, assalgono con furia le sue orecchie.
Sono proprio voci di amici e parenti.
Rosina esce dal suo nascondiglio, si fa vedere, vede una marea di persone che si fanno luce con le torce perché ormai è sera. Colpi di spingarda per aria, festosi; roncole e lenzuola agitate al cielo come bandiere.
Raccontano di avere sorpreso l’accozzaglia di Dragut in un pianoro nei pressi della torre di guardia a picco sulla Marinella delle Palme. Erano ubriachi e addormentati; un gioco da ragazzi sorprenderli e disarmarli. Poi la vendetta, finalmente la vendetta, una volta tanto la preda uccide il predatore. Decine e decine di masnadieri, un vero e proprio eccidio. Sono scampati quelli che aspettavano sulle navi al largo e un gruppetto, tra cui, purtroppo il loro rinnegato, malvagio capo, Dragut, che aveva preso già la via del ritorno.
Poi, ancora eccitati, ma il cuore preso di paura per il possibile ritorno in forze dei corsari, certamente vogliosi di vendicare i compagni trucidati, i popolani delle Palme si affannano alla ricerca di sicuri nascondigli, dove celarsi con le poche cose preziose non razziate.
E’ un via, vai sempre più esagitato, un trambusto indescrivibile.
Rosina avvampa il viso e lunghi tremori l’attanagliano.
Cerca, a fil di voce, di avere notizie, di sapere l’unica notizia che possa darle felicità o terrore, vita o morte. Prova a parlare ma un rantolo, solo un rantolo sgorga dalla gola.
“Alì, il mio Alì!”
Passa da un gruppo all’altro, ne ascolta i concitati dialoghi, incapace di farsi ascoltare, di chiedere…
“L’ultimo maledetto lo abbiamo sorpreso a poche miglia da qui. Il più giovane, forse aveva smarrito la strada, forse tornava dalla ennesima razzia, forse…
Rosina tende spasmodico il cuore ad ascoltare ancora, ancora….
La sua vita, o la sua morte….
“Morto come una cane senza neppure capire come!”
La morte, non la vita, la morte.
Lontano il truce balenìo sulla linea all’orizzonte, dove mare e cielo s’incontrano, preannuncia una notte di pioggia.
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Ode all'ultimo corsaro
Quel giorno
ali di gabbiani recarono
alla nave i conosciuti odori
di zagara e timo e origano piccolo fiore.
La prua superò punta Rovaglioso
verso la guardiola dei Rupe
decisa a conquistare la terra di Fantino.
Quel giorno
le rose bianche al giardino di agavi
assaporarono i tepori di luglio
e la tua essenza di vergine.
Quel giorno
conobbero l’ultimo viaggio
I corsari di Dragut
Anch’io.
Vederti e amarti e morire e amare
le tue terrazze di finocchio selvatico
odorose e quello scoglio sul mare
dove l’oleastro fa nidi ai passeri.
A caro prezzo pagammo essere corsari.