“AFFITTASI APPARTAMENTO MOBILIATO”
Per informazioni chiedere al custode
Il cartello ha un colore diverso, ma il portiere è sempre lo stesso, forse con qualche filo bianco tra i capelli: «Scala A, terzo piano, interno nove, sarà libero dal quindici del mese, gli inquilini le mostreranno la casa» mi informa, senza staccare lo sguardo dal quotidiano sportivo che sta leggendo e pigiando in maniera meccanica il pulsante per l’apertura automatica del cancello.
Forse percepisce la mia titubanza, alza gli occhi e mi fissa dubbioso per qualche istante, apre di nuovo la bocca per parlare, poi, scrolla la testa e torna alla sua lettura.
“Lo so, grazie. Conosco già la trafila…” rispondo all’uomo tra me e me, mentre affrettando il passo entro nel palazzo.
Nulla è cambiato da allora.
Le stesse righe nere sul marmo ingiallito del pavimento al primo piano, l’intonaco scrostato sul soffitto con le medesime macchie di umidità lungo i muri del secondo piano, il corrimano impolverato e, ancora, le iniziali dei nostri nomi racchiuse in un cuore vicino al campanello dell’interno nove del terzo piano, che mi sorridono beffarde.
Con i polpastrelli delle dita ne seguo il ruvido contorno, sfioro l’interruttore e ritraggo la mano giusto un attimo prima di suonare.
Alzo le spalle e mi riscuoto, faccio per andarmene, ma i miei piedi, quasi dotati di volontà propria, non vogliono riportarmi sui miei passi.
Ora abito dalla parte opposta della città, vicino al centro storico, in un rione colorato e suggestivo. Questa, invece, è una zona periferica, non ci sono centri commerciali né altre attività che possano richiamare la gente che non sia residente, è un quartiere dormitorio e non offre altro.
Non so perché mi sono ritrovata qui.
Ci sono arrivata senza volerlo ed ora non riesco ad andarmene, quasi che rivedere questa casa sia un obbligo morale, un pellegrinaggio da compiere.
Sono spiazzata dal mio atteggiamento e voglio vedere fin dove sarà capace di condurmi.
Il cuore anestetizzato non m’invia alcuna emozione.
Non voglio sapere se sia solo curiosità quella che mi spinge a rimanere li, ad osservare la porta dell’appartamento.
Il legno è scolorito in più punti e vicino alla serratura centinaia di piccole righe s’intersecano le une alle altre.
Resto ipnotizzata da quegli intrecci. Mi affascina il loro allontanarsi ed il ritrovarsi, lo snodarsi parallelo prima di riaccavallarsi e poi, di nuovo, separarsi, sembra seguano il corso convulso dei miei pensieri.
Apro la borsa ed inizio a rimestare al suo interno in cerca delle chiavi.
Attonita e confusa mi siedo sulle scale e torno a scrutare la porta serrata…
“Ma cosa stai facendo?” mi apostrofo perplessa dalla strana piega che stanno prendendo gli eventi.
Fisso le mie mani: «È vero» mi rispondo ad alta voce «cosa sto facendo? Sono quasi tre anni che non abito più qui. Come mi salta in mente di cercare le chiavi nella borsa!»
Mi alzo decisa ad andarmene ma resto impietrita a guardarmi intorno.
Attendo qualche istante per abituare lo sguardo alla penombra. Incredula mi strofino gli occhi e un senso di smarrimento mi assale quando voltandomi, nel portacenere dell’ingresso ritrovo le mie chiavi: “ecco perché non c’erano in borsa!” esclamo trionfante.
Timorosa allungo una mano, poi la ritiro di scatto portandola alle labbra per soffocare l’esclamazione di meraviglia che spontaneamente è sgorgata da esse.
Tutto è al proprio posto.
Gli sparuti mobili che costituivano l’arredamento sono ancora lì, in un miscuglio stridente di stili e di forme.
Avevo dimenticato ogni cosa, ogni dettaglio, anche questa casa, fino a stamattina, fino ad ora.
Guardo verso il piccolo lavello della cucina e vedo ancora i bicchieri con l’impronta del rossetto delle mie labbra e la bottiglia di spumante aperta per festeggiare la tua specializzazione.
Infilo timidamente la testa nella camera da letto.
All’angolo, vicino la finestra, è ancora poggiata la valigia rossa, quella che avevamo sempre pronta e che ci ha seguiti in tutti i nostri viaggi improvvisati, decisi dalla sera alla mattina, quando, senza avvisare nessuno, fuggivamo per stare soli e vivere il nostro amore.
Tra le pieghe del letto, perennemente disfatto, ritrovo dolci carezze e briciole di biscotti, i cuscini sghembi e fuori posto soffocano le nostre allegre risate e i sensuali bisbigli.
Sorrido indulgente.
Il nostro è stato un rapporto vorticoso, intenso, bruciato in fretta. Arso veloce, come un legno stagionato, in una unica fiammata calda, ipnotica, brillante, che non ha lasciato braci di rimpianti, solo piacevoli ricordi e niente di più.
Un ultimo sguardo e mi rendo conto della polvere che ammanta ogni cosa.
Non aprirò le finestre per lasciar entrare la luce del sole, meglio che tutto resti in penombra, che nulla alteri questa apparente immobilità.
Un calpestio di passi ed il rumore dell’ascensore mi riportano bruscamente alla realtà.
«Devo andare» mi incito, «in fondo non c’è nulla qui che mi interessi portare con me. Sì, meglio andare» mi ripeto «prima di smarrirmi in questo gioco, di perdere il senso della misura e cercare qualcosa che da tempo non c’è più».
Mi alzo, con le mani liscio la gonna per togliere da essa grinze immaginarie e scrollare via la ruggine della malinconia.
Appena fuori dal palazzo, con un sospiro di sollievo, accolgo l’aria tiepida che mi carezza il viso e, a passo spedito, percorro il vialetto che fiancheggia il giardino per raggiungere il cancello d’uscita.
Il portiere si è allontanato dalla guardiola e sta fumando appoggiato alla ringhiera.
Lo saluto con un sorriso luminoso e un cenno del capo.
Questa volta mi osserva con intensità, si gratta la testa indeciso e poi annuendo soddisfatto esclama: «Buongiorno signorina, ma lei…?!».
“Si, non ha sbagliato, sono proprio io” gli confermo tacitamente con il capo, senza fermarmi.
Sono già fuori, oltre il cancello quando, senza voltarmi e alzando la mano, gli grido: «Addio!».
Mentre il sole della tarda mattinata mi abbaglia con il suo splendore e il calore intenso dei suoi raggi carezza le mie spalle, il cartello d’affitto diventa sempre più piccolo, come il coriandolo di un breve carnevale.